16 Aprile 2020
Nella mattinata di ieri, mercoledì 15 aprile, con la conferenza “The future of museum professionals in the digital era”, si è conclusa formalmente l’esperienza del progetto Mu.SA: Museum Sector Alliance. Il progetto è partito nel 2016 ai fini di formare nuove figure professionali nell’ambito della digital transformation dei musei, ed è stato condotto da 11 partner di Grecia, Italia, Portogallo e Belgio, nell’ambito del programma Erasmus+.
La conferenza, originariamente programmata a Bruxelles, si è tenuta grazie all'organizzazione di Culture Action Europe, svolgendosi online a causa dell’attuale emergenza Covid-19, e contando oltre 500 partecipanti.
Ospitata dal DAISSy Research Group della HOU (Hellenic Open University), il meeting ha ripercorso il disegno di Mu.SA dagli inizi, attraverso le parole dei rappresentanti di alcuni partner, come Achilles Kameas, Panagiota Polymeropoulou e Spiros Borotis (HOU), Antonia Silvaggi (MeltingPro), Paula Menino Homem (Università di Porto), Theodor Grassos (AKMI), Massimiliano Dibitonto (Link Campus University) e Ivo Oosterbeek (Mapas des Ideas).
I relatori si sono alternati per raccontare l’intero progetto, dalla sua programmazione avvenuta attraverso una prima fase di ricerca volta a comprendere le lacune digitali nel mondo museale mediterraneo, fino all’identificazione di quattro nuove figure professionali che accompagnino i musei verso un nuovo contesto digitale, ossia quelle di Digital Strategy Manager, Digital Collection Curator, Digital Interactive Experience Developer, Online Community Manager.
Per la formazione di questi specifici ruoli, Mu.SA si è declinato in un iter formativo che ha previsto un iniziale MOOC di base, destinato a chi nei musei già opera o ambisce a lavorarvi ed è volto ad acquisire nuove skill digitali. Dei 1371 studenti che hanno completato il MOOC di base, i più meritevoli e interessati si sono poi iscritti ai diversi corsi di specializzazione dedicati ai quattro profili menzionati.
Nella conferenza di ieri sono state illustrate anche la metodologia formativa nonché quella di valutazione, che ha compreso l’analisi di 200 ore di Work Based Learning per tutti gli ‘specializzandi’, permettendo loro di applicare le nozioni apprese all’interno dei musei che li hanno ospitati, aiutando anche questi ultimi a mettere in atto progetti pratici per facilitare il loro ingresso nel digitale.
Vari sono stati gli spunti emersi da questo meeting. Non poteva ovviamente mancare una riflessione legata all’attuale pandemia del Coronavirus: Julia Pagel (NEMO) ha infatti sottolineato quanto l’arte sia importante per superare periodi così lunghi di isolamento sociale grazie alla compagnia della sua fruizione, e quanto i media digitali aiutino l’accesso all’arte stessa anche in situazioni in cui non è possibile farlo fisicamente. L’accessibilità e l’inclusione sociale che i new media permettono è stata anche oggetto di attenzione da parte di Tere Badia (CAE) nel suo discorso di apertura: la Badia, però, sottolinea quanto il cambiamento, prima che tecnologico, debba essere soprattutto mentale, per permetterci di accogliere un nuovo modo di pensare e, di conseguenza, un nuovo modo di beneficiare dell’arte.
La conferenza si è conclusa con un mini-talk moderato da Margherita Sani (IBACN), che ha visto la partecipazione di Alexandre Matos (ICOM Portogallo), Philippos Mazarakis-Ainian (ICOM Grecia), Romina Surace (Symbola) e Leena Tokila (ICTOP).
Da questo confronto è emerso quanto in Europa vi sia scarsa omogeneità nel digital shift museale, e quanto bisogno vi sia di Fondi Europei per superare il gap tra vecchio e nuovo. In particolare, si è focalizzata l’attenzione su quanto la digital transformation non sia solo un cambio di ‘mezzi’ di fruizione, ma di come realizzi una vera e propria crescita quantitativa e qualitativa dei musei, resi così più visibili e più vicini ai bisogni dei visitatori.
16 Aprile 2020
Di Valentina Re
Uscita in piena emergenza Coronavirus, La casa di carta 4 dimostra ancora una volta quello che, da sempre, le buone storie sanno fare: farci viaggiare, anche senza muoverci di casa, nel tempo e nello spazio. E se in epoca di quarantena la maratona su Netflix la possiamo anche fare, per così dire, “in solitaria”, saranno poi i molti spazi di discussione online a permetterci di ritrovare una dimensione di scambio e di socialità con gli amici e con gli altri fan della serie, numerosissimi in tutto il mondo.
Perfetta per il binge watching, attesissima in tutto il mondo ad ogni nuova release, popolarissima e commentatissima sui social, La casa di carta sembra proprio avere tutte le caratteristiche delle serie originali prodotte e distribuite dal colosso globale dello streaming, Netflix.
Eppure, la storia è un po’ più complicata. Possiamo interpretare la storia di La casa di carta come quella di un doppio “riscatto”: dei personaggi che abbiamo imparato ad amare, innanzi tutto, ma anche di coloro che questi personaggi li hanno creati – attori, registi, sceneggiatori, produttori, direttori della fotografia, montatori… Tutto quel mondo della creatività, insomma, a cui il nostro Dams si rivolge, e per il quale le grandi piattaforme globali possono rappresentare una sfida e un’opportunità.
Da un lato abbiamo il plot, il racconto, che alla Link impariamo a costruire nel corso di Screenwriting: con quel ritmo implacabile che, a parte qualche sbavatura, guarda alla migliore tradizione dell’heist movie (il film di rapina), e in alcuni momenti sembra quasi omaggiare il Soderbergh più brillante, quello degli Ocean’s.
Abbiamo le location, la Spagna ma anche l’Italia, l’Europa del Mediterraneo, con il suo calore, le sue tavolate affollate e imbandite, le sue musiche che viaggiano, si ibridano, ci fanno sentire comunità.
E infine abbiamo i personaggi: una banda di losers, in fondo, di perdenti, emarginati, pieni di debolezze e di difetti. Ma è dal loro punto di vista che osserviamo le cose, ed è per questo che simpatizziamo con questi outsider che ricorrono al crimine, certo, ma in nome di una più ampia giustizia sociale.
Osservato dal loro punto di vista, il mondo che li ha esclusi appare corrotto e spietato. In cerca di riscatto, a questo mondo privo di ideali e di valori rispondono con un codice etico alternativo: che certo devia rispetto alla morale comune, ma che ci appare comunque autentico e genuino, capace di consolidare i rapporti e i legami anche nei momenti di crisi.
Otterranno questo riscatto? Forse lo hanno già ottenuto, attraverso le relazioni di fiducia e di rispetto che hanno stabilito tra loro? O attraverso il sostegno popolare che li sprona?
Questo, La casa di carta 4 non ce lo svela ancora, ma quello che possiamo senz’altro confermare è il successo di chi sta dietro le quinte. Ed è, anche questa, una storia di “riscatto”.
Contrariamente a quanto potrebbe apparire, La casa di carta non nasce come produzione originale Netflix, ideata e sviluppata all’interno della piattaforma globale.
Le parti 1 e 2 della serie, infatti, vengono co-prodotte dall’emittente spagnola Antena 3 con Vancouver Media: ma è una serie che da subito guarda al mercato internazionale, ci scommette, e vince la sua scommessa.
La vince per tante ragioni: perché osa re-interpretare un genere, l’heist movie, sicuramente più americano che europeo, e ne sfrutta tutte le risorse narrative; perché coniuga un genere di intrattenimento popolare con un lavoro di scrittura raffinato, creando personaggi complessi, ambivalenti, fragili, appassionati; perché ha la capacità di radicare una classica storia di rapina in un contesto che è fortemente caratterizzato a livello geografico, economico e politico, ed è in grado di generare appartenenze, reazioni, discussioni.
A Netflix va certo riconosciuto il merito di aver individuato le potenzialità “glocal” della “piccola” produzione spagnola: prima acquisendo i diritti per la distribuzione internazionale sulla piattaforma, e poi decidendo di intervenire direttamente per co-produrre le parti 3 e 4, con un repentino cambio di scala nel budget che tutti possiamo chiaramente riconoscere.
D’altro canto, va sottolineato che Netflix è ben cosciente dei suoi meriti, e non ha esitato a celebrarli (e autocelebrarsi) nel documentario La casa di carta: il fenomeno, disponibile insieme alla parte 4, che trasforma la storia produttiva della serie in una sorta di narrazione epica, o di mito delle origini.
Quello che ci auguriamo il nostro Dams possa fare è fornire gli strumenti per identificare la retorica del colosso americano pur riconoscendo, ne La casa di carta, un possibile modello per la serialità europea, e forse anche per quella italiana: una serialità che sappia competere nello scenario globale, che sappia confrontarsi anche con i generi meno frequentati nelle tradizioni nazionali, valorizzare la ricca diversità territoriale e culturale del continente europeo, e costruire personaggi complessi, articolati, combattuti, persino contraddittori, che proprio dalla loro (umana) contraddittorietà traggono molta della forza per appassionarci.
14 Aprile 2020
Di Minello Giorgetti
Le cronache del tempo raccontano che le prime vittime si registrarono il 5 maggio 1656 in due zone della città piuttosto distanti tra loro: una casa nel rione Ponte e un podere alle pendici di Monte Mario. Nel primo caso, un calzolaio perse nello stesso giorno il figlio, la moglie e il genero; nel secondo, morì una bimbetta di sette anni ricoverata al Fatebenefratelli, sembra contagiata da una vignarola al servizio del cardinal Barberini. Ciononostante, le autorità iniziarono a preoccuparsi seriamente solo dieci giorni più tardi, in seguito ad ulteriori tre decessi registrati tra il 15 e il 26 maggio: un marinaio sbarcato a Civitavecchia, un religioso siciliano e un pescivendolo napoletano a Trastevere. Quando poi, ai primi di giugno, al S. Giovanni spirò con i medesimi sintomi un soldato napoletano, non poterono tergiversare oltre e si prepararono ad affrontare la peste a Roma.
