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1041. Coronavirus: “Solo la ricerca salverà l'Italia”. L'università e la guerra al Covid  
20 Marzo 2020 da affari italiani.it Coronavirus, “Solo puntando tutto sulla ricerca l'Italia riuscirà a salvarsi ed uscirà più forte da questa crisi che durerà ancora a lungo”. Con queste parole il direttore generale della Link Campus University, Pasquale Russo, lascia poco spazio all'immaginazione: mentre l'università continua a lavorare in streaming, il Bel paese ha sotto gli occhi la soluzione per ripartire. Direttore Russo, come sta vivendo la vostra università questa emergenza Coronavirus? “Link Campus University, essendo una università molto tecnologica, non ha avuto grossi problemi a fare lo 'switch' e trasferirsi a casa. Il 95% del nostro personale è in smart working. Solo una decina di persone, tra cui io e il Rettore, stiamo continuando a venire a lavorare in sede. Nel frattempo abbiamo fatto sanificare tutti i locali, dagli uffici alle aule ai bagni. Inoltre, ogni settimana, inviamo a tutti i nostri studenti, che sono poco meno di 2000, un questionario in cui chiediamo loro quali sono gli aspetti positivi e negativi di questa didattica alternativa e quali sono quelli da migliorare. In base alle risposte che ci vengono date, ci riuniamo insieme ai coordinatori dei corsi di laurea via streaming, utilizzando Google Meet e studiamo delle migliorie da apportatore al sistema. Non le nascondo che fare riunioni in questa maniera è molto faticoso, ma andiamo avanti lo stesso perché il sistema sta funzionando bene”. Ci sono casi accertati di Covid-19 tra i vostri studenti e dipendenti? “Al momento non ci risultano casi positivi. Ne abbiamo la certezza tra i nostri dipendenti, ma non tra gli studenti. Potrebbero esserci dei casi positivi che non ci sono stati comunicati per paura, ma al momento non ci risultano. Noi siamo sempre vigili sulla situazione e chiediamo informazioni ai nostri ragazzi, poi sta a loro dirci la verità”. Ha parlato di didattica alternativa. Come stanno procedendo le lezioni? “La nostra università non ha voluto utilizzare un sistema telematico per svolgere le lezioni, ma ha preferito lo streaming. Docenti e studenti si collegano alla piattaforma e possono vedersi tutti in volto tramite una webcam, simulando la vera e propria esperienza fatta in classe. Nella stessa modalità stanno andando avanti i master, tutto il comparto ricerca e la nostra scuola di politica. Di quest'ultima sono stati rinviati tutti gli eventi in programma, ma stiamo pensando di ripristinarli sempre in forma streaming”. Come si stanno trovando i docenti a stare dietri ad un computer rispetto alla vecchia cattedra? “Devo essere onesto, c'è chi si è trovato bene fin da subito e chi ha avuto un po' di difficoltà. Abbiamo docenti giovani e molto 'smart' che non hanno avuto nessun tipo di problema a utilizzare la piattaforma, ma abbiamo anche professori più 'attempati' che hanno riscontrato un po' di difficoltà. Per questo i docenti possono svolgere le lezioni in streaming sia da casa, poiché li abbiamo forniti tutti di una rete Vpn in modo tale da preservarne la nostra e la loro privacy, che venire in università e utilizzare le nostre apparecchiature con l'aiuto di un tecnico, sempre rispettando le dovute distanze imposte dal Governo”. E gli studenti? Rispetto alle classiche lezioni in aula, riscontrate una maggiore o una minore partecipazione? “La partecipazione è maggiore, ma la mia preoccupazione è che possa essere legata alla novità della cosa. Ben 25 anni fà scrivevo libri sul telelavoro e so per certo che, qualora un'attività lavorativa non sia mediata da una presenza fisica, alla lunga stanca. Per questo stiamo chiedendo al nostro corpo docente di coinvolgere il più possibile gli studenti. Le lezioni infatti sono strutturate con un'ora di didattica classica e due ore di quiz, test e domande inerenti alla materia in questione in modo tale da tenere alta l'attenzione dei ragazzi. Sono certo che emergenza continuerà anche oltre il 3 aprile, per cui la nostra forza sarà quella di puntare su delle lezioni molto interattive”. Capitolo esami? “Anche qui stiamo seguendo le disposizioni arrivate dal Ministero e stiamo procedendo con esami in streaming, solamente orali. Per quanto riguarda il riconoscimento del candidato che si appresta a svolgere l'esame, argomento chiacchierato in questo periodo, la nostra fortuna è che avendo classi molto piccole, in stile liceo, i docenti conoscono perfettamente ogni loro studente e sono in grado di riconoscerli all'istante. Una disposizione ulteriore che abbiamo dato a docenti e studenti è quella di fare domande brevi con risposte brevi, in modo tale che i candidati non abbiano il tempo di consultare sotto la webcam appunti o libri. Lo streaming fatto in questa maniera ci è sembrata la formula migliore per garantire la regolarità degli esami”. Stesso discorso per le lauree? “Esattamente. La commissione si collega in streaming, qualcuno si trova in università e qualcuno da casa ad ascoltare la relazione del candidato. Non abbiamo fermato nulla”. Con tutte queste novità sperimentate in questo periodo, il mondo universitario può dire di uscirne fortificato? “È quello che dico dal primo giorno. Io sono convinto che quando sarà finito il Coronavirus, oltre al mondo universitario, anche l'Italia sarà migliore. Ne usciremo più forti, soprattutto quelli che hanno colto subito la possibilità di cambiare e non si sono fatti prendere dal panico. Come diceva Darwin 'Non sopravvive il più forte, ma quello che si adatta più velocemente', ma ci vorrà ancora parecchio tempo. L'Italia deve approfittarne per cambiare, per diventare più aperta verso il resto del mondo. Dobbiamo puntare sulla ricerca, è solo così che si può far tornare l'Italia tra le leadership mondiali. Bisogna far nascere un nuovo Risorgimento, puntando sulle 'research university'. Noi abbiamo un dipartimento di ricerca molto forte e apprezzato, questo perché nonostante siamo un'università privata che non riceve fondi dallo Stato, attraverso le rette paghiamo i professori senza incassare gli utili, ma li investiamo nella ricerca. Se ci riusciamo noi nel nostro piccolo, non vedo perché non dovrebbero riuscirci anche realtà più grandi”.  
