Cerca nel Portale

1593 results:
991. Effetti collaterali su ordinamento politico e coesione sociale  
26 Novembre 2018 Di Marco Mayer, Direttore del Master in Intelligence e Sicurezza Da Formiche.it Gli effetti collaterali negativi della rivoluzione digitale sono destinati a produrre conseguenze preoccupanti sul piano dell’ordinamento politico e della coesione sociale. Cosa conta davvero nelle società caratterizzate da un alto grado di digitalizzazione? Non il valore del messaggio, ma la velocità di comunicazione; non il contenuto del progetto, ma la potenza di calcolo; non il significato della storia, ma la capacità di memorizzare; non i valori etici da condividere, ma l’impatto del microtargeting e il successo degli influencer; non la qualità delle relazioni umane, ma la quantità delle connessioni. Le società contemporanee sono caratterizzate dall’onnipresenza di computer, Reti e tecnologie digitali. In questo articolo non esaminerò gli straordinari vantaggi prodotti dalla grande rivoluzione tecnologica che contraddistingue la nostra epoca. Desidero, viceversa, accendere i riflettori su alcuni effetti collaterali negativi destinati a produrre conseguenze preoccupanti sul piano dell’ordinamento politico e della coesione sociale. Solo in tempi recenti gli studiosi hanno posto al centro delle loro ricerche empiriche i lati oscuri della rivoluzione tecnologica (I. Ben Israel, L. Tabansky, N. Crouchi, M. Libicki, Melissa Hathaway, et al.), esaminando criticamente il rapporto tra tecnologia e potere o, per essere più precisi, le tensioni intrinseche che contraddistinguono le relazioni tra tecnologia e democrazia da un lato e tra libertà e sicurezza digitale dall’altro. In precedenza, sin dagli anni Novanta, la maggioranza degli scienziati sociali aveva esaltato acriticamente la democrazia digitale, legittimando la speranza illusoria di una partecipazione diretta del singolo cittadino alla gestione del potere. Il tema della compatibilità tra tecnologia e democrazia pone, viceversa, innumerevoli e complesse domande di ricerca. Qual è l’impatto della rivoluzione digitale sul concreto esercizio delle libertà politiche e civili dei cittadini, sull’indipendenza dei media, sulla separazione dei poteri, sul diritto individuale alla riservatezza, sulla tutela delle minoranze, sui diritti sociali e del lavoro? In sintesi, possiamo riassumere le numerose domande in questi termini: quali sono le implicazioni della grande trasformazione tecnologica rispetto ai valori fondamentali dello Stato di diritto e del welfare state così come li abbiamo conosciuti sinora? Non c’è qui lo spazio per argomentazioni approfondite. Tuttavia l’ipotesi che intendo sostenere è che l’invenzione della rappresentazione binaria – oltre agli straordinari vantaggi – possa farci perdere rilevanti sfumature producendo una ipersemplificazione della realtà, solo apparentemente razionale. Cosa conta davvero nelle società caratterizzate da un alto grado di digitalizzazione? Non il valore del messaggio, ma la velocità di comunicazione; non il contenuto del progetto, ma la potenza di calcolo; non il significato della storia, ma la capacità di memorizzare; non i valori etici da condividere, ma l’impatto del microtargeting e il successo degli influencer; non la qualità delle relazioni umane, ma la quantità delle connessioni. Queste tendenze incidono profondamente sul piano cognitivo e comportamentale dando luogo a fenomeni di dipendenza più o meno patologici) prodotti essenzialmente da due fattori: sul piano percettivo dalla capacità magnetica dei computer; sul piano psicologico dalla paura di disconnettersi (per non parlare del panico da smarrimento del proprio smartphone). Le proprietà caratteristiche delle società digitali a cui abbiamo sommariamente accennato creano a loro volta un contesto ambientale particolarmente adatto all’idea che stiamo vivendo nella cosiddetta epoca della post-verità (in cui le menzogne anti-vaccini sono solo la punta estrema dell’iceberg). La post-verità è un’espressione divenuta virale negli ultimi tre anni (nel web la parola post truth nel 2016 è salita del 2000% rispetto al 2015). Al di là della sua genesi e del suo successo, la post-verità costituisce un terreno particolarmente fertile per canalizzare le più sofisticate campagne di disinformazione. In un mondo – per parafrasare Giorgio Gaber – in cui “tutto è falso e il falso è tutto”, la distinzione tra Stati democratici e regimi illiberali non avrebbe più alcun significato. Non so quanto questo rischio interessi ai colossi della Silicon valley, ma a noi cittadini deve interessare moltissimo. Gli informatici e i data scientist, e più in generale i maghi degli algoritmi, non dovrebbero dimenticarsi che la libertà e la democrazia sono valori assoluti con cui la tecnologia (più o meno intelligente) deve adattarsi a convivere.  
992. XIII conferenza nazionale di statistica  
26 GIUGNO 2018 Si svolge a Roma dal 4 al 6 luglio 2018 il tradizionale appuntamento nel corso del quale produttori e utilizzatori di dati, fornitori di servizi statistici e detentori di grandi masse di dati, stakeholders e policy maker, si incontrano per confrontarsi e definire un programma comune di potenziamento della funzione statistica. Al centro dei lavori di questa edizione tanti temi e questioni, tra cui la rilevanza della statistica ufficiale nella vita pubblica e privata; l’innovazione tecnologica; l’economia e il lavoro; le trasformazioni della società; le nuove geografie amministrative e i processi di cambiamento dei paesaggi urbani; le nuove modalità di raccolta dei dati e i Registri statistici; la valutazione dell’impatto delle politiche anche in termini di benessere e sostenibilità. L’evento offre spazi e iniziative dedicate all’educazione e alla cultura statistica per le giovani generazioni, alla comunicazione della statistica per esperti del settore, alla formazione rivolta agli operatori della statistica ufficiale. Il Laboratorio Innovazione dell’Istat (Labinn) per tre giorni trasloca presso la Conferenza per condividere con ricercatori e studenti le attività e le sperimentazioni in corso. La partecipazione è aperta a tutti previa registrazione. Maggiori informazioni qui Twitter  hashtag: #13ConfStat  
