25 Maggio 2020
da Formiche.net
In occasione del 28esimo anniversario della strage di Capaci, Scotti ripercorre gli ultimi sedici mesi trascorsi insieme a Falcone che cambiarono il suo approccio e la sua partecipazione alla politica, alla società e alla stessa religione cattolica
Erano passate più di dodici ore dalla strage di Capaci e i corpi di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti di scorta entravano nel Palazzo di Giustizia. Ero con Claudio Martelli e Gerardo Chiaromonte. Eravamo arrivati in una Palermo avvolta da una cappa di afa e con un silenzio insolito, interrotto solo dalle sirene delle forze dell’ordine. Erano ormai ore che l’Italia si era fermata: incredula, smarrita, indignata. Dinanzi alla bara di Falcone continuavo a pensare alle ore che avevamo trascorso insieme, durante gli ultimi sedici mesi, per attuare una strategia di guerra contro la mafia. L’avevamo concepita con Claudio Martelli e i vertici delle forze dell’ordine. Qualche mese prima di incontrarlo a Roma, avevo partecipato con lui a una tavola rotonda sui processi alla mafia. Eravamo seduti vicino e più volte il discorso tornava alla mafia non come normale criminalità ma come forza capace di riconfigurare gli Stati. Non pensavo assolutamente che un giorno sarei diventato ministro dell’Interno: mi interessava però studiare la mafia come forza anti-sistema.
In quegli anni la Suprema Corte di Cassazione si era espressa per l’inesistenza del fenomeno: al massimo si poteva pensare a una mafia antica e rurale, ritenuta buona, in grado di assicurare la conservazione di un equilibrio sociale della povertà, garantito da regole spietate e gestite dal potere di una cupola che esercitava un potere benevolo e giusto, anche se violento. La connivenza mafia-istituzioni trovava conferma documentata nella relazione del presidente della Commissione antimafia, il genovese Francesco Cattanei, che, parlando della mafia come fenomeno ben esteso rispetto ai suoi confini storici, presentò un complesso di elementi rappresentativi “dell’esistenza di una effettiva convivenza, oltre che connivenza, con la mafia non solo di ampie aree della società ma delle stesse Istituzioni pubbliche, comprensive della magistratura, dei partiti e degli enti locali. le ripetute assoluzioni confermano – indipendentemente da ogni altra valutazione dell’opera della magistratura – l’impressione di una permanente impunità per i grossi mafiosi, attraverso un meccanismo che sfuggiva al controllo della legge”.
L’alba cominciava a illuminare le bare e io continuavo a sentire forte la presenza di Falcone in quei sedici mesi che cambiarono il mio approccio e la mia partecipazione alla politica, alla società e alla stessa religione cattolica. Mentre ci incontravamo per la prima volta al ministero, usciva nelle librerie il suo saggio scritto con Marcelle Padovani, che tracciava una strada da percorrere partendo dalla scelta della guerra contro la pax mafiosa. Lessi più volte il saggio: volevo capire cosa fare. Falcone aveva concluso il grande sforzo del maxi-processo remando contro il mondo della giurisdizione, dell’avvocatura. E della politica. Era consapevole che senza smettere di far ricorso a leggi speciali ed emergenziali non avremmo messo la guerra alla mafia su istituzioni adeguate e permanenti che non lasciassero nell’incertezza dell’emergenza quello che lui aveva fatto con il maxi-processo.
Falcone aveva lanciato un messaggio e così riassumeva la zona grigia della convivenza tra istituzioni e mafia: “La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere connessi a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro nessuna garanzia di successo immediato, ha compreso che, a breve, aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. Ed ha preteso di fronteggiare un fenomeno di tale gravità con i pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno della società civile.
I politici si sono preoccupati di votare leggi di emergenza e di creare Istituzioni speciali che, sulla carta, avrebbero dovuto imprimere slancio alla lotta antimafia, ma che, in pratica, si sono risolte in una delega delle responsabilità proprie del governo a una struttura dotata di mezzi inadeguati e privi di poteri di coordinare l’azione anticrimine, il famoso commissario contro la mafia, creato sull’onda dell’emozione suscitata dall’assassinio del generale Dalla Chiesa, ne è l’esempio evidente.
Senza fare attenzione a quello che accadeva intorno a noi quella notte, compresi i fischi dei magistrati contro il ministero Martelli ed evidentemente anche contro di me, mi ricordai di una cena nello scantinato di una buona e modesta trattoria, Mario in via della Vite a Roma, quando tracciammo una strategia politico-legislativa che andava dalla nascita della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Investigativa Antimafia, una intelligence sulla criminalità, alla prima legge sui collaboratori di giustizia, alle legge sul riciclaggio (quando non ne esisteva alcuna), alla legislazione sulle infiltrazioni mafiose nelle istituzione (scioglimento di consigli comunali) e al Decreto legge dell’8 giugno dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio.