1042. La crisi sul prezzo del petrolio può ridisegnare nuovi equilibri geo-politici  
23 Marzo 2020 del Generale Massimiliano Del Casale, Link Campus University. Il prezzo del greggio quota oggi meno di 30 dollari al barile. Occorre risalire alla crisi del Golfo del 1991 per trovare alcune similitudini con la situazione odierna. Un minimo storico che rispecchia le preoccupazioni crescenti a livello globale sul mercato. L’approvvigionamento sembra tenere un costante trend di crescita, ma la domanda terrà difficilmente il passo in una situazione generalizzata di progressivo, sebbene temporaneo, calo dei consumi nel tempo del Coronavirus. Il 6 marzo scorso, a Vienna, si è di fatto consumata l’ultima frattura in ordine di tempo nel c.d. OPEC plus, il consesso che riunisce i Paesi OPEC, guidati dall’Arabia Saudita, e i Paesi non-OPEC con la Russia a capofila. Quest’ultima ha negato un accordo sul taglio alla produzione, proposto dalle potenze petrolifere del Golfo. Una mossa che deprime le economie maggiormente legate alle esportazioni di petrolio, ma che potrebbe indebolire soprattutto la leadership di “Mbs”, il principe Mohammad bin-Salman al-Sa’-ud, il trentaquattrenne futuro monarca destinato a perpetuare la dinastia saudita. Una figura politica controversa, capace di vere fughe in avanti nel modernizzare i costumi di quella società e, al contempo, protagonista di clamorosi ritorni al passato più oltranzista e tradizionalista. Per tutta risposta, l’ARAMCO, la compagnia di stato petrolifera saudita, il 9 marzo -appena tre giorni dopo il vertice di Vienna- ha deciso la riduzione unilaterale del costo del greggio, come mai negli ultimi venti anni, di 4-6 dollari al barile. Ribasso che ha di conseguenza determinato una riduzione di 7 dollari al barile del WTI americano, passato poi a 29 dollari, e di 10 dollari al barile del Brent del Mare del Nord, sceso a 33 dollari. Al momento, vani tutti i tentativi di ricomporre il confronto tra le parti, l’unica prospettiva davvero concreta è che dal 1° aprile prossimo non ci saranno più restrizioni nella produzione di greggio, né per i Paesi OPEC né per quelli non-OPEC. Ma perché tutto questo? Perché le parti non sono riuscite o non hanno inteso trovare un punto d’incontro, quanto meno provvisorio? Le risposte vanno individuate, come sempre, in un mix d’interessi, economici e geo-politici. L’economia del più grande Paese arabo si basa per il 75% sull’export di greggio. E’ pertanto evidente come una riduzione nella produzione manterrebbe su livelli apprezzabili il costo al barile, garantendo quegli introiti necessari per la tenuta del sistema economico saudita. La Russia, dal suo canto, teme che un abbassamento dei ritmi produttivi possa lasciare spazi di mercato, specie nel continente asiatico, al petrolio statunitense la cui produzione, al contrario di Russia e Arabia Saudita, è peraltro in mano a compagnie private. Inoltre, l’economia americana è molto più articolata e complessa e svincolata dal solo andamento del mercato dei prodotti petroliferi. Una Russia che, dovendo anche fronteggiare sanzioni commerciali, è impegnata nel ricercare nuove partnership. Lo scorso autunno, Putin e Duterte, il leader filippino, hanno discusso per individuare ambiti di cooperazione per consentire alla russa Rosneft di avviare una campagna di sondaggi dei fondali nelle acque del grande arcipelago asiatico. Il Covid-19 ha fatto il resto, abbassando di oltre il 30% la domanda mondiale di greggio rispetto all’inizio dell’anno e determinandone il deprezzamento di un quinto del suo valore da quando l’epidemia ha iniziato a diffondersi, dapprima in Cina e poi nel resto del pianeta. Ma la vera competizione è con gli Stati Uniti. Dall’avvento dell’OPEC+, ossia quando venne siglato nel novembre 2016 l’accordo tra Russia e Arabia Saudita per ridurre l’offerta di greggio di 2 milioni di barili al giorno, gli USA hanno aumentato la propria produzione del 50%, portandola da poco meno di 9 a 13 milioni di barili al giorno. Cosicché gli Stati Uniti non solo hanno raggiunto l’autosufficienza energetica, ma stanno contendendo all’Arabia Saudita la leadership mondiale nell’esportazione di oro nero. Se, nel breve termine, la situazione può favorire l’assertività saudita, sul medio-lungo termine l’economia statunitense appare certamente più solida, più attrezzata e, quindi, più capace di sopportare i traumi di mercato. Le compagnie americane coprono interamente e in modo più efficiente i costi di produzione con quotazioni ben al di là dei 50 dollari al barile. La saudita ARAMCO dovrebbe assicurarsi quotazioni superiori agli 80 dollari al barile per chiudere in pareggio il bilancio pubblico annuale. Quindi, l’attuale costo del greggio, che oscilla tra i 27 e i 33 dollari al barile, non è sostenibile per Rijadh sul lungo termine e con aree di mercato stabilizzate e definite. In questo gioco del “tutti contro tutti”, si creano nuovi allineamenti, si possono modificare equilibri geo-politici. E il primo terreno di confronto sembra essere proprio il Medio Oriente. Il legame tra Stati Uniti e Arabia Saudita si è sempre basato su di un fortissimo rapporto di interessi, geo-politici prima che economico-commerciali. Grazie allo stesso supporto americano, i Sauditi hanno potuto recitare sino ad oggi la parte di leader regionale indicando tempi e scelte alle altre monarchie del Golfo, ad esclusione dell’Oman, sino allo scorso gennaio guidato dal vecchio sultano Qaboos bin Said che, nei suoi quasi 50 anni di illuminato governo, è riuscito a tenere il proprio Paese lontano da ogni contesa, in un’area tra le più instabili del mondo, e il Qatar che, non condividendo le politiche di mercato del Gulf Cooperation Council, nel 2017 si è allontanato dalle altre monarchie aprendo ad una forte cooperazione con Iran e Turchia ed andando così pure incontro a sanzioni economiche che, di fatto, non hanno scalfito la tenuta complessiva del Paese. Un supporto americano che ha consentito nel tempo di potersi dotare di forze armate modernamente equipaggiate, di moderne infrastrutture e di realizzare un’efficiente sistema di sicurezza interna. Risorse che hanno consentito sino ad oggi all’Arabia Saudita di detenere un primato regionale. Condizione che, d’altro canto, per gli USA ha rappresentato, e rappresenta tuttora, una polizza assicurativa contro l’espansione d’influenza da parte, un tempo, dell’Unione Sovietica e, oggi, della Russia. Senza dimenticare che, pur essendo in grado di provvedere autonomamente al proprio fabbisogno energetico, gli Stati Uniti importano greggio dai Sauditi per circa due milioni di barili al giorno. Va poi considerato che, in Arabia Saudita, si trovano le città La Mecca e Medina, due dei tre luoghi più importanti della tradizione musulmana. I luoghi che, rispettivamente, dettero i natali a Maometto e quelli ove il Profeta concluse la sua esistenza ed è sepolto. Petrolio ed Islam, quindi. Un binomio che ha reso la nazione saudita il Paese più importante del Golfo Persico, di tutto l’Islam nonché membro del G20 e che può godere del pieno appoggio, politico e militare, della prima potenza mondiale. Ma come viene percepita oggi quella che Paolo Wulzer, docente presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, ha definito dando il titolo ad un suo recente, bellissimo volume Una relazione “complicata” ma “complementare”? La Gallup Pool, agenzia di sondaggi d’opinione e di ricerche statistiche di Washington, ha stimato che, a partire da febbraio 2019, solo il 4% degli Americani esprime un giudizio “molto favorevole” sull’Arabia Saudita, mentre il 25% si dichiara “piuttosto favorevole”. Un risultato che esprime una popolarità inferiore pure a Cuba e Venezuela. Secondo un altro sondaggio condotto da YouGov nell’autunno 2018, moltissimi cittadini statunitensi percepiscono l’Arabia Saudita più come nemico che alleato. Certamente, il clamore destato -e che tuttora desta- l’assassinio dello scrittore giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre dello stesso anno presso il consolato saudita di Istanbul, è stato molto forte e di sicuro condizionerà per lungo tempo l’opinione pubblica. Lo dimostra il fatto che un sondaggio più recente (settembre 2019) condotto da Businness Insider ha fatto emergere che appena il 22% degli intervistati considera l’Arabia Saudita come alleato. Certo, l’amministrazione Trump guarda la realtà da un’altra prospettiva, ma in democrazia, si sa, è difficile dire alla gente che stai facendo cose per il bene di un’alleanza alla quale i tuoi connazionali per primi non credono. E da parte araba? Come viene vista oggi questa relazione? Un banco di prova, tristissimo quanto drammatico, è rappresentato dalla guerra civile dello Yemen, avviata nel 2015. L’ennesima “war by proxy” che ha visto fronteggiarsi le monarchie del Golfo, Sauditi in testa, a sostenere il governo internazionalmente riconosciuto del presidente Hadi contro le milizie Houthi, di confessione sciita, spalleggiate dall’Iran. Una guerra che è costata 91.00 vittime e che ha portato allo stremo un paese facendolo diventare il più povero al mondo. Un conflitto che non ha visto né vinti né vincitori e che oggi sta portando le parti a mediare per una soluzione condivisa. A nulla, quindi, è valso il supporto fornito all’Arabia Saudita dal grande alleato americano. Un supporto percepito come insufficiente, inconsistente, non determinante e, quindi, insoddisfacente. Di certo, dopo l’eliminazione nel gennaio scorso del generale Qasem Soleimani, capo dei Guardiani della Rivoluzione e figura