Si trattava, in realtà, dell’ennesima manifestazione del flagello che dal Medioevo serpeggiava in Europa e che vent’anni prima aveva già colpito Milano e che Manzoni ha immortalato. Prima di Roma, il micidiale morbo aveva sterminato la Sardegna, Genova e infine il Meridione d’Italia causando quasi 300.000 vittime. A paragone, i quasi 15.000 romani morti sembrano davvero ben poca cosa sebbene il contagio avesse imperversato a lungo devastando interi quartieri e annientando la quasi totalità delle attività. Tuttavia, l’interesse di viaggiatori e dei diplomatici presenti allora nella Capitale, si concentrò sull’efficienza, nonostante i ritardi, dell’organizzazione romana, al punto che vennero pubblicati diversi libri, opuscoli e stampe rievocative che illustravano gli avvenimenti dell’epidemia e le misure prese dai magistrati per alleviarla. Sovente, infatti, in tali pubblicazioni è sottolineata la validità delle disposizioni adottate e, in particolare, la serietà dell’impegno e la dedizione dei vari responsabili preposti.
Tutti elementi che contribuirono, considerati i rimedi di allora, a circoscrivere il contagio e limitarne quanto più possibile la diffusione. Alessandro VII Chigi, l’allora pontefice, non esitò a mobilitare la Congregazione di Sanità, otto cardinali e 28 commissari, due per rione, ognuno con il suo ruolo preciso che andava dal sovrintendere alla disinfestazione di case e suppellettili, alla tutela dei non contagiati e di quelli in quarantena, passando per l’approvvigionamento delle merci e la cura delle famiglie e degli infetti, senza trascurare il mantenimento dell’ordine pubblico e ovviamente, l’eliminazione dei cadaveri.
Non fu facile in pochissimo tempo organizzare il perfetto funzionamento di tutto il sistema ma, per fortuna, venne individuato e messo a capo un Commissario Generale in grado di governare l’emergenza in virtù del suo inflessibile rigore morale unito ad un’energica capacità decisionale. Costui fu il cardinal Girolamo Gastaldi che per salvaguardare accuratamente l’isolamento tra i malati e i sani, in tutte le fasi della malattia, intuì che era indispensabile subito concentrare gli individui infetti in un solo lazzaretto, individuato nella struttura più ampia e centrale del Fatebenefratelli all’isola Tiberina. Il cardinale, pertanto, trasferì innanzitutto i religiosi da quel luogo a Santa Maria della Sanità all’Esquilino e quindi scelse di riservare il più periferico Casaletto di San Pio V, per la posizione rispetto al resto della città e ai vantaggi per l’approvvigionamento idrico, esclusivamente ai confinati all’isolamento in quarantena. Non solo: per renderlo ancor più irraggiungibile, gli abitanti di Trastevere si ritrovarono il 23 giugno improvvisamente segregati dietro uno steccato eretto nottetempo e, poco dopo, sorse un vero e proprio muro munito con otto cancelli sorvegliati da un corpo di guardie armate. Da ultimo, si stabilì di inviare alla “Consolazione” i casi sospetti accertati nei vari ospedali cittadini mentre il Casaletto di Pio V rimase in funzione solo per i convalescenti per un primo periodo di isolamento per concludersi poi nell’edificio delle Carceri Nuove appena ultimato ma non ancora in funzione.
Finalmente, il 7 aprile 1657, nelle chiese della città si udì di nuovo il Te Deum al posto del De profundis fin ad allora cantato. Era il segnale della fine della pestilenza per una popolazione ormai ridotta allo stremo e che, dopo quasi un anno, contava meno di centomila persone; tuttavia, senza le drastiche regole e la rigida condotta adottate dal Cardinal Gastaldi, il numero dei morti sarebbe stato certamente ben più elevato. A chi si lamentava dell’eccessiva severità delle restrizioni papa Alessandro VII rispondeva: “Ci vuole nelle materie odiose chi faccia volentieri lo sbirro”.
Bibliografia
- Crf. Bibl.Ap.Vat, Chig. E, III, 62
- G. Gastaldi, Tractatus de avertenda et profliganda peste politico-legalis eo lucubratus tempore, quo ipse Loemocomiorum primo, mox sanitatis commissarius generalis fuit, peste urbem invadente anno 1656 & 57 Ac nuperrime Goritiam depopulante, typis commissus, Bononiae, Ex camerali Typographia Manolessiana, Bologna 1684
- cfr Strenna dei Romanisti 2000 M.T: Bonadonna Russo pag. 467 489
Immagini
- Prospetto del Casaletto di San Pio V durante la peste del 1656 (Tractatus di G. Gastaldi) - Biblioteca Nazionale Marciana
- Cap. XXIX del Tractatus di G. Gastaldi - Biblioteca Nazionale Marciana
4 MAGGIO 2018
“Un euro investito in cultura ne produce 1,8 in altri settori”. Il dato, fornito dal Prof. Avv. Emanuele F. M. Emmanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale, nel corso della lectio “Arte e Finanza”, tenuta alla Link Campus University, conferma l’idea che la cultura possa produrre ricchezza.
“C’è una pregiudiziale negativa -spiega il Prof. Emmanuele- per un mondo che non si conosce. La politica ritiene, ancora oggi, che l’unico modo di sviluppo economico sia legato all’industria e all’agricoltura, non comprendendo invece appieno che il nostro Paese dispone di un patrimonio artistico importante, capace potenzialmente di generare ricchezza per la Nazione, grazie ai turisti che da tutto il mondo vengono in Italia per scoprirne e ammirarne le bellezze”.
Una diffidenza incomprensibile che porta spesso a situazioni paradossali: “Opere d’arte interessanti e fruibili -conclude il Prof. Emmanuele- restano troppo spesso negli scantinati dei musei. Un vero e proprio mistero alimentato poi dal fatto che, quando un privato desidera utilizzare quel patrimonio per valorizzarlo, gli viene opposto spesso un rifiuto.”.
UFFICIO STAMPA LINK CAMPUS UNIVERSITY
MASSIMILIANO NICCOLI
349.2762619
Link intervista: http://unilink.it/arte-e-finanza/
8 Aprile 2020
Di Marco Emanuele da Formiche.net
Ragione e passione, in questo periodo, sono più che mai in dialettica. Come nel “caso Taranto”, se salvaguardare salute o lavoro, anche nell’emergenza “coronavirus” sembra persistere, almeno secondo The Economist, il tema duale del “salvare le vite” o del “quanto ci costa?”.
Certo ci vuole razionalità, calcolo, un po’ di sano utilitarismo: ma il problema è tutto qui? Panikkar risponderebbe con l’a-dualità, Morin che dobbiamo – à la Pascal – ricongiungere gli opposti. Siamo in linea con questi due pensatori, ben considerando che la “sostenibilità” è un fattore da tenere in conto.
La scelta obbligata tra due linee apparentemente non dialoganti è parte della tragedia del nostro tempo. Se non accettiamo massimalismi in alcun ambito, tanto meno nel pensiero, ciò che è chiaro è che entrambe le linee hanno un senso.
Ha ragione Massimo Cacciari (Huffington Post, 5 aprile 2020): “Per comprendere il capitalismo, è più utile leggere Schumpeter che Freud. Il capitalismo è crisi. È distruzione e creazione. È contraddizione: discontinuità nella continuità. È conflitto. Salti improvvisi, movimenti forsennati, squilibrio. Non ha niente della serena linea retta con cui molti si figurano il movimento della storia”. Se è così, e ne siamo convinti, quella contraddizione dentro al capitalismo può essere moderata nella grande tradizione di democrazie liberali che, se non tirano fuori gli artigli delle loro potenzialità, rischiano di scomparire dal palcoscenico della storia. È inutile stracciarsi le vesti di fronte alla possibilità di democrazie autoritarie, competitive che guardano al risultato prima che ai processi per arrivarci: è una deriva ineluttabile.
Il “calcolo sentimentale” risponde alla logica di un realismo degno di questo nome. Lasciamo agli ottimisti di maniera (coloro che inventano hashtag per consolare l’inconsolabile e gl’inconsolabili) di anelare al nuovo mondo possibile; lasciamo ai pessimisti di maniera di disegnare scenari di una fine imminente (tanto la storia, tragicamente birichina, ritorna sempre).
Ci interessa un realismo che definiamo “complesso”. Non più o/o ma e/e. Un realismo che, per diventare tale, visione storica, deve fare i conti con la realtà di una politica schiacciata tra la sua assenza e la presenza pervasiva dei tecnici e dei competenti. Essa è come il “comune”, ciò che istituisce le nostre democrazie liberali a rischio di estinzione, schiacciato tra il privato e il pubblico.
Continuiamo a non capire che la storia non è lineare. Una pandemia dopo l’altra, infatti, ci facciamo sempre la stessa domanda. Dischi rotti. Pensiero e decisione: questo serve. E capacità di comunicazione nella crisi: ciò che è tragicamente mancato. Non riusciamo a capire cosa sarà di noi tra una settimana e, intanto, continuiamo a non capire che la realtà tutta intera non può essere affrontata, consapevoli che sempre ci sfuggirà, in maniera separata e senza un’alleanza strategica tra politica, scienza, cultura e amministrazione. Ciascuna, s’intende, nella propria autonomia.