993. La France: grande puissance?  
30 Novembre 2018 di Riccardo Lancioni, da Geopolitica.info Economia e Industria L’Hesagone vanta un PIL nel 2017 di 2.583 miliardi, dati WB, cedendo all’India la settima posizione a livello mondiale. Possiede la più produttiva agricoltura d’Europa, grande vanto nazionale, ma industrialmente si trova al terzo posto dopo Italia e Germania. Al di là del freddo dato statistico la Francia possiede numerose aziende di grandi dimensioni nei settori chiave e lo stato svolge un ruolo centrale nell’economia nazionale. L’APE, Agence des Partecipations de l’Ètat, è una delle agenzie di partecipazioni statali più grandi del mondo, dati del “Rapport d’Activitè APE 2017-2018”. Vanta un portafoglio con oltre 75md di valore in quote azionarie di 81 imprese. Ma dove si colloca il principale intervento statale? Vi è una netta predominanza nel settore energetico, che rappresenta quasi il 50% dei titoli di proprietà dell’APE. Per comprendere il peso di tale impegno si consulti Eurostat che vede la Francia primo produttore europeo di energia con il 48% del totale. Una vastissima produzione che mantiene basso il costo per famiglie e imprese ma che genera anche notevoli profitti con l’export. I 58 reattori nucleari gestiti dalla società pubblica EDF, Électricité de France, sono la componente nettamente maggioritaria e insostituibile, 71,6%, della produzione nazionale di energia. Fornitore di materiale fissile è Orano, 45% statale, che si occupa di estrazione e raffinazione dell’uranio, fabbricazione, trasporto e riprocessamento del combustibile, smantellamento dei siti radioattivi e gestione delle scorie. Nell’equazione non bisogna dimenticare Total che è l’ottava azienda mondiale per estrazione di greggio. Sia Grands ports maritimes sia Naval Group sono statali o a maggioranza statale con una capacità cantieristica e portuale di prim’ordine. Lo stato possiede forti partecipazioni anche in Air France-KLM, Renault e nel gruppo PSA, Peugeot Société Anonyme, a cui appartengono anche Citroën e Opel. BNP Paribas e Credit agricole sono la seconda e terza banca a livello Europeo come assets, dati di S&P. Arriviamo in fine al comparto difesa e spazio. Qui la  Francia dispiega una serie di aziende statali e private senza eguali sul continente, le maggiori sono Dassault, Thales, Airbus, Nexter e Safran, con una capacità di produrre sistemi in autonomia per tutte le forze armate, il “tout français” è un elemento essenziale per la politica internazionale dell’Eliseo. La Francia però non possiede sul territorio nazionale le materie prime necessarie, come fare? I 14 con il Franco Recentemente la scrittrice francese Fanny Pigeaud ha denunciato come coloniale il sistema del franco CFA nel suo libro “L’arme invisible de la Françafrique” uscito lo scorso 27 settembre ed edito da La Découverte. Ma di cosa si tratta? Le due aree monetarie distinte, rispettivamente Union économique et monétaire ouest-africaine e Communauté économique et monétaire de l’Afrique centrale. Il franco resiste ancora in 14 paesi africani sotto il nome di franco CFA, franc de la Communauté financière africaine, nato ufficialmente nel 1945 come franc des colonies françaises d’Afrique. Per quanto anacronistico possa sembrare la “zona del franco” comprende due aree valutarie distinte, Africa Centrale e Africa Occidentale, con 14 paesi appartenenti: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. Mantenendo attualmente il 60% delle loro riserve monetarie presso la Banca di Francia, ottengono in cambio che Parigi garantisca la parità fissa con l’euro. La mobilità dei capitali, un tempo necessaria al drenaggio di risorse verso la madrepatria è tuttora in vigore e le riunioni periodiche per decidere le politiche monetarie si tengono presso il Tesoro Francese. Non è solo l’economia ad essere tacciata di neo-colonialismo. La legion toujours en Afrique Il nome legione straniera risuona di misticismo e romanticismo d’altri tempi, oggi è uno strumento militare moderno e di grande efficacia. I legionari così come i soldati francesi sono tutt’ora impegnati nell’operazione Barkhane partita il primo agosto 2014 che vede dispiegati complessivamente 4500 uomini con 470 veicoli blindati. Il dispositivo, si legge nel “Dossier de Presse–Opération Barkhane” (aprile 2018) dello stato maggiore transalpino, è stato messo in campo per neutralizzare la minaccia terroristica nell’area dei G5 del Sahel: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chiad. Ma Barkhane è soltanto l’ultima di una lunghissima serie di interventi in Africa che non ha visto cali d’intensità nemmeno durante la presidenza socialista di Mitterand. Ma perché impegnarsi così tanto nell’area? Le motivazioni non possono che essere molteplici. Il terrorismo di matrice jihadista che ha colpito così duramente la Francia è senza dubbio una spiegazione. Un’altra potrebbe essere economica, ad esempio il Niger è il quarto esportatore di uranio a livello mondiale, abbiamo visto come tale risorsa sia vitale all’indipendenza energetica francese. Le missioni all’estero portate avanti dai nostri cugini d’oltralpe non si fermano qui. Consultando il rapporto del Ministère des Armées, “Les chiffres de la défense 2017-2018”, da cui è presa la carta, si evince come oltre alle Forces de Souveraineté che difendono i resti dell’impero coloniale francese, sono dispiegati altri 3.500 soldati in aree di importanza strategica quali: Senegal, Costa d’avorio, Gabon, Gibuti ed Emirati Arabi Uniti. L’Armée de l’air ha compiuto in agosto qualcosa di straordinario, portando i sui caccia Rafale fino ad Hanoi. Nel 1954 la caduta di Dien Bien Phu si era portata dietro le aspirazioni francesi nel sud-est asiatico ma ora un dispositivo aereo transalpino, comprendente anche cargo ed aerocisterne, si è lanciato nel cuore dell’area più calda del mondo a livello di confronto tra grandi potenze. Probabilmente Pechino, che ha