carismatica della nazione iraniana, erano tutti convinti di assistere all’ultima sfida lanciata dal “tycoon” contro il regime degli ayatollah, primo atto di un nuovo conflitto capace di accendere il Medio Oriente. Così non è stato. Gli USA hanno probabilmente rinunciato a compiere un ulteriore passo, vista l’impossibilità di proteggere tutti i siti petroliferi sauditi da una sicura reazione iraniana ad un attacco militare sferrato sul proprio territorio. Si percepisce tuttavia un cambio di atteggiamento sul piano internazionale da parte dell’Iran, più cauto e meno assertivo rispetto ad un recente passato. Stiamo assistendo ad un riallineamento di posizioni nella sub-regione del Golfo Persico? Difficile poterlo affermare. La presenza militare americana nell’area è sempre ancora molto consistente, ma non può bastare da sola a dare nuova linfa ad un’alleanza che sta attraversando una fase di stanchezza. L’Arabia Saudita, per scelta o per convenienza, sembra voler dare una svolta alle situazioni conflittuali che la vedono da tempo coinvolta: Yemen, Qatar e Iran. Per la soluzione della crisi yemenita, è pronta a considerare un ruolo per gli Houthi nella governance del Paese. Nei confronti del Qatar, fallito nella sostanza l’isolamento che avrebbe dovuto minarne qualsiasi tipo di relazione internazionale, è da tempo in atto un’operazione di riavvicinamento. La partita più importante la si gioca tuttavia con l’Iran, il cui tema dominante di politica estera resta incentrato sulla necessità di liberare l’intera regione dalla presenza straniera, specialmente di quella americana, e di dar vita ad un’alleanza tra tutti i Paesi del Golfo in grado di garantire, anche sul piano militare, la necessaria sicurezza e una durevole stabilità. In questa direzione, indicata a più riprese recentemente dal ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, ha iniziato a muoversi anche l’Arabia Saudita. Difficile essere sicuri della concreta volontà delle parti di giungere almeno ad un patto di non aggressione che garantisca un’adeguata stabilità nell’area. Per quanto riguarda la Russia, il duro confronto consumatosi nel corso della riunione dell’OPEC+ del 6 marzo a Vienna, che ha visto il rappresentante di Mosca respingere la richiesta araba di ridurre di 1,8 milioni di barili al giorno la produzione a fronte di una minore domanda mondiale, legata al diffondersi del Coronavirus, secondo molti osservatori internazionali mette in realtà “nel mirino” l’industria petrolifera americana. Il perdurare della guerra sul prezzo che si è appena innescata può arrecare forti danni all’economia USA, finanche un ridimensionamento dell’industria energetica a stelle e strisce che può toglierle il primato mondiale. L’approccio russo tende a mantenere inalterati gli spazi di mercato posseduti che, invece, potrebbero essere in parte perduti a fronte di una riduzione degli attuali livelli produttivi, nella convinzione che lo scopo ultimo non sia già mettere in crisi le compagnie petrolifere d’oltreoceano quanto la politica delle sanzioni che gli USA han potuto attuare, forti della grande disponibilità di risorse energetiche. Un atteggiamento che ha di sicuro inasprito i rapporti di Mosca con l’OPEC. Rapporti resi ancor più difficili dallo stallo nella realizzazione del North Stream 2, la pipeline che convoglierà il gas naturale russo verso l’Europa. Uno stallo conseguente alle misure restrittive imposte all’indomani dell’annessione della Crimea, ma che, dalla prospettiva di Mosca, sono da sempre viste come il disegno tracciato da un’unica mano, quella di Washington che, dalla sua posizione di dominance energetica, assiste, per ora senza particolari sussulti, a questo (apparente?) scontro tra giganti. Di certo, la Russia ha fatto tesoro delle esperienze negative vissute in campo economico. Negli ultimi dodici anni, non ha esitato a tagliare pesantemente il proprio debito pubblico con manovre di bilancio ed interventi normativi che hanno ridotto molto sensibilmente l’enorme apparato burocratico del paese, consentendo di avviare un’importantissima campagna di investimenti e di colmare tutte le proprie riserve energetiche. Molti osservatori stimano che essa sia in grado di sostenere l’attuale situazione per almeno dieci anni. Nel frattempo, sul piano politico internazionale, nonostante la guerra in atto sul prezzo del petrolio, Mosca e Rijadh continuano a dare segnali di forte intesa sul piano degli investimenti pluriennali (Vision 2035). E sarebbe un grave colpo per gli Stati Uniti se riuscissero a trovare le misure per un concreto legame. Ma vi sono due ulteriori aspetti che nel breve-medio termine possono giocare a favore del presidente Putin. L’ingresso sullo scenario libico, inizialmente al fianco del generale Khalifa Haftar e, più di recente, su posizioni di maggiore equidistanza rispetto al governo riconosciuto di Tripoli, di Fayez al-Serraj, assicurerà per il futuro una consistente fetta di mercato energetico libico nonché la presenza stabile in un’area da sempre ambita quanto preclusa, ai Sovietici prima e ai Russi poi. Ma è con l’Iran che dobbiamo prepararci a veder giocare una nuova partita. Russi e Iraniani hanno sviluppato rapporti assai complessi. In Siria, entrambi supportano, sebbene con motivazioni ben diverse, il regime di Assad. I primi, entrando con decisione nel conflitto contro ISIS al fianco del governo e colmando di fatto un vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Un’iniziativa che ha consentito di restare stabilmente nel Medio Oriente, anche sul piano militare, nelle basi di Tartus e Latakia. I secondi, combattendo al fianco e sostenendo finanziariamente le milizie sciite e hezbollah per contrastare soprattutto la temuta espansione wahabita dello Stato Islamico e le rivolte anti-Assad che, qualora avessero trovato terreno fertile, avrebbero impedito la realizzazione della c.d. “Mezzaluna Sciita”, quell’arco di Paesi comprendente Libano, Siria, Irak e Iran. Parliamo quindi di un rapporto destinato a cementarsi sempre più e a creare nuovi equilibri intorno al Golfo e che può portare Mosca a diventare nel lungo termine arbitro e garante dei futuri equilibri del Medio Oriente, di pari passo col dissolvimento della presenza americana, in ossequio alla policy “America first”, oggi seguita da Washington. La soluzione dell’attuale crisi sul prezzo del petrolio ci dirà molte cose sul futuro della regione. E la Cina? Il Coronavirus sta condizionando l’economia mondiale. Ad oggi, i consumi energetici cinesi si sono ridotti del 20%. Ma l’attenzione per il Medio Oriente e per il petrolio mediorientale, indispensabile per il funzionamento dell’enorme sistema industriale del Paese, è sempre più forte. Pechino mira a stabilire rapporti di cooperazione con tutti gli attori regionali, imperniando la propria azione non solo sull’azione politica, come hanno sinora fatto gli Stati Uniti, ma proponendo un modello di stabilità basata sullo sviluppo economico complessivo. A partire dal 2015, Xi Jimping ha avviato una campagna di investimenti, il “China’s Arab Policy Paper”, che si articola su tre diversi piani d’intervento, la c.d. formula “1+2+3”, ponendo la cooperazione energetica sul primo step (1°), seguita dalla realizzazione delle infrastrutture (2°) e dall’energia nucleare e la ricerca di nuove fonti energetiche (3°). Un impegno finanziario pari a 600 miliardi di dollari in 10 anni, per accordi commerciali con Arabia Saudita e Iran, 15 miliardi di investimenti in Egitto, senza tralasciare nemmeno la Palestina con 300 milioni di dollari. La Cina mira in sostanza a tenere sempre alta la stabilità in un’area fondamentale per l’alimentazione del proprio sistema industriale. Un’area essenziale per il “BRI”, la “Belt and Road Initiative”, che investe appieno la regione, con la presenza di porti “cinesi” a Gwadar (Pakistan) e Gibuti, lungo la cintura marittima, e il fondamentale nodo di Teheran per i collegamenti terrestri con l’Occidente. Queste le ragioni che suggeriscono alla Cina di non interferire politicamente in Medio Oriente. Il rafforzamento di tensioni tra global players, come Russia e Stati Uniti, o tra attori regionali, quali Israele, Iran, Siria e Arabia Saudita con tutto in mondo arabo, danneggerebbero i piani di sviluppo cinesi e comporterebbero ingentissime perdite economiche connesse anche con la possibile riduzione dell’afflusso in patria di risorse energetiche. Cosa attendersi per il futuro? Se si considera l’attuale crisi sul prezzo del petrolio, che peraltro condiziona globalmente soprattutto le economie dei Paesi maggiori consumatori di energia, come una parentesi della dialettica politica internazionale, l’area mediorientale e, più in particolare, la sub-regione del Golfo Persico sembra andare incontro ad una fase di “minore instabilità” rispetto al recente passato. Su questo processo di timida normalizzazione pesano ovviamente il programma nucleare iraniano e le minacce, nemmeno tanto velate, rivolte all’Occidente sulla possibilità di dotarsi dell’arma nucleare. Il paradosso possibile consiste tuttavia in una sorta di principio dei vasi comunicanti applicato alla geo-politica. Mentre molte tensioni potranno diminuire col tempo nella zona sud del Medio Oriente, sono invece destinate ad aumentare nell’est del Mediterraneo ove la Russia ha ormai da tempo una presenza militare stabile -e senza precedenti- e dove la Turchia di Erdogan va manifestando di giorno in giorno una politica sempre più assertiva, complice un colpevole immobilismo dell’Unione Europea e dei suoi Paesi membri.  