Confondiamo, separiamo, mutiliamo. Anziché gridare al vento, o rinchiuderci nei nostri specialismi, caliamoci nella realtà. Tanto, prima o poi, un’altra pandemia tornerà. Fa parte delle possibilità, nel grande mare dell’imprevedibile che governa le nostre vite.
07 Aprile 2020
Di Piero Schiavazzi da Huffington Post
Logos versus virus. Covid – 19 contro anima mundi.
Da Domenica delle Palme a Domenica dei “palmari”. Al posto del tappeto di mantelli e rami d’ulivo, Bergoglio ha “virtualmente” fatto ingresso, dai tablet e dagli schermi televisivi, nella settimana cruciale dell’anno liturgico.
Davanti alle piazze vuote, Francesco raccoglie la sfida, ineludibile per un Papa, di riempirle di senso. Sentendo sotto di sé “la certezza che si sgretola” e sopra le spalle il peso della storia. Con la memoria, recente o antica, di celebri duelli epocali. Tra pieghe degli anni e piaghe degli uomini.
Cercando nell’aria il nemico invisibile. Diverso dalle frecce a tre punte dei cavalieri unni. Dalle spade a due mani dei fanti lanzichenecchi. Dalle fortezze, volanti e gravide, che rasero al suolo San Lorenzo. E optando al dunque per la strada del logos, in luogo del patos.
Scegliendo, sul crinale scosceso tra le sue due anime, la via cognitiva, endoscopica, ignaziana del discernimento, piuttosto che quella emotiva, esoterica, sudamericana del sentimento.
“Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio”.
Giudizio severo. Da ultima spiaggia. Tirato a lucido da una pioggia leggera e indirizzato a un mondo che, avrebbe detto il predecessore, “soffre per mancanza di pensiero”. Discorso duro, divaricato tra i toni, sussurrati teneramente al microfono, e i contenuti, che riecheggiano segnatamente all’unisono e tracciano una linea, retta e senza soluzione di continuità, tra il monastero Mater Ecclesiae, residenza del papa emerito, e la Domus Sanctae Marthae, negli headquarters del papa regnante.
“Con la tempesta, è caduto il trucco ed è rimasta scoperta quella’appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci …”
C’è un nervo geopolitico e teologico che connette sottile, ipersensibile, i settennati di Bergoglio e Ratzinger. Divisi, più di quanto sia dato percepire. Uniti, più di quanto si possa concepire.
Lontani nella visione di Chiesa. Vicini nella concezione del mondo. Dialettici e distanti nell’analisi economica (Benedetto è un liberale illuminista e trascendente, Francesco un anticapitalista viscerale, impenitente) ma collimanti e univoci nella sintesi profetica.
Concordi ambedue nel giudizio, di fondo, sulla globalizzazione: un trend epocale che oggi subisce da dentro l’attacco esiziale, pestilenziale del coronavirus, ma che al loro sguardo realizza nondimeno ed esaudisce, provvidenziale, l’anelito divino di unificazione del genere umano. Come non si era visto prima nella storia.
Insomma, Dio lo vuole. Conclusione che in Bergoglio, papa di estrazione creola e attrazione sinica, si staglia in effetti conseguente, quasi tautologica, mentre in Ratzinger, europeista e sommo apologeta dell’imprinting greco - romano del cristianesimo, appare di per sé sorprendente, specie considerandone la portata teologica.
Eppure è stato proprio lui nel 2009, attraverso le pagine di Caritas in Veritate, a porre l’imprimatur di un’enciclica sul fenomeno dell’integrazione planetaria, riconoscendole un’anima e sancendone l’ascesa, nonché ascesi, dal piano sociale a quello dottrinale, quale “conditio” indispensabile alla sua comprensione: “La transizione presenta difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell’anima etica e antropologica, che dal profondo sospinge la globalizzazione...”.
Concetto etico che in Francesco si materializza ed evolve in precetto etnico, alla stregua di verbo che si fa carne: non solo unione di anime, ma fusione di razze. Con il monito esplicito, pronunziato in febbraio sul lungomare di Bari al cospetto dei presuli del Mediterraneo, a non “contrastare il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità”.
Se tuttavia le “avversità”, fino ad oggi, erano in primo luogo riconducibili ai populismi - sovranismi, nei cui confronti Bergoglio, proveniente da un paese peronista, sviluppa e possiede gli anticorpi del caso, il corona virus costituisce per contro un nemico inatteso, imprevisto, che trasferisce il terreno del contendere dall’ambito morale, delle coscienze, a quello subliminale dell’inconscio.
“Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca …”.
È come se la guerra mondiale a pezzi, mutuando la nota suggestione di Francesco, si fosse miniaturizzata e velocizzata, convertendosi da guerra di posizione in guerra lampo. Saldando in tempo reale l’umanità, sì, ma nella paura. E rimandando indietro, in flashback l’avventura del pontificato. Riavvolgendo il nastro del film e capovolgendone seduta stante la scena iniziale.
Quando infatti appena eletto l’arcivescovo di Buenos Aires rinunciò in un sol colpo, il 13 marzo 2013, al “palazzo” e alla “mozzetta”, per cingersi al loro posto di “popolo” e di “piazza”, non avrebbe pensato mai sette anni dopo di ritrovarsi a vivere la ricorrenza privo di entrambi.
L’unica “spoliazione” alla quale il pontefice, a dispetto della duplice predisposizione - argentino di nazione, assisiate di adozione - non era preparato. Sperimentando in modalità estrema il mistero e ministero della solitudine, indotta nel DNA di un Vicario di Cristo dall’incubatrice michelangiolesca della Sistina. Mutazione genetica che lo rende concettualmente l’uomo più prossimo a Dio ma pure, contestualmente, il più solo al mondo. Non solo servo bensì “nervo”, scoperto ed esposto ai sovraccarichi e cortocircuiti storici. Servo dei servi e, in definitiva, nervo dei nervi di Dio. Assimilandone la figura - oltre che a un ponte - ad un “fusibile”: paziente zero e portatore sano, filo conduttore della contraddizione insanabile, dell’orizzonte inconciliabile, in questa vita, tra cielo e suolo, natura e cultura, terra promessa e valle di lacrime, ospedali da campo e camere sterili.
Come se la creazione avesse mostrato improvvisa il suo lato dark (in alternativa si sarebbe costretti a prendere sul serio il ruolo di “alleato”, improvvidamente attribuito a Covid – 19, con una lettura estremistica di Laudato si’, dal gesuita Benedict Mayaki), separando poesia e prosa. Rompendo l’incanto amazzonico, ecologista della Chiesa di Francesco e atrofizzandone la capacità di reazione, che risulta e risalta inizialmente disorientata (di “sbandamento della leadership cattolica”, in proposito, ha lucidamente parlato Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio). Sino allo stop and go aneddotico, catartico della chiusura e riapertura delle parrocchie romane, disposta e revocata nell’arco di poche ore, proprio il 13 marzo, in un dietrofront da Quo Vadis, “Le misure drastiche non sempre sono buone”, ha sentenziato il successore di Pietro, celebrando la messa, dimessa, dell’anniversario e avvertendo impellente, inderogabile, la necessità di una scossa – riscossa.
Corto circuito mediatico tra esigenza evangelica e diligenza civica, tra Chiesa in uscita e Chiesa in ritirata (“In tempi di pandemia non si deve fare il Don Abbondio”, ha intimato al clero). Insostenibile impasse che ha spinto il Pontefice alla sortita, di Domenica pomeriggio, inoltrandosi solitario sulla via principale del centro cittadino, stretta e allungata, vuota e surreale come il tubo pulsante di un macchinario di risonanza magnetica. Per fare eco alle angosce, al rimbombo del mondo e trasformarlo in icona, silente, davanti al crocifisso “antivirus” di San Marcello al Corso, reduce dalla peste del 1522.
Immagine potente che assurge diagnostica, rivelatrice nella hit e galleria delle più significative del settennato e investe il nucleo stesso dell’esperienza di Francesco, spezzandolo e scindendolo in due, tra genesi e nemesi. Rovesciandone altresì e rinviandone l’esito sine die.
Avviene in Urbe, sul piano interno, ecclesiale, dell’evangelizzazione. Opponendo al messaggio e impegno missionario del papa gesuita, di portare la Chiesa fuori da se stessa, l’epilogo del vescovo che esce dalle mura e si aggira per la città deserta, dimora di un’umanità fortemente, forzosamente rarefatta: costretta in casa. Contrappasso feroce, da inferno dantesco, dell’individualismo e assenza di socialità – nell’era dei social -, che Francesco ha tenacemente, continuamente denunciato in guisa di male oscuro del millennio testé iniziato.
E accade in Orbe, sul piano esterno, internazionale, della globalizzazione. Posponendo in maniera indefinita il disegno e miraggio prioritario di Bergoglio, di tagliare il traguardo di Pechino: un obiettivo che sembrava sino a ieri a portata di mano, a seguito dell’accordo di settembre 2018 sulla nomina della gerarchia episcopale, ma oggi è tornato tout azimut proibitivo. Azzerando il countdown con una brusca frenata, mentre il paese leader dell’Occidente, colpito al cuore – nei centri vitali e diventato esso stesso epicentro - da una nuova Pearl Harbor, punta il dito e il dizionario all’indirizzo dell’Oriente, sul chinese virus e sul paese dal quale trae origine il flagello, fra guerre commerciali e revival dello scontro di civiltà.
In crudele analogia clinica con lo sviluppo del contagio, il morbo s’insinua dunque in profondità e insidia le vie respiratorie, innovative, del pontificato. La sua geografia e architettura diplomatica, protesa verso la Cina e l’Asia, per risalire la china di un cattolicesimo ancora fermo al tre per cento nel continente del futuro. La sua topografia e postura programmatica, distesa sulla teologia della città e sulla “scoperta di quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze … in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita”, recita Evangelii Gaudium, magna carta di Francesco.
