Ateneo

Lucebuio

25 Marzo 2020

di Marco Emanuele
da Formiche.net

Viviamo sulla superficie di noi stessi. Siamo posseduti da forze oscure, dai nostri Daimon interni ed esterni a noi. Siamo posseduti dai miti, dagli dèi, dalle idee. Siamo dei manipolatori manipolanti, siamo posseduti da ciò che possediamo, vivere è come un’ebrezza e come un sonnambulismo (Edgar Morin, Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, p. 88)

Nella nostra anima c’è un mare interiore, uno spaventoso e autentico mare tenebrarum ove imperversano le strane tempeste dell’inarticolato e dell’inesprimibile (Maurice Maeterlick)

Mai l’umanità ha riunito tanta potenza e tanto smarrimento, tanta preoccupazione e tanto gioco, tanta conoscenza e tanta incertezza. L’inquietudine e la futilità si spartiscono i nostri giorni (Paul Valéry, 1932)

Possiamo normalizzare, banalizzare, razionalizzare e così eliminare l’ignoto e l’inconoscibile. Questi riappariranno a ogni avanzare della conoscenza (Edgar Morin, op. cit., p. 145)

 

Siamo lucebuio. Abbiamo coniato questo neologismo per mostrare la nostra intrinseca complessità. Siamo, come dice Morin (2018), macchine non banali (1), prosaico/poetiche (2). La nostra vita non scorre secondo la logica del determinismo (3). L’inatteso spacca la linearità di un (presunto) perfetto software: a un input A non corrisponde un output certo.

Il nostro tempo e il nostro spazio vitali continuano, e discontinuano, una tempiternità e una globalità che incarniamo. I dolori, le contraddizioni, le potenzialità dei nostri avi vivono in noi, così come i dolori, le contraddizioni e le potenzialità del mondo. Ne viene che noi siamo ciò che siamo stati. Il nostro vivere il presente e il nostro stare su un territorio non limita la nostra responsabilità storica a ciò che accade “qui” (in ogni nostro “qui” sicuro e protetto) e all’ “ora” (in ogni presente imminente). Ciascuno di noi (ri)vive, (re)interpretandolo, lo spettacolo senza fine dell’esperienza umana.

Lucebuio, certezza incerta, territorialità globale, personalità universale (4), viviamo perennemente nel movimento tra communitas e immunitas, rendendo la comunità al contempo necessaria e impossibile. Se vogliamo la comunità, se apriamo alla solidarietà, molto spesso ci ritroviamo incapaci di costruire prospettive di (con)divisione perché è in noi anche una forza distruttrice (5). Lucebuio, l’ordine certo e la compiutezza assoluta sono chimere totalitarie.

Lucebuio non può essere una giustificazione all’inazione. Prendere coscienza, e consapevolezza, che siamo anche il contrario del nostro positivo significa continuamente problematizzare le nostre tensioni e i nostri risultati, mediando tra le polarità che ci istituiscono. Se il bene ci appartiene, non siamo solo bene; se il male ci appartiene, non siamo solo male. Vale per noi, parte di realtà, e vale per il tutto.

L’evidenza del bene, come del male, non li esaurisce nel loro essere separati dal resto. Dobbiamo prendere atto che è dipeso, e che dipende da noi, dalla nostra responsabilità mai neutra, di fare del  tempo storico un conflitto permanente tra bene e male. Ogni tempo è percorso dal male che si fa bene e viceversa: lucebuio (6).

Lucebuio è mistero di ciò che non sappiamo di essere e di sapere (7), mistero che – paradossalmente – ci istituisce.

Lucebuio è la cifra della nostra civiltà, dell’umanità capace di autodistruggersi tanto quanto di darsi benessere e futuro. Prosa e poesia devono ritornare a dialogare, a (ri)costruire quella relazione mediata tra poesia e prosa, tra senso e non senso, tra significato e negazione, tra costruzione e distruzione, tra cooperazione e competizione.