1043. Mistero-in-comune  
23 Marzo 2020 di Marco Emanuele da Formiche.net E’ tornato il tempo di riflessioni fondamentali. Partiamo dal mistero di noi e della realtà. Spesso ci sentiamo in crisi perché non riusciamo a comprendere il mistero, a farlo nostro, a possederlo. E viviamo male, ci sentiamo privati di onnipotenza e ci domandiamo come sia possibile che noi umani, esseri superiori, non possiamo accedere all’ultimo scalino della conoscenza, non possiamo aprire le porte del mistero. Invece, se problematizzassimo la nostra ragione, se ci vincolassimo alla sua finitezza, quella crisi sarebbe generatrice, generativa della nostra istituzione. Nel nome di una ragione assolutizzata pretenderemmo di conoscere il Tutto sentendoci Titolari Ultimi di Verità: superuomini, quasi dei. Così, in realtà, prepareremmo il terreno alla nostra fine. Magari saremmo potenti, dominanti ma intimamente fragilissimi. Il mistero non si può occupare (1). Nel mistero vi è il movimento vitale istituente, non razionalizzabile, misterioso “vuoto potenziale”. Lì, in quel vuoto, si sarebbe originato il il nostro universo, un complesso che, dice Morin (2018), si è auto-organizzato creando una dialogica nel contempo conflittuale e cooperatrice: ordine/disordine/interazione/organizzazione (2). Da questo mistero dell’universo nasce un ammonimento per la nostra idea di ordine (3). Se la realtà è fatta di continui antagonismi e ritorni tra forze divergenti e convergenti, l’ordine mai può darsi come compiuto. E’ una partita infinita dal risultato incerto; le imprevedibilità, dinamiche nel processo perenne di (ri)creazione, ci mostrano quando l’ordine nasca nel disordine. L’ordine, dunque, non è mai del tutto possibile ma è sempre un potenziale-in-metamorfosi, (im)possibile: se l’ordine fosse del tutto possibile sarebbe incapace di evoluzione, dunque impossibile. E’ disintegrandosi che l’universo si organizza, nota Morin (2018) (4). Dall’universo al vivente, dobbiamo fare i conti – come spiega Morin (2018) – con il fatto che l’auto-organizzazione del vivente è sottomessa continuamente alla disintegrazione.  La sua attività permanente comporta dispendio di energia e processi di degradazione che conducono alla morte, da cui la necessità di attingere energia, organizzazione e informazione nell’ambiente. L’autonomia del vivente può mantenersi solo nella dipendenza dalla sua ecologia: da qui il concetto chiave di auto-eco-organizzazione. E’ questo paradosso: l’autonomia ha bisogno di essere dipendente per essere autonoma (5).  Entriamo, in tal modo, nell’intuizione panikkariana di inter-in-dipendenza laddove scopriamo che la nostra vita muove tra vincoli e possibilità. Così, quando parliamo di comunità, non utilizziamo un termine neutro. Ciò che ci tiene insieme, al contempo debito e dono, ci condiziona e ci libera. Lo spazio comune, misterioso perché “sfuggente”, non appartiene a qualcuno (privato) e non appartiene a tutti (pubblico); il comune appartiene a tutti e a nessuno e, non essendo concettualizzabile, è solo vivibile. E’ nel comune, spazio comune, che possiamo (ri)trovarci, in progress realizzando le ragioni e le forme della nostra con-vivenza. In quello spazio, conflittuale e cooperativo, integrante e disintegrante, (ri)cerchiamo l’ordine e viviamo il mistero-in-comune. NOTE (1) Edgar Morin, Conoscenza, ignoranza,, mistero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, p. 36: Il mistero è nel reale, forse nei due sensi della parola “mistero”: – inconoscibile; – cerimonia profana/sacra in cui le nostre vite giocano e si giocano. (2) Morin, op. cit., p. 44. Continua l’Autore (op. cit, p. 45): La legge dialogica ci dice (…) che tutto ciò che è separato è legato. (3) Morin, op. cit., p. 47: Ripetizione, reiterazione, ripresa sono necessarie all’esistenza delle stelle, dei viventi, degli umani, delle società. Ma non meno necessarie sono la nascita, l’innovazione, la creazione. E inevitabili sono la disintegrazione, la degenerazione, la morte. Scrive ancora l’Autore (op. cit., p. 50): Eros (forze di legame, di associazione, di unione) e Thanatos (forze di dissociazione, di conflitto, di distruzione) (…) si combattono senza tregua, ma non possono separarsi né sopravvivere l’uno senza l’altro. Ciò che accade nel cosmo continua in altro modo nell’umanità. (4) Morin, op. cit., p. 46 (5) Morin, op. cit., pp. 61 e 62  
1044. Fuoco su Napoli  
7 MAGGIO 2018 Liberamente tratto dal romanzo di Ruggero Cappuccio Regia di Ruggero Cappuccio Nadia Baldi Con Nicolo' Battista Margherita Carducci Beatrice Cattivera Chiara Comini Micaela Fiore Martina Gargiulo Pal Kolndrekaj Anna Claudia Pierluca 11 maggio 2018 - ore 21.00 Università degli studi Link Campus University Gymnasium - Via del Casale di San Pio V, 44 Scarica la locandina  
1045. Lectio Magistralis di Guido Maria Brera  
7 MAGGIO 2018 Mercoledì 16 maggio, ore 16.00 Antica Biblioteca Università degli Studi “Link Campus University”, Via del Casale di San Pio V, 44 - Roma Lectio Magistralis Dott. Guido Maria Brera Chief Investment Officer CIO di Kairos a Julius Baer Company MODERA Prof.ssa Anna Elvira Graziano Università degli Studi “Link Campus University” La lectio magistralis si colloca all'Interno del Corso di laurea in Economia Aziendale Internazionale e del Corso di laurea magistrale in Gestione Aziendale  
1046. I.R.I.: Insieme Ricostruiamo l’Italia  
23 Marzo 2020 di Pasquale Russo da Affari Italiani Per evitare la completa distruzione del tessuto delle piccole PMI il Governo deve fornire loro i soldi che non potranno guadagnare in questo periodo. Le imprese, i datori di lavoro, stanno affrontando una crisi di liquidità che si inasprirà nei prossimi mesi, non si tratta quindi solo di fornire cassa integrazione o blocco dei pagamenti. Questi ultimi soprattutto si ripresenteranno dopo un periodo in cui le aziende non solo non hanno fatto margini, ma neanche ricavi, si sta per cui diffondendo tra i piccoli e micro imprenditori la voglia di chiudere licenziando tutti. Sono processi che non si intercettano finché non si mostrano ma stanno camminando sotto traccia nelle chat degli informali distretti industriali che in Italia connettono fornitori e clienti. C’è un imperativo: bisogna preservare la capacità imprenditoriale italiana già stressata perché sottoposta ad un livello di tassazione tra i più alti del mondo e sicuramente stremata dai mille adempimenti burocratici che si sono ripresentati in questo decreto “Cura Italia”. Come si fa ad accedere alla cassa integrazione? Per chi non l’ha mai fatto non è semplice. Come si fa ad accedere ad un fido garantito dalla CdP? Per chi è abituato a garantire i fidi con il proprio lavoro non si sa da dove cominciare. L’IRI fu il più importante strumento di ricostruzione nel Dopoguerra, dal 1945  diventò strategica nell'impostare e guidare progetti che furono i "vettori" dello sviluppo produttivo e della modernizzazione del Paese, un esempio per tutti, la realizzazione dell'Autostrada del Sole. E l’Italia di questo ha bisogno. Anche i Governi dei  Paesi iperliberisti come Regno Unito e Stati Uniti, stanno agendo