Verosimilmente, sotto tale profilo, Covid -19 configura il nemico peggiore insorto fin qui sul cammino di Bergoglio, per l’attitudine a colpirne gli asset strategici e inibirne la narrazione, mirando ai luoghi “dove si formano i nuovi racconti e paradigmi” della Dottrina Sociale, dalle metropoli al Far East.
Un settimo sigillo e stigma bergmaniano, sull’agenda di un munus petrino che Padre Antonio Spadaro, fidato interprete, in tempi non sospetti connotò drammaticamente, sette anni fa, nel segno del confronto decisivo, da redde rationem, “tra il principe di questo mondo e il Signore della storia”.
Venerdì 27 marzo, ante-vigilia della risurrezione di Lazzaro. Come nell’episodio evangelico, la Chiesa giunge in ritardo sul luogo del dolore, ma si riprende subito, impareggiabile la scena, con una liturgia spettacolare, che catalizza l’audience e scala lo share. “Da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, da questo colonnato che abbraccia Roma …”
Erano tre lustri, dal funerale di Giovanni Paolo II e conseguente raduno dei grandi della terra sul sagrato gremito della basilica, che Roma non si mostrava così splendidamente, magistralmente “caput mundi”. Tratteggiando l’icona sovrana, contraltare, complementare di un re nudo nella sua solitudine: ma re.
Come una maison che dopo avere sperimentato il design alternativo del Giubileo 2016, start-up in Africa e produzione world-wide, riscopre il segreto e la romanità del proprio brand, nell’attitudine a confezionare, dall’Urbe, una visione dell’Orbe unitaria e prêt-à-porter: di massa e made in Rome.
Dall’abbraccio marmoreo del colonnato e quello incorporeo del web, l’Urbe ritorna quindi capitale. Ma l’Orbe, per effetto collaterale del corona virus, anziché presentarsi più coeso esaspera le disparità, pure all’interno della UE. Tra Nord e Sud, tra Est a Ovest: tra il Gruppo di Visegrad e i soci fondatori, su garantismo e autoritarismo. Tra luterani baltici e cattolici mediterranei, su intransigenza e “indulgenza” finanziaria.
“Le polarizzazioni sempre più forti non aiutano a risolvere i problemi”.
A immediata conferma del presagio del Pontefice, Covid - 19 conduce a maggiore età - cronicizzando ma non stabilizzando - l’era del disordine globale, inaugurata 18 anni prima, l’11 settembre 2001, al termine del breve, illusorio intermezzo del post guerra fredda, durato in tutto una dozzina d’anni, dal Muro di Berlino alle Twin Towers, e “dopato”, anabolizzato dal siero di verità della “fine della storia”.
Le polarità si moltiplicano e s’incrociano, in una serie di applicazioni geografiche o ideologiche, tra East e West, Meridioni e Settentrioni.
Tra l’East espansivo e guarito, lanciato a riconquistare, o estendere, la propria zona “d’influenza, lungo la via della silk and road initiative. E il West regressivo e ferito, lasciato a contare - contenere la perdita, crescente, di terreno e di vite.
Tra i Settentrioni, stremati ma organizzati: complessivamente in grado di opporre resistenza. E i Meridioni al contrario senza rete, disarmati, esposti al rischio di ecatombe biologica. Prospettiva che terrorizza il Vicario di Cristo. Come se l’inferno, schiacciato e tenuto a freno dal piede divino, si preparasse all’escalation dallo slum di una megalopoli africana o dalla botola di un campo profughi damasceno.
Infine tra le democrazie, che salvaguardano la struttura dello stato di diritto, e le autocrazie, che viceversa tirano dritto: attrattive, volitive, infettive. Approfittando della congiuntura per smantellarlo e volgerlo de facto in dittatura.
L’epidemia in definitiva disegna e ci consegna un mondo più piccolo e più grande, accorciando ed allungando, annientando ed aumentando in simultanea le distanze.
“Siamo sulla stessa barca”: nell’atrio di San Pietro, il Papa osserva il film a lieto fine del lago in tempesta, che campeggia sopra di lui dal mosaico giottesco. Fuori tuttavia, nel fascio di luce cinematografica del tramonto, il vascello della comunità internazionale evoca piuttosto la scialuppa del Titanic, dove l’istinto di sopravvivenza dei singoli prevale, scomposto, sulla consapevolezza “che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo”.
Diagnosi e prognosi, discorso e decorso separano destini e rotta di navigazione, al comando dei rispettivi capitani, che remano in opposte direzioni.
La barca è una, vero. Però l’equipaggio litiga e la sbilancia. Mentre l’onda di ritorno della recessione la spinge alla deriva. Impetuosa, imperiosa. Impedendole di raggiungere la terra e gettare l’ancora.
06 Aprile 2020
del Generale Massimiliano Del Casale da Affari Italiani
La tregua annunciata da Khalifa Haftar, mirata a dare un po’ di respiro al martoriato popolo libico nel tempo del Coronavirus, sembra non reggere. Anche in questi giorni, si registrano attacchi da ambo le parti che, sebbene sporadici, non danno pace al nostro vicino d’oltremare. L’iniziativa è sempre salda nelle mani dell’uomo forte di Bengasi: solo una settimana fa, a Tripoli sono piovuti missili lanciati da milizie dell’Esercito di Liberazione Nazionale (LNA) che hanno colpito i quartieri della città vecchia, non lontano dall’ambasciata italiana. Eppure, segnali distensivi per una possibile cessazione delle ostilità erano stati lanciati nei giorni immediatamente precedenti. Segnali peraltro prontamente raccolti dall’ambasciatore Buccino Grimaldi che, nello stigmatizzare l’ennesima violazione del cessate il fuoco, seguito alla conferenza di Berlino dello scorso gennaio, ha chiesto di tentare una ricomposizione del confronto nell’ambito del “Dialogo 5+5” e, in particolare, dei lavori della Commissione Militare Congiunta. Invito subito raccolto e fatto proprio anche dalla rappresentanza delle Nazioni Unite (UNSMIL).
E’ evidente il tentativo della comunità internazionale di tentare un abbassamento del livello di scontro tra al-Serraj e Haftar in un passaggio storico tanto drammatico, in cui la strada per neutralizzare gli effetti del Covid-19 appare tutta in salita, sia per livello di propagazione che per durata. La sensazione è che la situazione di emergenza globale terminerà solo con l’arrivo del vaccino. Di conseguenza, al momento, è forte anche l’auspicio di ricomporre un confronto, da tempo ampliatosi sul piano internazionale, tra Russia e Turchia, con la Francia sempre più assertiva nello scenario libico. Ma la geo-politica non si ferma, come non si fermano, nemmeno in questo terribile momento, le manovre per acquisire il maggiore vantaggio possibile, una posizione di maggior favore allorquando l’emergenza terminerà e l’attenzione mondiale si concentrerà di nuovo anche sul Mediterraneo. Nelle settimane appena trascorse, la Turchia ha trasferito migliaia di miliziani provenienti dall’area di Idlib e, più in generale, dal teatro siriano, a disposizione del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli. Sull’altro fronte, mercenari e miliziani russi e sudanesi stanno alimentando l’esercito del generale Khalifha Haftar, forte anche dell’appoggio di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi che, in ragione anche della strada intrapresa per una soluzione della guerra civile nello Yemen, possono adesso guardare all’alleato libico con una maggiore “apertura di credito” nel confronto contro Tripoli. Un’apertura di credito che si traduce in forte supporto finanziario e prezioso approvvigionamento di materiali d’armamento.Inutile sottolineare come le numerose parti in causa non si facciano alcuno scrupolo di violare la Risoluzione 2473 dell’ONU, dello scorso anno, in materia di embargo di risorse umane e materiali d’armamento. Ma la posta in gioco è altissima e troppo importante per allentare la presa in un momento in cui dobbiamo confrontarci con una gravissima pandemia che sta decimando la popolazione mondiale. E la prospettiva di una gravissima quanto inevitabile recessione verso la quale molti Paesi, Italia compresa, sembrano avviarsi alimenta l’assertività dei diversi playesr, non solo per espandere influenza geo-politica, ma anche per trarre nell’immediato un vantaggio economico e commerciale dalla nuova ripartizione della “torta energetica libica”, destinata a modificarsi molto significativamente in un futuro ormai prossimo.Il 9 marzo il generale Haftar ha fatto visita al presidente Macron, a Parigi. Il quotidiano Le Monde ha ipotizzato per la circostanza la definizione di un accordo: sbloccare il commercio di petrolio nelle aree controllate dalle milizie di Bengasi in cambio di denaro destinato direttamente a società finanziarie della Cirenaica, eludendo quindi la Banca Centrale Libica di Tripoli che pure ha garantito sinora equanime ridistribuzione dei proventi derivanti dalle esportazioni complessive di greggio. Il giornale parigino ha definito l’accordo una “roadmap inclusiva”. Il disegno francese, pur lasciando trasparire talune difficoltà nell’arginare gli imprevedibili atteggiamenti dell’uomo forte di Bengasi, mira a rendere sempre più ampia la forbice di una sua alleanza con la Russia che, più di recente, ha assunto una posizione di maggiore equidistanza tra le parti in conflitto. E’ altrettanto evidente come Parigi giochi una propria partita in Libia, lontana dalle posizioni dell’Unione Europea e, più marcatamente, in contrasto con la presenza e l’azione politica dell’Italia.