numerose questioni aperte con il Vietnam, non ha gradito il riavvicinamento dei due antichi nemici ma sono i francesi che nella “Revue Strategique 2017” definiscono la PRC una potenza revisionista, ostile e con aspirazioni globali. Per ulteriori chiarimenti sui motivi di frizione tra Francia e Cina si legga qui e a trarne le dovute conclusioni. Proiezione di potenza Centro della capacità di proiezione francese è però la Marine Nationale che schiera nella Task Force 475 l’unica portaerei a propulsione nucleare non-statunitense del mondo, la Charles De Gaulle, a cui si aggiunge una consistente forza di superficie e 3 piattaforme d’assalto anfibio. Per attaccare dagli abissi la MN dispone di 6 sottomarini nucleari d’attacco, molto silenziosi, e 4 con missili balistici. Organizzati nella Force océanique stratégique essi costituiscono il pivot della difesa nazionale garantendo la second strike capability, in pratica l’assicurazione sulla vita della Francia. L’Armée de l’air conta quasi 230 aerei da combattimento, alcuni con capacità nucleare, e 78 da trasporto tattico e strategico. Da notare che la quasi totalità dei mezzi impiegati è di produzione nazionale. Le già vaste capacità francesi saranno ulteriormente ampliate nei prossimi 5 anni da quasi 200 miliardi di stanziamenti previsti dal “Loi de Programmation Militaire 2019/2025”, sembra quindi ragionevole presumere sia un aumento dell’interventismo estero sia una maggiore spinta verso una difesa europea a traino francese. Conclusioni Risulta evidente come Parigi goda di una libertà nettamente superiore alle altre potenze del pianeta. Usa, Russia e Cina sono legate da logiche di confronto tra loro, Germania e Giappone non godono della piena libertà in politica estera e la Gran Bretagna non ha dimostrato particolare attitudine a intraprendere spregiudicatamente azioni all’estero negli ultimi anni. La Francia grazie al seggio permanente nel consiglio di sicurezza ONU, ad una degna capacità di proiezione e al suo arsenale nucleare è in grado fare di questa autonomia una ragione di vita. Con un peso economico e militare inferiore ai suoi competitor internazionali ha saputo, nell’arco dell’ultimo decennio, sfruttare situazioni caotiche per trarne vantaggio. Noi italiani, più di altri, abbiamo subito gli effetti di questa dottrina opportunistica, il caso Libico è esemplare di come un presidente transalpino possa permettersi di intervenire impunemente. È proprio qui che sta l’essenza di questa analisi. La Francia sebbene non sia un peso massimo è senza dubbio una grande potenza perfettamente in grado di assicurare la propria sopravvivenza e la propria prosperità mantenendo una sua sfera egemonica.  
994. Intelligenza Artificiale, ecco come l'Umanità cambierà nei prossimi 30 anni  
30 Novembre 2018 di Pasquale Russo, Direttore Generale Link Campus University da Affaritaliani.it Il cervello umano è un reticolo di potenziali elettrochimici e di tessuto e contiene circa 86 miliardi di neuroni collegati in rete attraverso 100 trilioni di sinapsi (100.000.000.000.000.000.000). L'imaging di un singolo millimetro cubo di tessuto può generare più di 1.000 Terabyte di dati mentre l’intero cervello genererebbe 1.230.000.000 TB pari a 1,23 Exabyte cioè quasi il volume di dati creati in 8 mesi da tutto il genere umano. Ora considerato che ogni cervello umano è diverso da tutti gli altri, poiché gli attuali cervelli sono 7.5 miliardi viene da chiedersi quanto spazio occuperebbe il loro imaging. Detto in questo modo si comprende meglio da dove viene il nostro “libero arbitrio”. Si comprende meglio anche quanto siano lontane le stupende tecnologie odierne dalla macchina umana che si è evoluta in 2,5 milioni di anni se ci riferiamo alla Preistoria oppure in 200.000 anni se ci riferiamo all’Homo Sapiens. Eppure esistono società come Augmented Eternity o la Eterni.me  o ancora la Carbon Copies che pensano di poter trasferire la nostra identità dentro un supporto fisico per renderla eterna e poi, dopo la nostra morte, far gestire i dati conservati da una tecnologia di intelligenza artificiale riportando in vita la mente della persona morta. Nasce qui il primo paradosso. Oggi come è noto si dichiara una persona morta quando non ci sono più segnali elettrici cerebrali, cioè si dichiara “la morte cerebrale” di una persona, ma se il cervello un giorno potesse essere trasferito dentro un supporto di memoria magari quantistico, come potremmo dichiarare la morte di qualcuno? Credo che senza saperlo ci stiamo avvicinando ad un’epoca in cui anche il confine tra la vita e la morte sarà sempre meno chiaro e l’era digitale sta segnando una trascendenza riguardante il cervello biologico e l’attività cardiaca come supporto alla vita. Così anche la disperazione di Roy Batty l’androide di Blade Runner espressa nell’ultimo monologo potrà placarsi: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.» Oggi esistono due filoni di ricerca, c’è chi prova a far apprendere ad un software la razionalità umana e un po’ di emozioni e c’è chi prova a ottenere una mappa del cervello per comprenderne l'organizzazione e le interazioni neurali. Il primo si chiama Artificial Intelligence, il secondo Connettomica. Ho già scritto dell’Intelligenza Artificiale ma vorrei ora soffermarmi sul timore molto diffuso riguardo al fatto che la ricerca in questi due settori stia andando oltre i limiti, ma nessuno mi dice quali siano e chi li avrebbe stabiliti. Innanzitutto non possiamo aspettarci che questa tecnologia sia limitata, essa non lo è per natura, ha l’aspirazione di sostituire la razionalità umana. Poi dobbiamo capire che dilagherà e che ci adatteremo alla sua presenza, ma essa non potrà mai sostituire l’essere umano, né rivoltarsi contro di lui e vi spiego il perché. L’Uomo (principalmente l’esemplare maschile) combatte per il possesso delle risorse e/o per il dominio e la sua minaccia definitiva la si può sintetizzare