Tutti questi provvedimenti furono adottati dal governo ma trovarono la più feroce ostilità che costrinse a dover cambiare alcune innovazioni significative che decidemmo, fin quando Falcone fu vivo, di tentare di introdurre. Lo scontro maggiore avvenne con il Decreto Legge dell’8 giugno 1992 quando io ero stato già allontanato dal ministero dell’Interno. A conclusione di quella cena la cosa più importante fu di proporre al Parlamento, ai partiti politici e alle forze sociali di dichiarare guerra alla mafia e di chiamare tutti ad una mobilitazione. Da una parte proponemmo alle istituzioni (a partire dal presidente Cossiga e dai presidenti delle Camere) di realizzare annualmente un incontro sulla legalità; al primo, anche l’ultimo, intervenne il papa Giovanni Paolo II e fu presente Falcone.
In quell’alba e nel viaggio di ritorno a Roma fui preso da una grande angoscia ricordando gli attacchi e gli improperi ricevuti in Parlamento quando avevamo dichiarato – con il Capo della Polizia – lo stato di emergenza, accusandomi di protagonismo inutile e di superficialità perché avevo annunciato la fase stragista che avrebbe, per primo, colpito proprio Falcone. Dopo l’uccisione di Lima, alla commissione antimafia, eravamo lontani dalla strage di Capaci, avevo detto che eravamo di fronte ad una guerra lunga e difficile ma rispetto alla quale non erano “possibili scelte alternative, a meno che non ci si volesse accontentare di un clima di tranquillità e di normalità, quello cioè che la pax mafiosa rendeva possibile, con l’acquiescenza degli organi dello Stato… Se la democrazia italiana vuole salvarsi da un condizionamento crescente della criminalità, allora dobbiamo essere pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato anche da fatti estremamente preoccupanti”. E conclusi: “La pericolosità è diventata quindi maggiore nel momento che la criminalità organizzata, vista l’impossibilità di avvalersi dei metodi tradizionali, ricorre alle tecniche terroristiche come avviene sempre più di frequente”.
L’aereo quella mattina atterrò a Roma Ciampino ma non eravamo riusciti a parlare tra noi, con Chiaromonte e Martelli; ed io avevo continuato a pensare alla seduta delle commissioni riunite di Camera e Senato, quando avevo dichiarato lo stato di allerta. Il Presidente della Commissione al Senato mi aveva invitato a chiedere scusa al Paese per aver dato un falso allarme (una patacca) nel pieno di una campagna elettorale. Arrivando al Viminale mi riunii con i miei più stretti collaboratori e continuammo a chiederci se la strada della guerra e dei provvedimenti (non ultimo il riportare in carcere tutti i condannati all’ergastolo rimessi in libertà per decorrenza dei termini dimostrando che lo Stato era più forte della mafia) fosse quella giusta o se, invece, una pax mafiosa avrebbe potuto portare a migliori risultati. La nostra posizione era ferma, soprattutto in vista della formazione del nuovo governo. Il giornalista D’Avanzo scrisse: “Il ministro ha confessato: sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà più in alto, tanto più in alto quanto più efficace diventerà l’azione dello Stato”. E d’Avanzo commenta: “La strana coppia, Scotti-Martelli, ha trovato una sintonia a ideare, promuovere e organizzare una politica antimafia che ha rotto con la vecchia tradizione governativa delle leggi dell’emergenza, degli organismi eccezionali, dell’inasprimento puro e semplice delle pene… La strana coppia si è avvalsa dell’esperienza dei consigli di Giovanni Falcone!”. Io direi oggi una stagione straordinaria, che tuttavia fu piena di ostacoli e di amarezze.
Una cosa non posso dimenticare. Dopo l’istituzione della Procura nazionale Antimafia si doveva nominare il primo procuratore; mi permisi allora di scrivere una lettera al Consiglio Superiore della Magistratura per sottolineare l’importanza della scelta, specie dopo alcune mutilazioni del testo legislativo e, per questo, nella mia responsabilità di ministro dell’Interno suggerii il nome di Giovanni Falcone. Dopo pochi giorni la commissione votò contro Falcone e durante una cena con Falcone e i membri eletti dal Parlamento su indicazione del gruppo Democratico-Cristiano avemmo la certezza che solo uno di questi membri aveva deciso di votare per Falcone. Uscimmo da quell’albergo e vidi sul volto di Falcone una terribile amarezza perché al gruppo degli eletti dal Parlamento – contrari alla nomina di Falcone – su indicazione del Pds si aggiungeva quello della Dc. Falcone, successivamente, dovette anche difendersi di fronte al Consiglio Superiore della Magistratura dall’accusa di tenere nel cassetto dossier riguardanti collusioni di mafia!
Dopo il maxi-processo l’unico momento di soddisfazione fu quando con Martelli riuscimmo a far approvare un Decreto Legge per far tornare in carcere i condannati all’ergastolo ed evitare a Falcone un colpo duro da parte della Mafia.
Il 28 giugno del 1992 sentii alla televisione che non ero più ministro dell’Interno e nessuno sapeva se era vero e perché.
Oggi, 23 maggio, mi sento di suggerire al procuratore Nazionale Antimafia di sviluppare un progetto di ricerca sulla legislazione di quei due anni e sulla sua applicazione, coinvolgendo le migliori intelligenze dei giuristi italiani e anche di studiosi di altre discipline per affrontare non solo le questioni allora lasciate aperte ma anche le nuove questioni esplose con l’era digitale e nel mondo globale. Il pericolo principale, oggi, non è forse più rappresentato dalle stragi ma dalla riconfigurazione degli Stati da parte della criminalità organizzata ora anche transnazionale.