Dall’altra parte dello schieramento, le cose non sembrano andare meglio. Tutt’altro.Dopo tanti sforzi di mediazione da parte della comunità internazionale -Italia compresa- ispirati dalla volontà di perseguire una soluzione diplomatica della crisi, cercando al contempo di neutralizzare sul piano politico, prima che economico-commerciale, le usuali invasioni di campo, specialmente ad opera dei vicini d’oltralpe, la situazione si è di fatto arenata innanzi alle richieste di un “intervento sul campo”, avanzate a più riprese al nostro governo da Fayez Al-Serraj. Nel novembre dello scorso anno, sul punto di capitolare sotto gli attacchi di Haftar, giunto ormai alle porte della capitale, Tripoli ha chiamato in suo aiuto la Turchia che è immediatamente intervenuta con i miliziani provenienti dal fronte siriano e con ingenti quantitativi di materiale d’armamento, oltre che con istruttori e consiglieri militari e funzionari civili. In cambio, Erdogan e Al-Serraj hanno immediatamente sottoscritto importanti accordi destinati a modificare la mappa dello sfruttamento degli impianti della National Oil Company (NOC) di Tripoli e a dare la possibilità di avviare una nuova campagna di prospezioni nel territorio. Un grave danno per quanti, come ENI e TOTAL -ma non solo- operano da tempo in Libia. In più, sempre sul finire del 2019, i due paesi hanno definito un accordo per individuare una nuova Zona di Esclusivo interesse Economico (ZEE) compresa tra la costa turca, tra Kas e la penisola di Marmaris, a ovest di Antalya, e la Cirenaica, in contrasto con le posizioni dell’UE, dell’Egitto, degli USA e contro gli interessi di Grecia, Cipro, Egitto e Italia, sia a carattere giurisdizionale, poiché la nuova ZEE attraversa le acque territoriali della Grecia, che commerciale in quanto la fascia di Mediterraneo individuata registra già da molto tempo un’intensa attività estrattiva off-shore di compagnie petrolifere autorizzate, comprese ENI e TOTAL. Un’iniziativa unilaterale, priva della necessaria legittimazione delle Nazioni Unite e, pertanto, al di fuori dell’ortodossia del Diritto internazionale. In sostanza, una decisione che è destinata ad incrementare l’instabilità nel Mediterraneo e, possiamo esserne certi, costituirà oggetto di confronto, politico ed economico.
Il 23 marzo scorso si è tenuta una video-conferenza a livello di ministri degli esteri dell’UE incentrata sul monitoraggio dell’embargo di armi alla Libia. Un meeting di cui in realtà non vi è rimasta alcuna traccia significativa. Un risultato che dovrebbe preoccupare soprattutto il nostro Paese che, più di qualsiasi altro, rebus sic stantibus, è destinato a perdere spazi e ruolo. E senza dover nemmeno attendere la conclusione del conflitto. Oggi, gli impianti dell’ENI sono praticamente fermi, tutti ubicati in aree controllate dal generale Haftar. Le attività estrattive sono limitate alle piattaforme off-shore di Bouri e di Bahar Essalam, al largo di Tripoli, oltre che dal funzionamento del Green Stream, l’importantissimo gasdotto che convoglia il gas estratto nelle aree di Wafa, nella provincia di Mellitah, verso gli impianti di Gela. Gli accordi sopraggiunti con la Turchia rischiano di esautorare la presenza italiana, ponendo a rischio l’alimentazione energetica del nostro Paese. Di fatto, l’approccio “europeo”, sempre estremamente fermo e tenace in materia di rispetto dei vincoli di bilancio o di impiego del c.d. “fondo salva Stati” (MES), appare balbettante, indeciso e distante dai grandi temi di difesa e sicurezza (salvo i recenti orientamenti assunti in materia di Cooperazione Strutturata Permanente - Pe.S.Co.) e di politica internazionale. La questione libica non fa eccezione. Ogni iniziativa per una soluzione della crisi è stata sinora lasciata alle Nazioni Unite. Non aiuta in tal senso la posizione dei paesi del nord, il cui unico pensiero, in termini di minaccia alla sicurezza comune, è rivolto ad est, nonostante il vertice di Varsavia dei capi di governo dei paesi NATO (giugno 2016) abbia riconosciuto che il fianco sud dell’Europa è chiamato a fronteggiare una “minaccia emergente”. Questa la ragione per cui, da una propria prospettiva nazionale (o, meglio, nazionalistica), al momento, l’atteggiamento dell’Eliseo, che si è sempre mosso in maniera “parallela”, appare essere pagante o più appropriato nel salvaguardare un interesse nazionale.
E l’Italia?L’Italia, come accennato, ha sempre cercato di ricomporre le sorti del conflitto e guardare ad una futura nazione libica pacificata, unita e finalmente avviata verso un processo di democratizzazione. Tutto questo per due ragioni fondamentali: evitare una frattura del paese in zone di influenza, una “balcanizzazione” pericolosa sia per la stabilità dell’intera area mediterranea sia per le politiche energetiche nazionali che guardano oggi all’ENI come al partner industriale più importante e presente su tutto il territorio del paese nord-africano. Vero strumento di politica estera, in quanto risorsa fondamentale anche per il popolo libico. Il nostro Paese è poi impegnato in una difficile opera di contrasto alla criminalità che si finanzia attraverso il traffico di essere umani. In prima linea a fronteggiare i grandi flussi migratori provenienti dall’Africa sahariana e sub-sahariana, causati da carestie, siccità e guerre locali, dalla carenza di risorse idriche che ciclicamente sconvolgono i territori di gran parte di quel continente. Uomini e donne in fuga verso l’illusione di una vita migliore. Flussi migratori provenienti anche dal Medio Oriente, dalla guerra civile in Siria, da quella in Irak. Popolazioni in fuga anche dall’Afghanistan che sulle coste libiche trovano i punti dai quali spiccare l’ultimo salto verso l’Europa. Si tratta di un fenomeno che si è aggiunto al conflitto interno scatenatosi all’indomani della caduta del regime di Gheddafi, prima, e della guerra contro Daesh, poi, e di nuovo con l’attuale guerra civile.Ma, a fronte di tali emergenze, della necessità assoluta di salvaguardare gli interessi nazionali -prima di tutto, quelli energetici-, di seguire da vicino e con continuità l’evolversi della crisi al fine di prevenirne qualsiasi escalation, di monitorare le sorgenti dei flussi migratori in modo da contrastare più efficacemente il traffico di esseri umani, di tenere sempre vivo il dialogo con le maggiori tribù del sud della Libia che detengono da sempre il controllo sociale dei propri territori e che pure eravamo riusciti ad avvicinare almeno a tutto il 2017, l’Italia ha sempre dato la sensazione di non riuscire a dominare gli eventi, assumendo iniziative isolate e nelle sole fasi emergenziali. E tutto questo, nonostante l’incipit delle varie amministrazioni americane ad assumere il controllo e il coordinamento di qualsiasi iniziativa, sia politica che operativa, nel Mediterraneo centrale: ma nulla è di fatto accaduto. Piuttosto, siamo stati sempre alle prese con una faticosa azione di controllo o contrasto alle varie ONG che affollano il Mediterraneo centrale con le proprie imbarcazioni. Gli esiti della conferenza di Berlino, del 19 gennaio scorso, rappresentano al meglio il senso dell’attuale situazione. I media hanno sottolineato i pericoli connessi ad un accordo -o, meglio, ad un “mezzo accordo”, visto che le parti direttamente interessate non erano presenti al tavolo della trattativa e che il generale Haftar non ha nemmeno firmato il documento finale- per un immediato cessate il fuoco in Libia. Eppure, si ha la sensazione che nessun’altra iniziativa sia realmente decollata, né da parte europea né da quella nazionale. La stessa Missione marittima “Irene”, di contrasto al traffico di armi dirette in Libia su ambo i fronti e che dovrebbe a giorni aver inizio in concomitanza con la conclusione dell’Operazione “Sophia”, prorogata sino al 31 marzo, non riesce ancora a trovare una linea di azione condivisa. L’Unione Europea intenderebbe infatti fare ancora una volta riferimento ai porti italiani come luogo di approdo sicuro per gli eventuali profughi o naufraghi che le navi militari dovessero intercettare nel corso della missione, incontrando questa volta l’avviso contrario del nostro governo.Peraltro, lo scenario libico pare destinato ad affollarsi sempre più. E’ di questi giorni l’annuncio del ministro dell’interno tripolino, Fathi Bashaga, di un’offerta avanzata agli Stati Uniti di aprire una base militare nel territorio ancora sotto il controllo di Al-Serraj con lo scopo dichiarato di realizzare una base di partenza per il contrasto al terrorismo nel Sahel e con quello, implicito, di evitare di consegnare la Libia ad Haftar e ai suoi alleati, russi, sauditi ed emiratini, trovando ulteriore e decisivo sostegno dall’eventuale intervento americano. Accetterà il “tycoon”? Difficile dirlo. Nella primavera dello scorso anno, i militari USA lasciavano definitivamente Tripoli per non farsi coinvolgere oltre, nel conflitto. La policy “America first”, tanto cara a Donald Trump, non lascia intravedere al momento un’ipotesi del genere che comporterebbe un ingresso al fianco del GNA. D’altra parte, non va dimenticato che il generale Haftar ha trascorso oltre dieci anni di esilio negli States, possiede un passaporto americano e tra i suoi alleati vi è l’Arabia Saudita, alleato di ferro (ancora per il momento, almeno) nel Medio Oriente. Certo, rispetto alla primavera del 2019, molte cose sono cambiate in Libia, soprattutto sul piano internazionale. E’ apparsa con forza la Russia, sempre più determinata ad assumere come non mai una posizione di preminenza geo-politica nell’unico “mare caldo” che le è consentito, dopo aver messo le radici nelle installazioni militari siriane (il porto di