nell’espressione : “O la borsa o la Vita”, ma l’Intelligenza Artificiale non ha il senso della Morte, non capisce cosa sia la vita e non può sapere che può minacciare un essere umano per non far staccare l’energia che l’alimenta, un’ AI è meno dell’uccellino David Herbert Lawrence di cui scrive: “Mai mi fu dato di vedere un animale in cordoglio di sé. Un uccelletto cadrà morto di gelo giù dal ramo senza aver provato mai pena per sé stesso.” Un’ AI si lascia spegnere senza accorgersi della differenza. Se invece un’AI capisce la differenza tra accesa e spenta e capisce che può minacciare un essere umano di morte per restare accesa, allora è stata programmata per questo scopo e quindi è un’arma, va classificata tra le nuove armi, come lo sono i worm, i malware ecc. ecc. Propongo quindi che si cominci a distinguere tra Artificial Intelligence e armi che utilizzano tecnologie di Intelligenza Artificiale. La Connettomica invece credo meriterebbe di più una approfondita riflessione etica, ma intanto già 46 mila persone hanno aderito al progetto ETERNI.ME e chissà quante lo faranno in futuro e dopotutto non è strano perché già oggi io stesso ho 12 persone che conoscevo, tra cui alcuni amici, che sono morti ma hanno ancora il loro profilo social e di loro non riesco neanche a cancellare il numero di cellulare e l’email nella mia rubrica che invece trasferisco da un device ad un altro. Il Web è colmo di queste memorie che sono molto di più delle fotografie e dei filmini ricordo, perché il Web aggiunge il pensiero contestuale della persona conosciuta o dell’amico e lo ricorda in relazione al gruppo di persone che sono ancora vive e quindi riporta lo spirito della persona morta. Pensate a quanti di noi, che stiamo leggendo questo articolo, lasceranno il proprio profilo social come un parte di se anche dopo morti. Perché il Web ha questa potenza rappresenta precisamente che la nostra esistenza E’ in quanto l’essere umano è una rete fatta di reti e ci mostra con chiarezza come questa rete possa beffare il tempo andando oltre l’unico confine insuperabile che è la Morte (cerebrale). Perché il nostro cervello beffa spesso il tempo con la DNM (Default Network Mode), la rete nel nostro cervello che si attiva quando siamo a riposo e vagabondando tra i pensieri, viaggiamo tra le nostre esperienze del passato, quelle quotidiane e ipotizziamo un futuro. La DNM scoperta nel 1991 Randy Buchner, uno studente laureato alla Washington University di St. Louis ha liberato le nostre menti dalla tirannia del presente regalandoci il desiderio del futuro. Quindi Connettomica o Intelligenza Artificiale, in definitiva penso che dobbiamo assumere il dato che sta avendo luogo la più grande transizione nella storia dell'Umanità. Questa sarà l'era in cui informazione e materia saranno interscambiabili, l'Umanità cambierà di più nei prossimi 30 anni che nei precedenti 300 anni. L'AI e la Connettomica ci offriranno molte opportunità e non escludo minacce. Insomma a lungo termine, saremo morti o immortali. Io nel frattempo ho prenotato un posto a ETERNI.ME per non perdermi questo spettacolo.  
995. Seminario sul caso di “Via Poma”  
22 GIUGNO 2018 Lunedì 25 giugno, ore 17:00 Università degli studi Link Campus University Via del Casale di San Pio V, 44 Nell’ambito del Master in Sicurezza Pubblica e Soft Target, lunedì 25 giugno, si terrà un seminario sul caso di “Via Poma“, uno dei casi più misteriosi della storia della cronaca nera italiana. Introduce i lavori il prof. Nicola Ferrigni, direttore del Master in Sicurezza Pubblica e Soft Target. Interverranno Carmelo Lavorino, Emilio Orlando e Paolo Cochi regista e autore di “Via Poma-oltre la Cassazione”, il documentario-inchiesta più approfondito e completo sul caso della morte di Simonetta Cesaroni, avvenuta il 7 agosto del 1990. Il documentario contiene immagini inedite dei processi, racconti inediti e musiche originali. L’evento è aperto a tutti  
996. Smart Government & Block Party: Così è (se vi pare)  
07 Dicembre 2018 Di Pasquale Russo, Direttore Generale Link Campus University Da Affaritaliani.it L’Italia è in pieno conflitto tra il modello di rappresentanza promosso dalla comunità del Territorio e il modello promosso dalla comunità della Rete. La Blockchain cambierà la politica, nasceranno nuove forme di aggregazione dei cittadini (partiti?) con l’obiettivo di contendersi l’azione di governo. Anche l’organizzazione dello Stato sarà sottoposta ad uno stress test e non ne uscirà bene. La pressione delle tecnologie sull’attuale forma di organizzazione della democrazia diventerà insostenibile con l’introduzione dei 5G, a quel punto in pochi anni la disintermediazione politica sarà totale e vinceranno gli iperleader che meglio avranno organizzato la loro macchina logistica di partito. Ma cominciamo dall’inizio. Come ricorderete il primo Contratto con gli Italiani fu un documento presentato e firmato da Silvio Berlusconi l'8 maggio 2001, cinque giorni prima delle elezioni politiche, nel corso della trasmissione televisiva Porta a Porta condotta da Bruno Vespa. Con esso l'allora capo dell'opposizione si impegnava, in caso di vittoria elettorale, a varare varie riforme riassunte in 5 punti e, in caso di mancata realizzazione di almeno 4 punti, a non ricandidarsi alle successive elezioni politiche. Ma il contratto con gli elettori non è un'invenzione del Cavaliere: il primo fu il Contratto con l'America, che fu il manifesto elettorale dei Repubblicani durante le elezioni parlamentari statunitensi del 1994. In quel caso, il contratto prevedeva che, se eletti, i Repubblicani avrebbero dovuto realizzare un gran numero di riforme nei primi 100 giorni del mandato. Una strategia che funzionò, facendo conquistare ai Repubblicani il Congresso. IL 22 ottobre 2016 a Gettysburg, Trump annunciò un "contratto con l'elettore" («Contract with the American Voter»), in cui delineò il suo programma per i primi cento giorni della