dando direttamente liquidità ad imprese e lavoratori, perché l’Europa e in particolare l’Italia non possono farlo? Loro stanno salvando la loro supremazia e noi? Abbiamo l’occasione di modernizzare lo Stato, rafforzare il sistema produttivo e dargli un indirizzo strategico, purché le scelte dell’emergenza siano anche scelte che indirizzino il sistema industriale. Sarebbe come se lo Stato facesse un’opera di seed money per tutte quelle imprese che non licenziano ma che continuano a pagare i lavoratori,  che accelerano la digitalizzano del Paese, lo rendendolo più sostenibile, o che investano in ricerca recuperando la nostra capacità manifatturiera rafforzando il nostro modello vincente: il sistema delle micro, piccole e medie imprese italiane. Il Mondo in cui tutte le scoperte (brevetti) si facevano negli Stati Uniti e tutta la produzione si faceva in Cina credo sia finito, il Mondo non può permettersi più una crisi della supply chain mondiale e i Paesi vorranno mantenere un produzione interna almeno quelli come l’Italia che possono farlo. Abbiamo riscoperto lo Stato in questo momento di crisi della salute delle persone, ma dopo la salute come bene primario c’è la possibilità di vivere lavorando. Dobbiamo riscoprire lo Stato anche nella fase di ricostruzione dell’Economia e non si parla di collettivismo, si parla di evitare licenziamenti collettivi che potrebbero distruggere il patrimonio che noi abbiamo, il saper fare, quello che ha creato lo stile italiano e che vede nella Moda e  nella meccanica della Ferrari la sua espressione più alta. IRI: Insieme Ricostruiamo l’Italia, è l’occasione che ha questo Governo per dare ai nostri giovani un futuro migliore e che l’Europa non deve impedire.  
1047. Entrando nell’Età delle Catastrofi  
24 Marzo 2020 “Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?” (Lorentz) di Pasquale Russo da Medium.com «Il mondo è tutto ciò che accade». La prima proposizione del Tractatus (1922) di Wittgenstein ricorda, con geometrica laconicità, che viviamo in un mondo di eventi. Le. catastrofi sono tali soltanto in una prospettiva antropocentrica. Da questa prospettiva posso ricordare che gli ultimi 20 anni sono stati particolarmente densi di crisi e catastrofi. quali gli attentati dell’11 Settembre 2001, la SARS, lo tsunami di Sumatra e l’uragano Kartrina e poi la crisi dei Subprime, il terremoto di Haiti e la siccità del 2011 che ha ucciso 10 milioni di persone in Africa. E ancora il sisma in Giappone con il disastro di Fukushima, poi la MERS, i mega incendi in Amazzonia e in Australia infine la Brexit e, come se fosse il colpo finale dei fuochi di artificio, la pandemia legata al Covid-19 Credo che stiamo entrando nell’età delle catastrofi o forse così sarà ricordato questo periodo futuro nei libri di storia dei nostri pronipoti, i quali si chiederanno se la nostra generazione ha fatto qualcosa per prevederle e per mitigarne gli effetti avendone le conoscenze e gli strumenti. Da studente sono stato un curioso della teoria delle catastrofi (della matematica di Vladimir Igorevic Arnold che vinse la medaglia Fields) da cui si generò la teoria del caos e quella dei sistemi dissipativi, fino alla epistemologia della complessità che nacque quasi in contemporanea con le teorie chimiche sull’irreversibilità di Ilya Prigogine e fisiche sui quark di Murray Gell-Mann ed con Edgar Nahoum (Morin) che ne fece la sistematizzazione in sede filosofica. Per prendere un riferimento colloquiale comune, una catastrofe nota a tutti gli uomini è quella relativa all’estinzione dei dinosauri avvenuta 66 milioni di anni fa. Essa fu causata ad un asteroide e ci mostra bene la differenza tra crisi e catastrofe, cioè l’accadere di un evento che porta il sistema in uno stato finale irreversibile, come una biforcazione che porta ad una trasformazione rapida e permanente. Per fortuna o meglio per scienza allo stato delle conoscenze attuali la catastrofe è un evento prevedibile, infatti poche settimane fa un team di ricercatori del MIT di Boston ha lavorato allo sviluppo di un algoritmo capace di cogliere i segnali premonitori di fenomeni estremi e sembra essere giunto a risultati sorprendenti. Lo strumento matematico sviluppato dai ricercatori americani infatti mostra un’affidabilità che, in base alla complessità del fenomeno che si cerca di prevedere, oscilla tra il 75% e il 99%. Quindi la catastrofe è prevedibile, banalmente si potrebbe affermare che dopo due crisi da Coronavirus. quali SARS e MERS. forse era prevedibile una catastrofe quale quella del Covid-19. E forse ci si poteva preparare per mitigarne gli effetti. Invece probabilmente ci sono stati più studi sulle possibili meteoriti che avrebbero potuto distruggere la razza umana come i dinosauri, che su una pandemia da coronavirus. Eppure Edward Lorenz ci aveva ben spiegato il famoso “effetto farfalla”, e il Covid-19 cosa è se non questo, un piccolo virus entrato nella vita dell’Uomo in un piccolo mercato del pesce cinese che sconvolge l’intero globo, costringendo al momento quasi un miliardo e mezzo di donne e uomini chiusi in casa, bloccando le società, distruggendo i sistemi economici. Una catastrofe lo ripeto è prevedibile, le crisi climatiche all’inizio elencate ad esempio sono gli scricchiolii che ci avvertono che il sistema climatico globale può crollare da un momento all’altro. La società umana, lo sappiamo, il mondo è un sistema iperconnesso e maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di questo sistema, maggiore sarà la sua complessità e si esprimerà in misura sempre maggiore attraverso comportamenti non lineari essendo formato da sotto-mondi di relazioni che non conosciamo completamente né conosciamo come interagiscano con gli altri sottomondi. Così questo Pianeta è destinato a vivere catastrofi e gli uomini dovranno necessariamente trovare soluzioni per mitigarne gli effetti. Altrimenti possiamo riprendere l’incipit cioè che le catastrofi sono tali solo da una prospettiva antropocentrica. La catastrofe della pandemia del virus Covid 19 è infatti una respiro per la Terra, i nuovi dati ottenuti dal satellite Copernicus Sentinel-5P dell’Agenzia spaziale europea mostrano una diminuzione dell’inquinamento, in modo specifico delle emissioni di diossido di azoto, su tutta l’Italia, ma ciò accade anche su tutte le altre parti del Mondo che hanno applicato il lockdown, cioè la chiusura di tutte le attività umane. Ed a maggior ragione anche la catastrofe di Chernobyl ci insegna qualcosa in questo senso sulla natura e sulla resilienza degli animali che ora ripopolano quell’aria in una varietà mai osservata prima. La regione di Chernobyl ci aiuta capire da una prospettiva diversa il potenziale danno che, in quanto uomini, siamo in grado di provocare sul Pianeta e allo stesso tempo lo scarso impatto che possiamo avere nel corso della sua vita lunga miliardi di anni. L’età in cui stiamo entrando può essere quella delle catastrofi evitate se impariamo a leggerne i segnali premonitori e a correggere la strada prima di prendere la biforcazione che ci porta in un altrove dove non ci saremo più.  