Tartus e la base aerea di Latakia). La Turchia, che avanza verso Ovest con una determinazione ed una assertività che la spingono ad assumere iniziative al limite dell’ortodossia del Diritto internazionale. La Francia, d’altra parte, gioca sempre su più tavoli: segue le decisioni dell’Unione Europea, non si contrappone al leader di Tripoli, ma fornisce supporto militare a livello di forze speciali ed intelligence alle milizie di Bengasi con l’evidente scopo di capitalizzare sul piano commerciale ed energetico gli esiti di una risoluzione del confitto in atto.E tutto ciò, in epoca di Coronavirus!Non ci si può aspettare uguale intraprendenza dall’Italia. Non abbiamo mai dato segnali del genere nella nostra storia recente. Raramente abbiamo avviato attività negoziali unilaterali, per quanto mirate a tutelare gli interessi del Paese, ma sempre e solo nel quadro di iniziative assunte da organizzazioni internazionali. Men che meno poi attività operative, peraltro, con uno strumento militare che negli anni è stato adattato e dimensionato alle esigenze di bilancio dello Stato piuttosto che ad una visione strategica di politica estera e di sicurezza di cui costituisce, tra le varie, naturale espressione.Ma esiste una cura, una favorevole prospettiva d’intervento di fronte all’incalzante mutare dello scenario libico, che al momento ci vede in soggezione di quota? Possiamo fare in modo che le nostre speranze di stabilità in un paese distante meno di 400 chilometri dalle coste italiane e senza pace da così tanto tempo non debbano essere legate solo ad un assai improbabile ravvedimento della comunità internazionale o piuttosto al ruolo che potrebbe ancora giocare la presenza (e il funzionamento!) dell’ENI in Libia?Tante le situazioni che si dovrebbero modificare. Difficile essere ottimisti. Un eloquente indicatore è rappresentato dai media nazionali che da mesi non dedicano spazio alcuno all’evoluzione di questa crisi e alle tante iniziative -promosse da altre realtà statuali- che ruotano attorno ad essa.Nella “Realpolitik”, la risposta.Se spostiamo lo sguardo più a est, scopriremo che vi sono ancora molte opportunità che vale la pena cogliere e sviluppare, ma con concreta convinzione e continuità.Una di queste, forse la più importante in una prospettiva di medio termine, è l’East Med Gas Forum (EMGF), un “tavolo” al quale siedono i ministri dell’energia di Cipro, Egitto, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Autorità Nazionale Palestinese, istituito al Cairo nel gennaio 2019 e finalizzato ad agevolare la creazione di un mercato regionale del gas, ma che potrebbe esso stesso recitare un ruolo di player geo-politico prima che economico-commerciale. Non a caso, la Francia sta già chiedendo di entrare a farvi parte. Il forum mira alla cooperazione energetica nel Mediterraneo orientale e pone al centro della propria progettualità la realizzazione dell’EastMed, il gasdotto che convoglierà il gas estratto in quel quadrante regionale, a partire dal territorio israeliano e continuando con i ricchi, recenti giacimenti off-shore al largo di Israele, dei territori palestinesi e quelli che circondano l’isola di Cipro, verso il continente europeo, attraverso la Grecia e l’Italia. Un investimento da sei miliardi di dollari, un progetto molto oneroso e di non facile realizzazione, vista la particolare “effervescenza” di quell’angolo del pianeta e le difficoltà tecniche da superare oltre che i costi di realizzazione assai elevati. Un progetto che di sicuro trova nella Turchia, esclusa dal consesso, un deciso oppositore, viste le ambizioni di protagonista regionale che da tempo persegue.Per l’Italia, la prospettiva di diversificare l’approvvigionamento energetico e di avvicinarsi con un ruolo da membro del G7 ad un consesso di nazioni con le quali ha da sempre ottime relazioni, politiche e commerciali. Non mancano alcune ombre. I rapporti con l’Egitto hanno vissuto di sicuro stagioni migliori rispetto alle attuali, dopo le vicende legate alla morte di Giulio Regeni. Ma politica e giustizia devono poter viaggiare su binari diversi, pur nella convinzione che fare chiarezza aiuta in un rapporto che non può obiettivamente basarsi solo sull’interesse.L’Italia non deve tralasciare questa nuova opportunità che è politica, prima che commerciale. Pensiamo solo per un istante alle occasioni di dialogo che potrebbero scaturire pure in seno al c.d. “Mediterraneo allargato” da una relazione con i grandi operatori presenti nell’area, come Russia e Qatar, massimi produttori mondiali di gas. Giocare con un ruolo da protagonista in una area tra le più sensibili e direttamente legate, geograficamente ed economicamente, al nostro territorio. Un’area simbolo per l’Occidente perché ne segnò di fatto la nascita, quale scenario del confronto “madre” dell’era moderna. La battaglia di Lepanto, del 1571. Un’evocazione che dovrebbe essere in grado di far comprendere quanto fondamentale sia lavorare per la sicurezza del Mediterraneo. Ma per farlo, sono necessari competenza, lungimiranza, determinazione, continuità ed un progetto strategico condiviso, in grado di resistere al variare delle stagioni del nostro fantastico Paese. Pure nel tempo del Coronavirus!
30 Marzo 2020
Di Pasquale Russo Medium.com
Si sta scatenando in Italia il dibattito su quando finirà questa forma di limitazione delle libertà individuali indicando come al solito le buone prove di altre Nazioni che sarebbero state più capaci di gestire la crisi, di avere meno morti e meno costi economici
In particolare si sottolinea la performance della Sud Corea che ha immediatamente circoscritto i focolai e gli individui facendo oltre 380.000 tamponi individuando i positivi e tracciandoli trasferendo a tutti i cittadini con un’app la loro vicinanza a meno di 100 metri da un individuo positivo al coronavirus.
Ricordiamo che la Sud Corea ha circa 52 milioni di abitanti ed il primo caso è avvenuto il 20 Gennaio.
In Italia partendo circa una settimana dopo ha effettuato ad oggi circa 430.000 tamponi su una popolazione di 60 milioni di abitanti.
Il rapporto della Sud Corea è un tampone ogni 136 abitanti mentre per l’Italia è un tampone ogni 139 abitanti.
Si consideri inoltre che circa 300.000 tamponi sono stati effettuati nelle Regioni del Nord Italia la cui popolazione è pari a 28 milioni, cioè nelle regioni del Nord sono stati effettuati tamponi ogni 95 abitanti, molto superiori a qualsiasi parte del mondo individuando così 74.000 positivi al coronavirus.
Questo dovrebbe far riflettere su cosa sia successo nel Nord Italia e sulla probabile ipotesi che la contagiosità sia stata di un fattore 10 volte superiore a quanto avvenuto negli altri luoghi dove è scoppiata la pandemia.
Non si sarebbe in nessun modo potuto contenere la contagiosità se non con un totale lockdown e non sarebbe stato possibile pensare ad una tecnologia di tracciamento e di distanziamento in così breve tempo e con un emergenza sanitaria da risolvere.
La situazione fotografata al 28 Marzo è la seguente (fonte Protezione civile):
Inoltre a maggior ragione dei 10.000 morti per coronavirus o con coronavirus soltanto il 10% si concentra nel Centro nel Sud nelle Isole.
La situazione italiana sarà da studiare in maniera approfondita e con un approccio scientifico nel futuro, anche perché non esistendo un protocollo internazionale per stabilire le cause di morte in questa pandemia, appaiono incomprensibili le differenze di letalità fra le diverse aree del globo.
Per finire e tornare al titolo, mi ha molto colpito l’intervista rilasciata due giorni, il 26 Marzo, fa dal dott. Antony Fauci al campione del NBA Stephen Curry su Instagram.
Anthony Stephen Fauci che abbiamo visto alle spalle di Trump nelle conferenze stampa è un immunologo statunitense di origini italiane che ha fornito contributi fondamentali nel campo della ricerca sull’AIDS e altre immunodeficienze, sia come scienziato, sia come capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases.
Ha lavorato a stretto contatto con l’ex presidente Barack Obama durante l’epidemia di Ebola e l’ex presidente George HW Bush ha definito Fauci il suo eroe in un dibattito del 1988.
Fauci ha dato contributi fondamentali nella comprensione di come il virus dell’AIDS distrugga le difese immunitarie del corpo, ha anche delineato il meccanismo di induzione dell’espressione del virus HIV da parte di citochine endogene, le stesse che reagendo al coronavirus portano alla morte le persone.
Quindi possiamo ritenere che sia uno scienziato che sa cosa dice quando parla.
Ebbene Stephen Curry gli ha chiesto: La domanda nella mente di tutti è quando possiamo tornare alla normalità?
Fauci ha risposto: Abbiamo bisogno che la traiettoria della curva inizi a scendere. La Cina ha iniziato a farlo ora, ma è necessario fare attenzione a non reintrodurre il virus. Possiamo pensare di tornare a un certo grado di normalità quando il Paese nel suo insieme ha girato l’angolo e il contagio ha iniziato a calare. A quel punto possiamo individuare i singoli casi e controllarli e non essere sopraffatti da un numero ingestibile di casi.
In questa risposta c’è anche quella per noi italiani, la curva del contagio deve iniziare a scendere dappertutto e non solo in qualche zona dell’Italia perché il virus può riprendere rapidamente quota spargendosi di nuovo dappertutto.
Quando i casi saranno numericamente ridotti allora sarà possibile controllarli e gestirli attraverso un sistema tecnologico che consenta ai non contagiati di proteggersi mantenendo una distanza di sicurezza fisica dai cittadini positivi al coronavirus.
Non parla di mettere sotto controllo tutto il popolo americano, rifiuta uno Stato omnisciente.