sua eventuale presidenza. Il Codice etico di comportamento del Movimento Cinque Stelle firmato dai candidati al Campidoglio durante la campagna elettorale era un modo di introdurre il mandato imperativo attraverso una forma contrattuale che in caso di violazione dei  principi etici contenuti comportava le dimissioni oltre ad una multa pecuniaria per danno di immagine. Questi contratti hanno rappresentato il tentativo introdurre il mandato imperativo contro scelta fatta dalle Costituzioni moderne in cui l'indicazione elettorale è basata solamente su un patto di fiducia e un mero obbligo morale fra eletti ed elettori. Poiché le comunità politiche sono andate via via deteriorandosi e si sono rotti i rapporti di solidarietà tra i gruppi dirigenti dai livelli nazionali ai livelli locali il contratto ha avuto il significato simbolico di impegno forte tra elettori ed eletti, ma è anche servito a rafforzare un rapporto diretto tra il leader e i suoi elettori su un programma preciso, senza intermediazioni e senza mediazioni, io, il leader, mi impegno direttamene con voi, senza considerare le strutture intermedie. Ma poiché formalmente c’è solo l’impegno morale, tutti i leader sono venuti meno agli impegni assunti  nei contratti anche perché dopo essere stati eletti la fiducia proviene dagli altri eletti e non più dai cittadini, quindi abbiamo visto scene in cui tutti erano a cercare scuse e colpevoli per la mancata realizzazione del programma che pur avevano sottoscritto. In futuro potrà non accadere più questo, un Governo del futuro potrà avere la misura immediata del consenso che ha e del consenso che hanno i provvedimenti che intende prendere. Un esempio di collegamento diretto tra un leader e l’intero popolo lo abbiamo visto con l’invio dei messaggi di allerta civile che Donald Trump ha fatto giungere a tutto il Popolo degli Stati Uniti. Come è d’uso i messaggi possono andare dalla Presidenza al Popolo ma anche dal Popolo alla Presidenza e magari possono essere risposte a richieste di consenso o dissenso su un provvedimento. Immaginiamo per un attimo che un Premier possa chiedere ad un intero Popolo di 60 milioni di cittadini via sms di esprimersi su una legge per la chiusura delle frontiere ai migranti. Anche se arrivassero 40 milioni di risposte non sarebbe un problema lavorarle rapidamente con qualche banale algoritmo per tirarne fuori il risultato e il Premier con quel risultato potrebbe farsi forte nei confronti della classe politica in un senso o in quello opposto. Ma questo modo ancorché forte politicamente  avrebbe il problema della non certezza dell’identità del “votante” via sms questione che alla base per la validità  del risultato della votazione. Così viene in aiuto la tecnologia, vengono in aiuto la Blockchain e gli Smart Contracts. Se il leader facesse del suo programma uno Smart Contract e lo inserisse nella Blockchain del Governo, ambedue le questioni poste precedentemente sarebbero risolte, cioè avremmo la certezza dell’identità del votante/sottoscrittore e la certezza che nel caso il leader non rispettasse il programma lo Smart Contract decadrebbe automaticamente e quindi anche il leader decadrebbe. Questo modello di Governo è tecnologicamente possibile già oggi, non è detto che sia  per noi accettabile, ma accadrà che un leader prima o poi lo proporrà. D’altronde come tecnologie di Intelligenza Artificiale e della Blockchain cambieranno il lavoro e le relazioni economiche, così forzeranno anche  le strutture delle società umane costruite quando la Rete Sociale si muoveva sulla organizzazione dei partiti, i quali erano reti organizzate sul territorio in federazioni, sezioni, delegati di quartiere e aziendali. Ma oggi la rete è il Web e nel futuro prossimo appena il 2024, non sappiamo cosa diventerà quando nello specifico ognuno di noi avrà a disposizione sul cellulare da 20 Gbps a 100 Gbps. Un servizio di Blockchain governativa con lo smart contract  potrà essere realizzato e fruito. Quindi a cosa serviranno il Parlamento, a cosa serviranno i partiti che oggi vivono in una condizione di morte annunciata? Questa inutilità percepita potrà essere l’argomento per tentare di forzare la trasformazione delle strutture di rappresentanza e governo degli Stati. Dopotutto bisogna sapere che nel terzo trimestre del 2018 il traffico da dispositivi mobili è cresciuto quasi del 79% rispetto al 2019. L’incremento è dovuto principalmente a Cina con una crescita del traffico dati per smartphone di circa il 140% e al Nord Est Asiatico che si posiziona al secondo posto per traffico dati da con 7.3 gigabyte al mese. Il Nord America però detiene ancora il dato di traffico più alto pari gli 8,6 gigabyte al mese. Si prevede che tra il 2018 e il 2024, il traffico dati da dispositivi mobili crescerà fino a cinque volte e il 25% del traffico mobile sarà trasportato da reti 5G entro la fine del periodo. Il 5G sarà la rete su cui cresceranno le nuove organizzazioni di cittadini il cui patto di fiducia tra loro e con i candidati si baserà sulla Blockchain, tutto ciò per soddisfare la progressiva richiesta dei cittadini di avere un controllo diretto sull’azione di Governo così è (se vi pare). Risulta quindi necessario guidare consapevolmente il cambiamento delle nostre democrazie per restituire senso alla “sovranità popolare” ed evitare come dice politologo Colin Crouch che “le elezioni diventano gare attorno ai marchi, anziché opportunità per i cittadini di replicare ai politici” . Laudisi con la sua immagine nello specchio: «Eh caro! chi è il pazzo di noi due? Eh lo so: io dico TU! e tu col dito indichi me. Va là che, a tu per tu, ci conosciamo bene noi due. Il guaio è che, come ti vedo io, gli altri non ti vedono... Tu per gli altri diventi un fantasma! Eppure, vedi questi pazzi? senza badare al fantasma che portano con sé, in se stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! e credono che sia una cosa diversa.»  