1048. Relazione trinitaria  
24 Marzo 2020 di Marco Emanuele da Formiche.net Dimentichiamo, nell’evidenza quotidiana del vivere, il carattere sorprendente della vita. Dimentichiamo, nelle attività prosaiche del vivere, che la vita è poesia, ma dimentichiamo nei nostri momenti euforici che è crudele, terribile, orribile (Edgar Morin, Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, p. 84) Ci vuole sempre una sfida per risvegliarci alla realtà. Nel caso di una pandemia planetaria, come quella in corso in queste settimane, ci viene mostrata la faccia peggiore della planetarizzazione dei processi storici. Se siamo interrelati, infatti, lo siamo sia nel bene che nel male. Per cominciare con una espressione di realismo, non è la prima volta  che il mondo è percorso da pandemie, non necessariamente sanitarie (si pensi alla crisi finanziaria del 2007/2008), debitamente annunciate. Per cambiare passo e prospettiva, dunque, sono la nostra capacità di leggere i segni dei tempi e la nostra volontà a fare la differenza. Intanto, dobbiamo ripartire da ciò che siamo (1), parte dell’avventura umana e del vivente complesso nel cosmo. Ciò ci dice, prima di ogni altra cosa, che abbiamo una responsabilità originaria, incarnata e globale (se l’oltre ci appartiene, dell’oltre dobbiamo avere consapevolezza e cura): il noi, in ogni sé, confligge con la realizzazione del sé che diventa oltre-di-sé, liberandosi. Apparente paradosso, è il dato costitutivo della nostra danza vitale. Siamo degli “Io” assoluti e relativi: ognuno è tutto per se stesso, ma niente per il tutto: società, specie, vita, universo (Morin, 2018) (2). Uomo/Terra/Cielo è la nostra naturale relazione. Siamo parte di una trinità globale (la visione cosmoteandrica di Panikkar). Anche noi, singolarmente, siamo esseri trinitari (Morin, 2018) (3). Quando scriviamo di trinità, concordando con Panikkar (2019), la intendiamo come l’espressione di una pura relazionalità (4). Il profondo di noi, e di realtà, è relazione, è dialogo; ed è un profondo misterioso e altrettanto conflittuale, un vuoto scatenante che origina (ci origina) e istituisce (ci istituisce). Si badi bene: questa esperienza trinitaria, che comincia in noi, non ci rende esseri tridimensionali, fatti cioè di tre dimensioni sommate l’una all’altra, ma sintesi e rilancio continui di una complessità che si (ri)crea. Se siamo uomo, terra e cielo significa che le nostre tensioni interiori e il nostro agire ci vincolano oltre la nostra semplice esistenza, oltre ciò che crediamo essere il nostro piccolo mondo vitale. Abbiamo una responsabilità più grande, ben più ampia e non possiamo aspettare che siano le norme a ricordarcelo: nel mondo di oggi sembra essere venuto a mancare questo respiro della responsabilità che trasmette respiro alla progettualità. Ma occorre, affinché tutto questo possa diventare prassi, che la nostra volontà – al fine di non assolutizzarsi e, dunque, di non sclerotizzarsi – incontri il nostro essere, reciprocamente, relazioni trinitarie. Tutto è già in noi, dunque, e lo è originariamente e originalmente. E lo è in maniera mai lineare. Questo tempo pandemico potrebbe essere anche l’occasione di ripensare al complesso del vivente che, troppo spesso e colpevolmente, tendiamo a semplificare, a separare, a tradire. Ci fa paura il profondo di noi, quel luogo silenzioso e conflittuale che, appartenendoci e che ci piaccia o no, dobbiamo affrontare. È un  luogo nel quale vivono potenzialità, contraddizioni, limiti; è un luogo nel quale l’ordine si forma nel disordine di tutte le nostre forze in campo. Se mettiamo la testa fuori, sul palcoscenico della storia, avvertiamo – ora più che mai – il bisogno di ritrovare la nostra vocazione (responsabilità) trinitaria. NOTE (1) Morin, op. cit. 2018, p. 86, scrive: (…) nessun programma educativo ci informa che la più bella e favolosa conquista delle scienze è stata quella che ci ha rivelato che siamo non solo figli del pianeta Terra, ma figli del cosmo, che portiamo in noi tutta la storia dell’universo della vita (…). A immagine della storia del cosmo e della storia della vita, la storia umana comporta delle creazioni: di società, di Stati, di civiltà, di religioni (buddhismoi, cristianesimo, islam), di credenze (socialismo), di estinzioni (imperi e civiltà) e soprattutto, a immagine della vita, di mutazioni e di metamorfosi (dai clan arcaici di cacciatori-raccoglitori alle società storiche, dall’Europa medievale all’Europa moderna, dalla mondializzazione attuale all’eventuale post-umanità). (2) Morin, op. cit. 2018, p. 87 (3) Morin, op. cit. 2018, p.p. 86 e 87, scrive: Siamo esseri trinitari, nel contempo individui, momenti/elementi di una specie biologica, momenti/elementi di una società, e queste tre nozioni sono non solo inseparabili, ma ricorsivamente produttrici le une delle altre. (4) Raimon Panikkar, Tra Dio e il cosmo, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 90  
1049. Lucebuio  
25 Marzo 2020 di Marco Emanuele da Formiche.net Viviamo sulla superficie di noi stessi. Siamo posseduti da forze oscure, dai nostri Daimon interni ed esterni a noi. Siamo posseduti dai miti, dagli dèi, dalle idee. Siamo dei manipolatori manipolanti, siamo posseduti da ciò che possediamo, vivere è come un’ebrezza e come un sonnambulismo (Edgar Morin, Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, p. 88) Nella nostra anima c’è un mare interiore, uno spaventoso e autentico mare tenebrarum ove imperversano le strane tempeste dell’inarticolato e dell’inesprimibile (Maurice Maeterlick) Mai l’umanità ha riunito tanta potenza e tanto smarrimento, tanta preoccupazione e tanto gioco, tanta conoscenza e tanta incertezza. L’inquietudine e la futilità si spartiscono i nostri giorni (Paul Valéry, 1932) Possiamo normalizzare, banalizzare, razionalizzare e così eliminare l’ignoto e l’inconoscibile. Questi riappariranno a ogni avanzare della conoscenza (Edgar Morin, op. cit., p. 145) Siamo lucebuio. Abbiamo coniato questo neologismo per mostrare la nostra intrinseca complessità. Siamo, come dice Morin (2018), macchine non banali (1), prosaico/poetiche (2). La nostra vita non scorre secondo la logica del determinismo (3). L’inatteso spacca la linearità di un (presunto) perfetto software: a un input A non corrisponde un output certo. Il nostro tempo e il nostro spazio vitali continuano, e discontinuano, una tempiternità e una globalità che incarniamo. I dolori, le contraddizioni, le potenzialità dei nostri avi vivono in noi, così come i dolori, le contraddizioni e le potenzialità del mondo. Ne viene che noi siamo ciò che siamo stati. Il nostro vivere il presente e il nostro stare su un territorio non limita la nostra responsabilità storica a ciò che accade “qui” (in ogni nostro “qui” sicuro e protetto) e all’ “ora” (in ogni presente imminente). Ciascuno di noi (ri)vive, (re)interpretandolo, lo spettacolo senza fine dell’esperienza umana. Lucebuio, certezza incerta, territorialità globale, personalità universale (4), viviamo perennemente nel movimento tra communitas e immunitas, rendendo la comunità al contempo necessaria e impossibile. Se vogliamo la comunità, se apriamo alla solidarietà, molto spesso ci ritroviamo incapaci di costruire prospettive di (con)divisione perché è in noi anche una forza distruttrice (5). Lucebuio, l’ordine certo e la compiutezza assoluta sono chimere totalitarie. Lucebuio non può essere una giustificazione all’inazione. Prendere coscienza, e consapevolezza, che siamo anche il contrario del nostro positivo significa continuamente problematizzare le nostre tensioni e i nostri risultati, mediando tra le polarità che ci istituiscono. Se il bene ci appartiene, non siamo solo bene; se il male ci appartiene, non siamo solo male. Vale per noi, parte di realtà, e vale per il