Se posso fare una previsione credo, in base agli approcci empirici e ai modelli matematici, che l’Italia abbia bisogno di altre tre settimane di chiusura totale, nel frattempo deve attivare un sistema di controllo dei positivi rapido, poco costoso e diffuso su tutto il territorio quindi a quel punto attivare il controllo dei cittadini positivi affinché il contagio non si diffonda.
Anche perché lo scienziato Fauci dice che probabilmente questo virus è ciclico e potrebbe riapparire con la stagione invernale e quindi dovremo farci trovare preparati per una ulteriore sua diffusione.
Bisogna assumere il dato che questa pandemia terminerà con la scoperta del vaccino, solo a quel punto torneremo alla normalità che probabilmente sarà diversa da quella che avevamo, perché sarà cambiato il Mondo.
26 Marzo 2020
di Marco Emanuele da Formiche.net
L’uomo non è soltanto somiglianza (…) di Dio, Fonte, Inizio, Sorgente, Causa (equivalenti omeomorfici), ma anche immagine (…) della Realtà, un mikrokosmos, come dicevano gli antichi (fino a Paracelso e ai seguaci della “philosophia adepta”), che rispecchia il completo makrokosmos. (Raimon Panikkar, Vita e Parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010, p. 11)
Il nostro percorso di ricerca guarda alla necessità, per noi umani del terzo millennio, di (ri)trovarci in un legame (vincolo e possibilità) nel sentimento della storia. Prosaici e poetici, lucebuio, è bene guardar(ci) dentro, nel profondo della nostra complessa – e sfuggente – esperienza umana, per (ri)scoprirne l’oltre, il mistero istituente.
Così notano Gerald Hall e Joan Hendriks (2009): Richiamandoci al teologo tedesco Karl Rahner, la conoscenza più profonda che abbiamo come esseri umani non è la “consapevolezza di qualche oggetto al di là di noi stessi, bensì una conoscenza partecipativa” che ha una propria intelligenza profonda, pratica e “salva-vita” (1).
Dovremmo “attraversare” la storia, cogliendone l’elemento religioso, quello che (ri)lega ciò che è disperso. Non c’è separazione possibile fra tutte le dinamiche dell’umano e del reale globalmente inteso. Ciò che noi separiamo prosaicamente è, in realtà, inseparabile poeticamente.
Ciò che ci interessa, mirabilmente espresso da Hall e Hendriks (2009) (2) con riferimento ai popoli aborigeni, è un senso cosmologico o metafisico più ampio delle cose, che va al di là delle parole (e del tempo) o (…) che collega gli eventi ritmici agli Eventi Permanenti. Questo è un punto decisivo: in quel senso, infatti, c’è la vita-della-vita, vive il nostro mistero istituente, ciò che chiamiamo “comune” (3). Panikkar parla di intuizione cosmoteandrica (4).
Al di là dell’apparente difficoltà dell’espressione, intuizione cosmoteandrica siamo noi. Se ogni essere umano non apre la porta di questa dimensione, l’unica che può portarlo verso la pienezza senza mai raggiungerla, il nostro destino rimarrà quello di turisti della vita e non diventerà quello di navigatori in essa. Pur essendo noi lucebuio, impossibilitati a compiere la pienezza in ogni nostra esperienza di vita, è nell’oltre, porta aperta verso la pienezza, che possiamo (ri)trovarci in relazione (re)ligiosa, abitanti-nella-totalità che ci appartiene e che ci supera. La vita è relazione, la vita è (re)ligione.
Come anche in Morin, la relazione trinitaria è fondamentale nella intuizione cosmoteandrica, a-duale (5), di Panikkar. Scrive Francis X. D’Sa (2009) del presupposto che l’autentico misticismo venga vissuto concretamente quando si coltiva la sensibilità alla triplice dinamica della realtà (6). Sinonimi di visione mistica potrebbero essere pensiero complesso, critico, poetico, d’intelligence. Del guardare nel profondo per accogliere l’oltre. Nel criticare il genio di Descartes, Panikkar (2010) scrive che senza il correttivo della mistica riduciamo l’uomo a un bipede razionale, quando non razionalista, e la vita umana alla supremazia della ragione (7). La mistica autentica, sottolinea ancora Panikkar (2010), quindi non disumanizza. Ci fa vedere che la nostra umanità è qualcosa di più (e non di meno) della pura razionalità (8).
L’intuizione cosmoteandrica ci porta in una vera e propria metamorfosi-di-noi. Con tale intuizione, infatti, siamo nel profondo dell’inter-in-dipendenza di esseri umani che, come nota Francis X. D’Sa (2009), dal punto di vista relazionale (…) partecipano (…) alla perichoresis cosmoteandrica. (…) non sono mai né totalmente indipendenti né completamente dipendenti (9).
Ecco il mistero del comune, di quel percorso profondo, che, al contempo, ci lega (ci vincola) e ci libera “in” e “con” (aprendoci alle possibilità, dischiudendo le potenzialità).
Il mistero del comune è la Vita stessa come relazione ed è nella vita in cui ne facciamo, ciascuno, originale esperienza (mai solo per il “nostro” sé) (10). L’esperienza della Vita, dice Panikkar (2010), non è la coscienza del passare del tempo. Ciò di cui si fa esperienza è l’istante della tempiternità. L’esperienza non si misura col tempo (11).
Altresì, sottolinea Panikkar (2010), l’esperienza della Vita è l’unione più o meno armonica delle tre coscienze prima che l’intelletto le distingua. Questa esperienza sembra mostrare una complessità speciale – che chiamerei trinitaria (12). Ed è una esperienza che noi viviamo nel nostro essere limitati, compresi in essa e da essa superati. Ed è una complessità, nel significato stesso della parola, non separabile (13).
NOTE
(1) Gerald Hall e Joan Hendriks, Il misticismo naturale nelle tradizioni indigene australiane in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 27. In nota, gli Autori scrivono: Questo è, per Rahner, in effetti, il cammino verso la conoscenza di Dio e del mistero divino, ossia la via che porta il conoscente umano alla comprensione non-oggettiva di sé e dell’Essere infinito. , ad esempio, Karl Rahner, Foundations of Christian Faith (New York, Seabury Press, 1978; ed. originale tedesca, 1976), pp. 51-71. Panikkar, com’è noto, parla a questo proposito di “consapevolezza mistica” o “coscienza trans-storica”: “E’ una consapevolezza che scalza il tempo o, piuttosto, che raggiunge la pienezza del tempo, visto che I tre tempi vengono esperiti simultaneamente”. The Cosmotheandric Experience, pp. 132ss.
(2) Gerald Hall e Joan Hendriks, op. cit. 2009, p. 27
(3) Gerald Hall e Joan Hendriks, op. cit. 2009, p. 29: Vi è un senso del tutto che comprende la realtà sacra della terra o del territorio ed è la consapevolezza che la comunità umana è essa stessa dipendente dal nostro comune legame con il luogo. Non è un legame che possiede il luogo ma che lo rende comune, dunque aperto (globale). Potrebbe trattarsi, notiamo, anche dell’altra faccia della nostra responsabilità verso la creazione che siamo (anche) noi, parte-di-tutto.
(4) Francis X. D’Sa, SJ, Jnanesvara e Panikkar. Misticismo nello Jnanesvari e l’intuizione cosmoteandrica in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni, op. cit. 2009, p. 31: Quando introdusse inizialmente la sua ormai nota intuizione cosmoteandrica, Panikkar sottolineò che non stava proponendo nulla di nuovo: “La visione cosmoteandrica può essere considerata la forma originaria e primordiale di coscienza. In effetti, essa balenava fin dagli albori della coscienza umana come visione indivisa della totalità” (R. Panikkar, “Colligite Fragmenta. For an Integration of Reality”, in F.A. Eigo e S.E. Fittipaldi (a cura di), From Alienation to At-one-ness (Villanova PA, The Villanova University Press, 1977), p. 55. Altrove egli ha scritto: “Intendo dire che questa visione è sempre stata con noi e ha sempre assolto alla funzione del saggio di ricordare ai contemporanei la totalità, preservandoli così dal rimanere abbagliati da intuizioni illuminanti ma parziali” (R. Panikkar, “Colligite Fragmenta”, cit., p. 57.
(5) Francis X. D’Sa, op. cit. 2009, p. 35: Dio, il Mondo e l’Uomo non sono tre realtà distinte ma concorrono a formare la realtà in modo a-duale. (…) Ricorrendo a un’analogia possiamo dire che la relazione con il Mondo è centrifuga, la relazione con l’Uomo è centripeta e la relazione con il Divino è orbitale. Le tre forze sono interrelate e interdipendenti. Non si può comprendere nessuna di esse senza le altre due.
(6) Francis X. D’Sa, op. cit. 2009, p. 33. Nota l’Autore, op. cit. 2009, pp. 34 e 35: (…) suggerisco che l’autentico misticismo sia caratterizzato dall’apertura e dalla sensibilità alla triplice dinamica della realtà. In tale prospettiva il mistico è colui che scopre l’unità di Uomo, Cosmo e Divino. (…) L’atteggiamento mistico: a) non reifica la dimensione cosmica; b) non riduce l’Uomo soltanto a un “essere umano” che costitutivamente resta irrelato con il Cosmico e il Divino; c) non crede neppure in un Dio che non abbia nulla a che fare con il Cosmo o con l’Uomo. Nota ancora l’Autore, op. cit. 2009, p. 42: La pratica della spiritualità cosmoteandrica conduce al misticismo. Nel nostro contesto il termine “misticismo” è riferito all’esperire attivamente la triplice dimensione della realtà e dell’agire spontaneamente in sintonia con essa.