997. Tecnologia e potere. Vi spiego gli effetti collaterali della rivoluzione digitale  
10 Dicembre 2018 Da Formiche.net Di Marco Mayer, Direttore del Master in Intelligence e Sicurezza Le società contemporanee sono caratterizzate dall’onnipresenza di computer, Reti e tecnologie digitali. In questo articolo non esaminerò gli straordinari vantaggi prodotti dalla grande rivoluzione tecnologica che contraddistingue la nostra epoca. Desidero, viceversa, accendere i riflettori su alcuni effetti collaterali negativi destinati a produrre conseguenze preoccupanti sul piano dell’ordinamento politico e della coesione sociale. Solo in tempi recenti gli studiosi hanno posto al centro delle loro ricerche empiriche i lati oscuri della rivoluzione tecnologica (I. Ben Israel, L. Tabansky, N. Crouchi, M. Libicki, Melissa Hathaway, et al.), esaminando criticamente il rapporto tra tecnologia e potere o, per essere più precisi, le tensioni intrinseche che contraddistinguono le relazioni tra tecnologia e democrazia da un lato e tra libertà e sicurezza digitale dall’altro. In precedenza, sin dagli anni Novanta, la maggioranza degli scienziati sociali aveva esaltato acriticamente la democrazia digitale, legittimando la speranza illusoria di una partecipazione diretta del singolo cittadino alla gestione del potere. Il tema della compatibilità tra tecnologia e democrazia pone, viceversa, innumerevoli e complesse domande di ricerca. Qual è l’impatto della rivoluzione digitale sul concreto esercizio delle libertà politiche e civili dei cittadini, sull’indipendenza dei media, sulla separazione dei poteri, sul diritto individuale alla riservatezza, sulla tutela delle minoranze, sui diritti sociali e del lavoro? In sintesi, possiamo riassumere le numerose domande in questi termini: quali sono le implicazioni della grande trasformazione tecnologica rispetto ai valori fondamentali dello Stato di diritto e del welfare state così come li abbiamo conosciuti sinora? Non c’è qui lo spazio per argomentazioni approfondite. Tuttavia l’ipotesi che intendo sostenere è che l’invenzione della rappresentazione binaria – oltre agli straordinari vantaggi – possa farci perdere rilevanti sfumature producendo una ipersemplificazione della realtà, solo apparentemente razionale. Cosa conta davvero nelle società caratterizzate da un alto grado di digitalizzazione? Non il valore del messaggio, ma la velocità di comunicazione; non il contenuto del progetto, ma la potenza di calcolo; non il significato della storia, ma la capacità di memorizzare; non i valori etici da condividere, ma l’impatto del microtargeting e il successo degli influencer; non la qualità delle relazioni umane, ma la quantità delle connessioni. Queste tendenze incidono profondamente sul piano cognitivo e comportamentale dando luogo a fenomeni di dipendenza (più o meno patologici) prodotti essenzialmente da due fattori: sul piano percettivo dalla capacità magnetica dei computer; sul piano psicologico dalla paura di disconnettersi (per non parlare del panico da smarrimento del proprio smartphone). Le proprietà caratteristiche delle società digitali a cui abbiamo sommariamente accennato creano a loro volta un contesto ambientale particolarmente adatto all’idea che stiamo vivendo nella cosiddetta epoca della post-verità (in cui le menzogne anti-vaccini sono solo la punta estrema dell’iceberg). La post-verità è un’espressione divenuta virale negli ultimi tre anni (nel web la parola post truth nel 2016 è salita del 2000% rispetto al 2015). Al di là della sua genesi e del suo successo, la post-verità costituisce un terreno particolarmente fertile per canalizzare le più sofisticate campagne di disinformazione. In un mondo – per parafrasare Giorgio Gaber – in cui “tutto è falso e il falso è tutto”, la distinzione tra Stati democratici e regimi illiberali non avrebbe più alcun significato. Non so quanto questo rischio interessi ai colossi della Silicon valley, ma a noi cittadini deve interessare moltissimo. Gli informatici e i data scientist, e più in generale i maghi degli algoritmi, non dovrebbero dimenticarsi che la libertà e la democrazia sono valori assoluti con cui la tecnologia (più o meno intelligente) deve adattarsi a convivere.  
998. Il problema della legittimità. Le Rivolte Arabe e la controrivoluzione sunnita  
10 Dicembre 2018 di Leonardo Palma da Geopolitica.info Tra la fine dell’inverno e gli inizi della primavera del 2011, per un effimero momento si ebbe la sensazione che i regimi autocratici mediorientali fossero travolti da una sincera ondata riformatrice. I fatti tunisini e di piazza Tahrir in Egitto sembravano aver dato sfogo ad un nuovo ceto medio che chiedeva riforme e democrazia liberale, ma soprattutto reclamava a gran voce la fine di quei longevi regimi che avevano sottratto loro la prospettiva di un futuro. In poco tempo, tuttavia, l’euforia e la febbre rivoluzionaria divennero paralisi e forze politiche preesistenti – come l’esercito o le organizzazioni religiose nelle campagne – si rivelarono assai più forti di quella confusa moltitudine scesa nelle piazze le settimane precedenti. La Primavera Araba, termine giornalistico che a posteriori risulta assai fuorviante, non innescò un mutamento ma accelerò l’inevitabile disvelarsi delle profonde contraddizioni in seno al mondo arabo-islamico. Le richieste di chi era sceso – e morto – nelle piazze furono soppiantate dalla contesa tra il laico autoritarismo dei militari e l’ideologia dei partiti islamisti. Di per sé questa non fu una novità, semplicemente si riproposero dinamiche che avevano caratterizzato l’intera storia del Medio Oriente dal crollo dell’Impero ottomano. Una delle chiavi di lettura per comprendere le ragioni strutturali e storiche della crisi acuitasi dopo le rivolte del 2011 è quella del paradigma del potere legittimo. Senza voler escludere le questioni settarie, etniche e religiose – le quali assumono comunque rilevanza non indifferente – il disfacimento della legittimità del potere statuale nell’area mediorientale è problema ineludibile. Con il crollo