tutto. L’evidenza del bene, come del male, non li esaurisce nel loro essere separati dal resto. Dobbiamo prendere atto che è dipeso, e che dipende da noi, dalla nostra responsabilità mai neutra, di fare del  tempo storico un conflitto permanente tra bene e male. Ogni tempo è percorso dal male che si fa bene e viceversa: lucebuio (6). Lucebuio è mistero di ciò che non sappiamo di essere e di sapere (7), mistero che – paradossalmente – ci istituisce. Lucebuio è la cifra della nostra civiltà, dell’umanità capace di autodistruggersi tanto quanto di darsi benessere e futuro. Prosa e poesia devono ritornare a dialogare, a (ri)costruire quella relazione mediata tra poesia e prosa, tra senso e non senso, tra significato e negazione, tra costruzione e distruzione, tra cooperazione e competizione. In termini di giudizio storico, ciò a cui assistiamo nel tempo della planetarizzazione dei fenomeni storici è il gioco, a seconda delle convenienze, della esaltazione/assolutizzazione di Luce o di Buio. Troppo poco, e troppo poco spesso, ci domandiamo quale sia il prezzo che paghiamo alle spinte in avanti del Progresso. Ciò che è innegabile, che buona parte dell’umanità sia stata tolta dalla fame, dalla sete e dalla povertà materiale, si scontra con ciò che è altrettanto innegabile: lungi dall’avere realizzato una coscienza/consapevolezza di un destino planetario, o della grande comunione umana (8), sotto il vessillo della pace e della giustizia, abbiamo generato, secondo Morin (2018), una moltiplicazione di disgregazioni e rotture politiche e culturali che degenerano in conflitti (9).  In sostanza, ciò che non abbiamo generato ci fa de-generare. Siamo dentro la logica viziosa di un Progresso che guarda solo in avanti, mai nel profondo e a ciò che è stato. La sapienza indigena, facilmente omologabile dalla macchina potentissima del Progresso, potrebbe farci scoprire la bellezza di una conoscenza esperienziale nella quale l’identità personale, la comunità umana e l’armonia cosmica sono tutt’uno (10) (la “relazione trinitaria” di cui abbiamo scritto). C’è intimità e non possesso: cosa possiamo imparare, da questo approccio, noi cosiddette “società storiche” che, senza quella intimità, assolutizziamo Luce o Buio e che abbiamo paura di tornare a ciò che siamo davvero, al nostro mistero istituente ? NOTE (1) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 89 (2) Edgar Morin, op. cit. 2018, pp. 119 e 129: (…) le nostre vite sono polarizzate fra prosa e poesia. (…) la prosa della vita concerne gli obblighi, i vincoli o le necessità che eseguiamo senza piacere. La poesia si manifesta in tutti gli stati di comunione, effusione, meraviglia, gioco, amore, compresi gli stati di gioia estetica che ci mettono in uno stato secondo di emozione felice. La felicità è il compimento di uno stato poetico, e come sostiene Leopardi, è sentendo ciò che è poetico che lo si conosce e lo si comprende, e non può essere conosciuto e compreso se non essendo sentito. Ciò che Morin chiama poesia Panikkar definisce pura spontaneità (in Lectio Divina: L’Ascensione (Atti 1-11), AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 16) (3) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 101: La non banalità della mente/cervello umana non risiede unicamente nell’incertezza legata a ogni complessità e soprattutto a ogni iper-complessità; essa concerne il possibile inatteso delle sue decisioni, delle sue azioni, dei suoi comportamenti, e ciò che è meno prevedibile in anticipo: la crisi di follia, come quella di Nietzsche a Torino, il 3 gennaio 1889, e soprattutto ogni atto creatore, come la nona sinfonia di Beethoven. (4) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 104 scrive che l’umano è microcosmo, a immagine dell’universo. (5) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 92: Dobbiamo continuamente ricordare che l’umano nella sua individualità, nella sua società, nella sua storia è polarizzato fra ragione e delirio, fra tecnica e mito, fra interesse personale e gioco disinteressato. (6) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 93: Non esiste civiltà che non abbia un fondo di barbarie. Essendo la barbarie un ingrediente della civiltà, possiamo solo resisterle, non sopprimerla. Ancora l’Autore, p. 94: L’incoscienza della complessità antropologica ha portato agli errori, agli accecamenti, alle illusioni e ancora vi porterà, a meno che non abbia luogo una riforma profonda della conoscenza, della coscienza e del pensiero umani. (7) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 102: (…) questa trinità inseparabile, costituita dal nostro inconscio, dal nostro organismo, dalla memoria inclusa nella nostra identità, fa sì che in noi ci sia un formidabile sapere su tutto ciò da cui siamo nati: l’universo, la vita, i nostri ascendenti, un sapere che ignoriamo totalmente. Una delle nostre maggiori forme di ignoranza (…) consiste nel non sapere ciò che sappiamo. (8) Raimon Panikkar, op. cit. 2009, p. 17. E continua l’Autore: Gli uomini ora sono forse più civili, ma quella frase di Hobbes “homo himinis lupus” non è stata ancora superata. Consideriamo noi sovrasviluppati e gli altri sottosviluppati, ma dobbiamo svilupparci ancora molto di più, e questo mi pare sia il messaggio che non è esclusivamente cristiano, ma universale. Dire che tutti siamo fratelli non rappresenta nulla di nuovo, ma si deve avere la forza di realizzarlo. (9) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 132 (10) Gerard Hall e Joan Hendriks, in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni, op. cit. 2009, p. 21  
1050. Senso e intuizione  
26 Marzo 2020 di Marco Emanuele da Formiche.net L’uomo non è soltanto somiglianza (…) di Dio, Fonte, Inizio, Sorgente, Causa (equivalenti omeomorfici), ma anche immagine (…) della Realtà, un mikrokosmos, come dicevano gli antichi (fino a Paracelso e ai seguaci della “philosophia adepta”), che rispecchia il completo makrokosmos. (Raimon Panikkar, Vita e Parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010, p. 11) Il nostro percorso di ricerca guarda alla necessità, per noi umani del terzo millennio, di (ri)trovarci in un legame (vincolo e possibilità) nel sentimento della storia. Prosaici e poetici, lucebuio, è bene guardar(ci) dentro, nel profondo della nostra complessa – e sfuggente – esperienza umana, per (ri)scoprirne l’oltre, il mistero istituente. Così notano Gerald Hall e Joan Hendriks (2009): Richiamandoci al teologo tedesco Karl Rahner, la conoscenza più profonda che abbiamo come esseri umani non è la “consapevolezza di qualche oggetto al di là di noi stessi, bensì una conoscenza partecipativa” che ha una propria intelligenza profonda, pratica e “salva-vita” (1). Dovremmo “attraversare” la storia, cogliendone l’elemento religioso, quello che (ri)lega ciò che è disperso. Non c’è separazione possibile fra tutte le dinamiche dell’umano e del reale globalmente inteso. Ciò che noi separiamo prosaicamente è, in realtà, inseparabile poeticamente. Ciò che ci interessa, mirabilmente espresso da Hall e Hendriks (2009) (2) con riferimento ai popoli aborigeni, è un senso cosmologico o metafisico più ampio delle cose, che va al di là delle parole (e del tempo) o (…) che collega gli eventi ritmici agli Eventi Permanenti. Questo è un punto decisivo: in quel senso, infatti, c’è la vita-della-vita, vive il nostro mistero istituente, ciò che chiamiamo “comune” (3).  