(7) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 12. L’Autore, op. cit. 2010, p. 12 nota, inoltre, che la mistica non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. Aggiunge l’Autore, op. cit. 2010, p. 16: L’esperienza mistica sarebbe quella che ci permette di godere pienamente della Vita. “Philosophus semper est laetus” (“Il filosofo è sempre lieto”), scrisse il mistico Ramon Llull. (…) La fede è “la gioia della Vita”, non esita a dire il (…) martire Giustino.
(8) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 13
(9) Francis X. D’Sa, op. cit. 2009, p. 36
(10) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, pp. 15 e 16: Quando dico esperienza della Vita non intendo l’esperienza della mia vita, ma della Vita, quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si “sente” palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi. (…) L’esperienza della Vita (zoe), arriva a dire san Giustino nel II secolo, è l’esperienza del datore della vita – dato che la nostra vita non vive di per sé, ma partecipa della Vita.
(11) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 16
(12) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 17
(13) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, pp. 21 e 22: La debolezza (seppur accompagnata da molte grandezze) dell’Occidente moderno deriva dal secondo principio del metodo cartesiano: “Se vuoi risolvere un problema, comincia col sezionarlo …; ma poi succede come all’apprendita dell’orologiaio, al quale, nel ricomporre l’orologio, avanzano dei pezzi”. La frammentazione della realtà: ecco il punto debole della cultura occidentale.
25 Marzo 2020
di Marco Emanuele da Formiche.net
Viviamo sulla superficie di noi stessi. Siamo posseduti da forze oscure, dai nostri Daimon interni ed esterni a noi. Siamo posseduti dai miti, dagli dèi, dalle idee. Siamo dei manipolatori manipolanti, siamo posseduti da ciò che possediamo, vivere è come un’ebrezza e come un sonnambulismo (Edgar Morin, Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, p. 88)
Nella nostra anima c’è un mare interiore, uno spaventoso e autentico mare tenebrarum ove imperversano le strane tempeste dell’inarticolato e dell’inesprimibile (Maurice Maeterlick)
Mai l’umanità ha riunito tanta potenza e tanto smarrimento, tanta preoccupazione e tanto gioco, tanta conoscenza e tanta incertezza. L’inquietudine e la futilità si spartiscono i nostri giorni (Paul Valéry, 1932)
Possiamo normalizzare, banalizzare, razionalizzare e così eliminare l’ignoto e l’inconoscibile. Questi riappariranno a ogni avanzare della conoscenza (Edgar Morin, op. cit., p. 145)
Siamo lucebuio. Abbiamo coniato questo neologismo per mostrare la nostra intrinseca complessità. Siamo, come dice Morin (2018), macchine non banali (1), prosaico/poetiche (2). La nostra vita non scorre secondo la logica del determinismo (3). L’inatteso spacca la linearità di un (presunto) perfetto software: a un input A non corrisponde un output certo.
Il nostro tempo e il nostro spazio vitali continuano, e discontinuano, una tempiternità e una globalità che incarniamo. I dolori, le contraddizioni, le potenzialità dei nostri avi vivono in noi, così come i dolori, le contraddizioni e le potenzialità del mondo. Ne viene che noi siamo ciò che siamo stati. Il nostro vivere il presente e il nostro stare su un territorio non limita la nostra responsabilità storica a ciò che accade “qui” (in ogni nostro “qui” sicuro e protetto) e all’ “ora” (in ogni presente imminente). Ciascuno di noi (ri)vive, (re)interpretandolo, lo spettacolo senza fine dell’esperienza umana.
Lucebuio, certezza incerta, territorialità globale, personalità universale (4), viviamo perennemente nel movimento tra communitas e immunitas, rendendo la comunità al contempo necessaria e impossibile. Se vogliamo la comunità, se apriamo alla solidarietà, molto spesso ci ritroviamo incapaci di costruire prospettive di (con)divisione perché è in noi anche una forza distruttrice (5). Lucebuio, l’ordine certo e la compiutezza assoluta sono chimere totalitarie.
Lucebuio non può essere una giustificazione all’inazione. Prendere coscienza, e consapevolezza, che siamo anche il contrario del nostro positivo significa continuamente problematizzare le nostre tensioni e i nostri risultati, mediando tra le polarità che ci istituiscono. Se il bene ci appartiene, non siamo solo bene; se il male ci appartiene, non siamo solo male. Vale per noi, parte di realtà, e vale per il tutto.
L’evidenza del bene, come del male, non li esaurisce nel loro essere separati dal resto. Dobbiamo prendere atto che è dipeso, e che dipende da noi, dalla nostra responsabilità mai neutra, di fare del tempo storico un conflitto permanente tra bene e male. Ogni tempo è percorso dal male che si fa bene e viceversa: lucebuio (6).
Lucebuio è mistero di ciò che non sappiamo di essere e di sapere (7), mistero che – paradossalmente – ci istituisce.
Lucebuio è la cifra della nostra civiltà, dell’umanità capace di autodistruggersi tanto quanto di darsi benessere e futuro. Prosa e poesia devono ritornare a dialogare, a (ri)costruire quella relazione mediata tra poesia e prosa, tra senso e non senso, tra significato e negazione, tra costruzione e distruzione, tra cooperazione e competizione.
In termini di giudizio storico, ciò a cui assistiamo nel tempo della planetarizzazione dei fenomeni storici è il gioco, a seconda delle convenienze, della esaltazione/assolutizzazione di Luce o di Buio. Troppo poco, e troppo poco spesso, ci domandiamo quale sia il prezzo che paghiamo alle spinte in avanti del Progresso. Ciò che è innegabile, che buona parte dell’umanità sia stata tolta dalla fame, dalla sete e dalla povertà materiale, si scontra con ciò che è altrettanto innegabile: lungi dall’avere realizzato una coscienza/consapevolezza di un destino planetario, o della grande comunione umana (8), sotto il vessillo della pace e della giustizia, abbiamo generato, secondo Morin (2018), una moltiplicazione di disgregazioni e rotture politiche e culturali che degenerano in conflitti (9). In sostanza, ciò che non abbiamo generato ci fa de-generare.
Siamo dentro la logica viziosa di un Progresso che guarda solo in avanti, mai nel profondo e a ciò che è stato. La sapienza indigena, facilmente omologabile dalla macchina potentissima del Progresso, potrebbe farci scoprire la bellezza di una conoscenza esperienziale nella quale l’identità personale, la comunità umana e l’armonia cosmica sono tutt’uno (10) (la “relazione trinitaria” di cui abbiamo scritto). C’è intimità e non possesso: cosa possiamo imparare, da questo approccio, noi cosiddette “società storiche” che, senza quella intimità, assolutizziamo Luce o Buio e che abbiamo paura di tornare a ciò che siamo davvero, al nostro mistero istituente ?
NOTE
(1) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 89
(2) Edgar Morin, op. cit. 2018, pp. 119 e 129: (…) le nostre vite sono polarizzate fra prosa e poesia. (…) la prosa della vita concerne gli obblighi, i vincoli o le necessità che eseguiamo senza piacere. La poesia si manifesta in tutti gli stati di comunione, effusione, meraviglia, gioco, amore, compresi gli stati di gioia estetica che ci mettono in uno stato secondo di emozione felice. La felicità è il compimento di uno stato poetico, e come sostiene Leopardi, è sentendo ciò che è poetico che lo si conosce e lo si comprende, e non può essere conosciuto e compreso se non essendo sentito. Ciò che Morin chiama poesia Panikkar definisce pura spontaneità (in Lectio Divina: L’Ascensione (Atti 1-11), AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 16)
(3) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 101: La non banalità della mente/cervello umana non risiede unicamente nell’incertezza legata a ogni complessità e soprattutto a ogni iper-complessità; essa concerne il possibile inatteso delle sue decisioni, delle sue azioni, dei suoi comportamenti, e ciò che è meno prevedibile in anticipo: la crisi di follia, come quella di Nietzsche a Torino, il 3 gennaio 1889, e soprattutto ogni atto creatore, come la nona sinfonia di Beethoven.
(4) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 104 scrive che l’umano è microcosmo, a immagine dell’universo.
(5) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 92: Dobbiamo continuamente ricordare che l’umano nella sua individualità, nella sua società, nella sua storia è polarizzato fra ragione e delirio, fra tecnica e mito, fra interesse personale e gioco disinteressato.
(6) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 93: Non esiste civiltà che non abbia un fondo di barbarie. Essendo la barbarie un ingrediente della civiltà, possiamo solo resisterle, non sopprimerla. Ancora l’Autore, p. 94: L’incoscienza della complessità antropologica ha portato agli errori, agli accecamenti, alle illusioni e ancora vi porterà, a meno che non abbia luogo una riforma profonda della conoscenza, della coscienza e del pensiero umani.
(7) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 102: (…) questa trinità inseparabile, costituita dal nostro inconscio, dal nostro organismo, dalla memoria inclusa nella nostra identità, fa sì che in noi ci sia un formidabile sapere su tutto ciò da cui siamo nati: l’universo, la vita, i nostri ascendenti, un sapere che ignoriamo totalmente. Una delle nostre maggiori forme di ignoranza (…) consiste nel non sapere ciò che sappiamo.
(8) Raimon Panikkar, op. cit. 2009, p. 17. E continua l’Autore: Gli uomini ora sono forse più civili, ma quella frase di Hobbes “homo himinis lupus” non è stata ancora superata. Consideriamo noi sovrasviluppati e gli altri sottosviluppati, ma dobbiamo svilupparci ancora molto di più, e questo mi pare sia il messaggio che non è esclusivamente cristiano, ma universale. Dire che tutti siamo fratelli non rappresenta nulla di nuovo, ma si deve avere la forza di realizzarlo.
(9) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 132
(10) Gerard Hall e Joan Hendriks, in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni, op. cit. 2009, p. 21