dell’Impero ottomano, le potenze occidentali ridisegnarono la regione secondo l’archetipo dello Stato-nazione europeo sorto nel 1648 a Munster e Osnabrück, impiantando artificialmente il risultato di un processo storico che in Europa era durato secoli. Una scatola perfettamente funzionante all’esterno ma che all’interno era priva di radici culturali comuni, dunque incapace di anestetizzare la congiuntura tra potere politico e potere religioso del mondo musulmano. Il cortocircuito, riemerso con prepotenza all’indomani del 2011, tra i gruppi di ispirazione islamista – come i Fratelli Musulmani – e quelli “laico-militari” nasce da questo equivoco. Lo Stato-nazione mediorientale, fin dalla sua nascita, fu dotato di potere ma non di legittimità. Per costruirla, inizialmente, leader come Nasser e Assad fecero appello all’unità del mondo Arabo inteso come comunità culturale, linguistica, religiosa, vendendo ai propri popoli una versione arrangiata del socialismo e un comodo nemico esterno quale Israele. Ma questi tentativi non riuscirono a rendere meno blasfemo il tentativo di separare Dio dalla politica per creare un “popolo” che si riconoscesse nei confini della Nazione, narcotizzando le pretese universaliste dell’Islam. Anwar al-Sadat, successore di Nasser, fu vittima di questo contrasto. Quando nel 2011 i dimostranti di piazza Tahrir chiesero la rimozione di Mubarak lo fecero in nome del “popolo”, ma nessuno è mai riuscito a definire chi fosse questo “popolo”. Poiché il paradigma dello Stato legittimo è entrato in crisi in tutta l’area del Grande Medio Oriente, le rivolte del 2011 non possono essere esaminate come singole concatenazioni di eventi ma solo in un quadro più ampio. Sebbene fattori domestici possano aver influito maggiormente sulle risultanze finali, non c’è stato un solo caso – con la eccezione forse della Tunisia – in cui influenze esterne non abbiano giocato un ruolo. La caduta di Ben Alì, Hosni Mubarak, Muhammar Gheddafi, Ali Abdullah Saleh, iniziò nelle piazze gremite di manifestanti le cui motivazioni e aspirazioni ebbero diffusione transnazionale. Fattori internazionali e locali contribuirono poi ad incrinare i precari equilibri di potenza interni e plasmare i risultati politici delle rivolte. È eccezionalmente difficile pensare di spiegare il corso degli eventi di Libia, Egitto, Sudan, Yemen, Siria, Bahrain, senza fare riferimento all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti, al Qatar o all’Iran. Ognuno di questi attori è stato infatti trascinato, volente o nolente, in un logorante processo di ridefinizione della propria politica estera al fine di tamponare gli effetti delle rivolte e guadagnare spazi di manovra ai danni dei vicini. Il timore delle monarchie sunnite nella Penisola Arabica fu infatti fin dall’inizio quello del contagio e di una eventuale offensiva iraniana che potesse approfittare della situazione di incertezza. L’Arabia Saudita fu la prima ad assumere un ruolo maggiormente assertivo poiché direttamente esposta, come custode dei luoghi santi di Mecca e Medina, alle ripercussioni di un certo linguaggio islamista che, già nel 1979, durante l’assedio della Grande Moschea, aveva posto con drammatica urgenza il problema della legittimità della monarchia. Il Regno divenne così inizialmente l’architetto di una politica di contenimento della diffusione dei fervori rivoluzionari e più avanti di una vera e propria controrivoluzione sunnita. Tuttavia, poiché la Lega Araba aveva dimostrato già in precedenza la sua fragilità e al suo interno vi erano Stati in procinto di lasciare il controllo del potere ai partiti islamisti, il contenitore politico entro cui agire divenne il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). La speranza era che quest’ultimo – corteggiando altre due monarchie sunnite quali Marocco e Giordania – potesse sul lungo periodo sostituire la morente Lega Araba e rilanciare un nucleo più ristretto che avesse in comune l’ordinamento monarchico, la tradizione sunnita e un mai sopito desiderio di panarabismo per superare le contraddizioni dello Stato-nazione emerse negli ultimi decenni. I sauditi avrebbero voluto in sostanza ricevere il testimone del ruolo che era stato ricoperto in passato dall’Egitto di Nasser e Sadat, scalzando definitivamente i tentativi di Qatar ed Emirati Arabi Uniti di indebolire la propria leadership nella Penisola. Inoltre, alla paura per la sopravvivenza della dinastia, si aggiungevano le preoccupazioni di un Iraq – all’epoca guidato dallo sciita Nuri al-Maliki – sempre più vicino a Teheran. Una delle prime risposte di Riyad alle rivolte del 2011 fu infatti quella di puntellare il trono di Re Hamad al-Khalifa inviando truppe in Bahrain e denunciando l’Iran come il fomentatore nascosto delle rivolte che lì si stavano intensificando. Questa mossa servì inoltre a segnalare agli altri Stati del GCC che i sauditi erano determinati ad impedire che quanto stava avvenendo in Nord Africa potesse raggiungere la Penisola Arabica. Ragioni di forma e di sostanza, oltreché di opportunità politica, si condensarono tanto da rendere il contenimento non più sufficiente e ad immaginare una vera controrivoluzione. La compiacenza, cioè, non poteva più essere considerata una opzione, soprattutto dal momento in cui gli Stati Uniti si espressero a favore delle rivolte in Tunisia, Egitto e più avanti in Libia. A cominciare dal febbraio 2011, prima che dimostrazioni e proteste esplodessero nelle province orientali a prevalenza sciita, l’Arabia Saudita approvò un piano da 130 miliardi di dollari per finanziare l’aumento dei redditi, costruire ulteriori 500.000 unità abitative a basso costo e rimpinguare le casse delle organizzazioni religiose wahabite. Misure simili furono prese in Kuwait e il GCC, su pressioni di Riyad, promosse un progetto di sviluppo da 20 miliardi di dollari per l’Oman e il Bahrain. Secondo Richard Beeston, reporter del The Times, l’Arabia Saudita: “is using its influence, money and force to stamp out regional fires”.  