In termini di giudizio storico, ciò a cui assistiamo nel tempo della planetarizzazione dei fenomeni storici è il gioco, a seconda delle convenienze, della esaltazione/assolutizzazione di Luce o di Buio. Troppo poco, e troppo poco spesso, ci domandiamo quale sia il prezzo che paghiamo alle spinte in avanti del Progresso. Ciò che è innegabile, che buona parte dell’umanità sia stata tolta dalla fame, dalla sete e dalla povertà materiale, si scontra con ciò che è altrettanto innegabile: lungi dall’avere realizzato una coscienza/consapevolezza di un destino planetario, o della grande comunione umana (8), sotto il vessillo della pace e della giustizia, abbiamo generato, secondo Morin (2018), una moltiplicazione di disgregazioni e rotture politiche e culturali che degenerano in conflitti (9).  In sostanza, ciò che non abbiamo generato ci fa de-generare.

Siamo dentro la logica viziosa di un Progresso che guarda solo in avanti, mai nel profondo e a ciò che è stato. La sapienza indigena, facilmente omologabile dalla macchina potentissima del Progresso, potrebbe farci scoprire la bellezza di una conoscenza esperienziale nella quale l’identità personale, la comunità umana e l’armonia cosmica sono tutt’uno (10) (la “relazione trinitaria” di cui abbiamo scritto). C’è intimità e non possesso: cosa possiamo imparare, da questo approccio, noi cosiddette “società storiche” che, senza quella intimità, assolutizziamo Luce o Buio e che abbiamo paura di tornare a ciò che siamo davvero, al nostro mistero istituente ?

NOTE

(1) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 89

(2) Edgar Morin, op. cit. 2018, pp. 119 e 129: (…) le nostre vite sono polarizzate fra prosa e poesia. (…) la prosa della vita concerne gli obblighi, i vincoli o le necessità che eseguiamo senza piacere. La poesia si manifesta in tutti gli stati di comunione, effusione, meraviglia, gioco, amore, compresi gli stati di gioia estetica che ci mettono in uno stato secondo di emozione felice. La felicità è il compimento di uno stato poetico, e come sostiene Leopardi, è sentendo ciò che è poetico che lo si conosce e lo si comprende, e non può essere conosciuto e compreso se non essendo sentito. Ciò che Morin chiama poesia Panikkar definisce pura spontaneità (in Lectio Divina: L’Ascensione (Atti 1-11), AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 16)

(3) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 101: La non banalità della mente/cervello umana non risiede unicamente nell’incertezza legata a ogni complessità e soprattutto a ogni iper-complessità; essa concerne il possibile inatteso delle sue decisioni, delle sue azioni, dei suoi comportamenti, e ciò che è meno prevedibile in anticipo: la crisi di follia, come quella di Nietzsche a Torino, il 3 gennaio 1889, e soprattutto ogni atto creatore, come la nona sinfonia di Beethoven.

(4) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 104 scrive che l’umano è microcosmo, a immagine dell’universo.

(5) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 92: Dobbiamo continuamente ricordare che l’umano nella sua individualità, nella sua società, nella sua storia è polarizzato fra ragione e delirio, fra tecnica e mito, fra interesse personale e gioco disinteressato.

(6) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 93: Non esiste civiltà che non abbia un fondo di barbarie. Essendo la barbarie un ingrediente della civiltà, possiamo solo resisterle, non sopprimerla. Ancora l’Autore, p. 94: L’incoscienza della complessità antropologica ha portato agli errori, agli accecamenti, alle illusioni e ancora vi porterà, a meno che non abbia luogo una riforma profonda della conoscenza, della coscienza e del pensiero umani.

(7) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 102: (…) questa trinità inseparabile, costituita dal nostro inconscio, dal nostro organismo, dalla memoria inclusa nella nostra identità, fa sì che in noi ci sia un formidabile sapere su tutto ciò da cui siamo nati: l’universo, la vita, i nostri ascendenti, un sapere che ignoriamo totalmente. Una delle nostre maggiori forme di ignoranza (…) consiste nel non sapere ciò che sappiamo.

(8) Raimon Panikkar, op. cit. 2009, p. 17. E continua l’Autore: Gli uomini ora sono forse più civili, ma quella frase di Hobbes “homo himinis lupus” non è stata ancora superata. Consideriamo noi sovrasviluppati e gli altri sottosviluppati, ma dobbiamo svilupparci ancora molto di più, e questo mi pare sia il messaggio che non è esclusivamente cristiano, ma universale. Dire che tutti siamo fratelli non rappresenta nulla di nuovo, ma si deve avere la forza di realizzarlo.

(9) Edgar Morin, op. cit. 2018, p. 132

(10) Gerard Hall e Joan Hendriks, in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni, op. cit. 2009, p. 21