Panikkar parla  di intuizione cosmoteandrica (4). Al di là dell’apparente difficoltà dell’espressione, intuizione cosmoteandrica siamo noi. Se ogni essere umano non apre la porta di questa dimensione, l’unica che può portarlo verso la pienezza senza mai raggiungerla, il nostro destino rimarrà quello di turisti della vita e non diventerà quello di navigatori in essa. Pur essendo noi lucebuio, impossibilitati a compiere la pienezza in ogni nostra esperienza di vita, è nell’oltre, porta aperta verso la pienezza, che possiamo (ri)trovarci in relazione (re)ligiosa, abitanti-nella-totalità che ci appartiene e che ci supera. La vita è relazione, la vita è (re)ligione. Come anche in Morin, la relazione trinitaria è fondamentale nella intuizione cosmoteandrica, a-duale (5), di Panikkar. Scrive Francis X. D’Sa (2009) del presupposto che l’autentico misticismo venga vissuto concretamente quando si coltiva la sensibilità alla triplice dinamica della realtà (6). Sinonimi di visione mistica potrebbero essere pensiero complesso, critico, poetico, d’intelligence. Del guardare nel profondo per accogliere l’oltre. Nel criticare il genio di Descartes, Panikkar (2010) scrive che senza il correttivo della mistica riduciamo l’uomo a un bipede razionale, quando non razionalista, e la vita umana alla supremazia della ragione (7). La mistica autentica, sottolinea ancora Panikkar (2010), quindi non disumanizza. Ci fa vedere che la nostra umanità è qualcosa di più (e non di meno) della pura razionalità (8). L’intuizione cosmoteandrica ci porta in una vera e propria metamorfosi-di-noi. Con tale intuizione, infatti, siamo nel profondo dell’inter-in-dipendenza di esseri umani che, come nota Francis X. D’Sa (2009), dal punto di vista relazionale (…) partecipano (…) alla perichoresis cosmoteandrica. (…) non sono mai né totalmente indipendenti né completamente dipendenti (9). Ecco il mistero del comune, di quel percorso profondo, che, al contempo, ci lega (ci vincola) e ci libera “in” e “con” (aprendoci alle possibilità, dischiudendo le potenzialità). Il mistero del comune è la Vita stessa come relazione ed è nella vita in cui ne facciamo, ciascuno, originale esperienza (mai solo per il “nostro” sé) (10). L’esperienza della Vita, dice Panikkar (2010), non è la coscienza del passare del tempo. Ciò di cui si fa esperienza è l’istante della tempiternità. L’esperienza non si misura col tempo (11). Altresì, sottolinea Panikkar (2010), l’esperienza della Vita è l’unione più o meno armonica delle tre coscienze prima che l’intelletto le distingua. Questa esperienza sembra mostrare una complessità speciale – che chiamerei trinitaria (12). Ed è una esperienza che noi viviamo nel nostro essere limitati, compresi in essa e da essa superati. Ed è una complessità, nel significato stesso della parola, non separabile (13). NOTE (1) Gerald Hall e Joan Hendriks, Il misticismo naturale nelle tradizioni indigene australiane in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 27. In nota, gli Autori scrivono: Questo è, per Rahner, in effetti, il cammino verso la conoscenza di Dio e del mistero divino, ossia la via che porta il conoscente umano alla comprensione non-oggettiva di sé e dell’Essere infinito. , ad esempio, Karl Rahner, Foundations of Christian Faith (New York, Seabury Press, 1978; ed. originale tedesca, 1976), pp. 51-71. Panikkar, com’è noto, parla a questo proposito di “consapevolezza mistica” o “coscienza trans-storica”: “E’ una consapevolezza che scalza il tempo o, piuttosto, che raggiunge la pienezza del tempo, visto che I tre tempi vengono esperiti simultaneamente”. The Cosmotheandric Experience, pp. 132ss. (2) Gerald Hall e Joan Hendriks, op. cit. 2009, p. 27 (3) Gerald Hall e Joan Hendriks, op. cit. 2009, p. 29: Vi è un senso del tutto che comprende la realtà sacra della terra o del territorio ed è la consapevolezza che la comunità umana è essa stessa dipendente dal nostro comune legame con il luogo. Non è un legame che possiede il luogo ma che lo rende comune, dunque aperto (globale). Potrebbe trattarsi, notiamo, anche dell’altra faccia della nostra responsabilità verso la creazione che siamo (anche) noi, parte-di-tutto. (4) Francis X. D’Sa, SJ, Jnanesvara e Panikkar. Misticismo nello Jnanesvari e l’intuizione cosmoteandrica in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni, op. cit. 2009, p. 31: Quando introdusse inizialmente la sua ormai nota intuizione cosmoteandrica, Panikkar sottolineò che non stava proponendo nulla di nuovo: “La visione cosmoteandrica può essere considerata la forma originaria e primordiale di coscienza. In effetti, essa balenava fin dagli albori della coscienza umana come visione indivisa della totalità” (R. Panikkar, “Colligite Fragmenta. For an Integration of Reality”, in F.A. Eigo e S.E. Fittipaldi (a cura di), From Alienation to At-one-ness (Villanova PA, The Villanova University Press, 1977), p. 55. Altrove egli ha scritto: “Intendo dire che questa visione è sempre stata con noi e ha sempre assolto alla funzione del saggio di ricordare ai contemporanei la totalità, preservandoli così dal rimanere abbagliati da intuizioni illuminanti ma parziali” (R. Panikkar, “Colligite Fragmenta”, cit., p. 57. (5) Francis X. D’Sa, op. cit. 2009, p. 35: Dio, il Mondo e l’Uomo non sono tre realtà distinte ma concorrono a formare la realtà in modo a-duale. (…) Ricorrendo a un’analogia possiamo dire che la relazione con il Mondo è centrifuga, la relazione con l’Uomo è centripeta e la relazione con il Divino è orbitale. Le tre forze sono interrelate e interdipendenti. Non si può comprendere nessuna di esse senza le altre due. (6) Francis X. D’Sa, op. cit. 2009, p. 33. Nota l’Autore, op. cit. 2009, pp. 34 e 35: (…) suggerisco che l’autentico misticismo sia caratterizzato dall’apertura e dalla sensibilità alla triplice dinamica della realtà. In tale prospettiva il mistico è colui che scopre l’unità di Uomo, Cosmo e Divino. (…) L’atteggiamento mistico: a) non reifica la dimensione cosmica; b) non riduce l’Uomo soltanto a un “essere umano” che costitutivamente resta irrelato con il Cosmico e il Divino; c) non crede neppure in un Dio che non abbia nulla a che fare con il Cosmo o con l’Uomo. Nota ancora l’Autore, op. cit. 2009, p. 42: La pratica della spiritualità cosmoteandrica conduce al misticismo. Nel nostro contesto il termine “misticismo” è riferito all’esperire attivamente la triplice dimensione della realtà e dell’agire spontaneamente in sintonia con essa. (7) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 12. L’Autore, op. cit. 2010, p. 12 nota, inoltre, che la mistica non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. Aggiunge l’Autore, op. cit. 2010, p. 16: L’esperienza mistica sarebbe quella che ci permette di godere pienamente della Vita. “Philosophus semper est laetus” (“Il filosofo è sempre lieto”), scrisse il mistico Ramon Llull. (…) La fede è “la gioia della Vita”, non esita a dire il (…) martire Giustino. (8) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 13 (9) Francis X. D’Sa, op. cit. 2009, p. 36 (10) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, pp. 15 e 16: Quando dico esperienza della Vita non intendo l’esperienza della mia vita, ma della Vita, quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si “sente” palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi. (…) L’esperienza della Vita (zoe), arriva a dire san Giustino nel II secolo, è l’esperienza del datore della vita – dato che la nostra vita non vive di per sé, ma partecipa della Vita. (11) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 16 (12) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 17 (13) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, pp. 21 e 22: La debolezza (seppur accompagnata da molte grandezze) dell’Occidente moderno deriva dal secondo principio del metodo cartesiano: “Se vuoi risolvere un problema, comincia col sezionarlo …; ma poi succede come all’apprendita dell’orologiaio, al quale, nel ricomporre l’orologio, avanzano dei pezzi”. La frammentazione della realtà: ecco il punto debole della cultura occidentale.  
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