Dopo la caduta di Mubarak e il rischio concreto – come poi avvenne – dell’arrivo al potere dei Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi, i sauditi decisero di prestare a fondo perduto 4 miliardi di dollari all’Egitto per evitare una ulteriore radicalizzazione delle piazze e, come anticipato, promossero attivamente l’ingresso di Marocco e Giordania nel GCC. In Yemen il Consiglio riuscì poi a gestire, almeno inizialmente, la transizione che portò al potere Rabbo Mansour Hadi sebbene, pochi mesi dopo, la ribellione Houthi costrinse una coalizione militare a guida saudita ad intervenire in quello che sarebbe divenuto un sanguinoso pantano. La politica messa in campo dai sauditi fece attrito con le resistenze poste dal Qatar e dagli Emirati Arabi Uniti, in special modo Abu Dhabi. I due piccoli sceiccati chiarirono fin dall’inizio la loro reticenza nel riconoscere a Riyad una rinnovata leadership nella Penisola perché ritennero che le rivolte avessero aperto loro la strada per una diplomazia più spregiudicata, pericolosa, ma al tempo stesso più redditizia. Doha appoggiò le forze ribelli del CNT libico contro Gheddafi, fornendo loro supporto economico, logistico e militare, mettendo altresì pressione sugli europei – in special modo i franco-britannici – per giungere ad un intervento militare occidentale. La strategia del Qatar e di Abu Dhabi, forse velleitaria nel suo orizzonte di lungo periodo ma di certo non priva di coraggio, puntava ad inserire la propria forza economica negli spazi lasciati vuoti dal crollo dei vecchi regimi e capitalizzare così durante il periodo di transizione un patrimonio politico e diplomatico da spendere in campo commerciale. I due sceiccati miravano infatti a divenire la “porta di accesso” al promettente mercato nordafricano: il Qatar favorendo, insieme alla Turchia, i movimenti islamisti in ascesa, gli Emirati, insieme ai sauditi, le vecchie élite imprenditoriali, militari e anti-islamiste. Questa spericolata diplomazia non favorì la costituzione di un fronte unitario in seno al GCC ma i sauditi furono sufficientemente accorti da non forzare la mano ai propri interlocutori, consapevoli del pericolo che avrebbe corso spingendoli verso l’Iraq e l’Iran. Poiché la posta in gioco non era – e non è – soltanto l’affermazione di una leadership ma la sopravvivenza della monarchia stessa, l’unica politica possibile era quella di separare, almeno momentaneamente, ideologia e rapporti di forza, bilanciando i rapporti tra membri del GCC e tra quest’ultimo e Teheran. Trovare un equilibrio tra ambizioni politiche e sicurezza regionale – un aspetto che include la presenza americana nell’area – è infatti l’unica politica che può garantire un certo grado di stabilità. Ciò nonostante, le contraddizioni che le rivolte del 2011 avevano disvelato con una potenza politicamente rilevante e mediaticamente mortale, non si risolsero nel contenimento delle fasi iniziali o nei tentativi controrivoluzionari successivi. I nodi vennero al pettine rispettivamente in Libia – dove alla caduta del Colonnello è seguita la disgregazione del paese secondo logiche spartitorie tra un fronte cirenaico influenzato da Egitto ed EAU con il supporto di Francia e Regno Unito, e uno tripolino condizionato dal Qatar con il supporto di Italia e Turchia – e in Siria. In entrambi i casi sia il blocco rivoluzionario sia il blocco controrivoluzionario non riuscirono a tenere il controllo della situazione: Stati profondamente indeboliti nella loro legittimità, crollarono sotto il peso di settarismi, conflitti religiosi, tribali, clanici, e sotto l’offensiva del neonato Stato Islamico. Nella Siria alawita degli Assad, la conflagrazione fu talmente drammatica da coinvolgere, come le tessere di un domino, oltre agli Stati Uniti, alla Turchia e all’Iran con le sue milizie, anche la Russia e Israele.  
999. Il ritiro degli Usa dalla Siria: i vantaggi per l’Iran  
08 Gennaio 2019 di Lorenzo Zacchi da Geopolitica.info Lo scenario “Detto (spesso in campagna elettorale), fatto”. Il ritiro dalla Siria voluto da Trump altro non è che la conseguenza di quanto ripetuto in maniera martellante durante il periodo precedente alla sua elezione. L’idea di disimpegnarsi dal Medio Oriente, per concentrare le risorse sul rilancio dell’economia americana, è stata a più riprese ribadita dal tycoon in campagna elettorale, e sottolineata anche nel momento in cui gli Usa sembravano tornati ad impegnarsi direttamente in Siria. Dopo il lancio di missili da crociera Tomahwk dello scorso aprile, a seguito del presunto attacco chimico da parte di Assad, infatti, la portavoce di Trump smentì immediatamente la dichiarazione del presidente francese Macron, che in diretta Tv si vantava di aver convinto il tycoon a rimanere in Siria. Una secca smentita che evidenziava come il piano di disimpegno siriano era sul tavolo della presidenza da lungo tempo, e che sarebbe stato portato a termine. Durante la visita a sorpresa ai militari Usa di stanza in Iraq effettuata durante le feste natalizie, Trump ha dichiarato che gli “Usa non saranno più il gendarme del mondo”. Il Medio Oriente, e in particolare la Siria, saranno quindi ancora di più terreno di scontro tra attori locali e potenze regionali, in un turbinio di alleanze liquide pronte a sfaldarsi e ricomporsi nel giro di pochi mesi. Il punto di vista iraniano Sul ritiro delle forze Usa nessun membro di spicco dell’Iran ha rilasciato dichiarazioni precise: si continua a ribadire, come negli ultimi anni, che la presenza delle forze militari statunitensi è illegittima, in quando non richiesta da Assad, e quindi da considerarsi come un’aggressione nei confronti di uno stato sovrano. E’ evidente, però, che il ritiro degli Usa non possa essere visto negativamente da Teheran, che si libera della presenza di un nemico all’interno di uno stato cardine nel sistema di alleanze che l’Iran ha delineato alle sue porte. Non a caso, negli ultimi giorni, una delegazione del ministero degli esteri iraniano ha effettuato diverse visite a Damasco, coordinate a incontri di altissimo livello con funzionari siriani e con lo stesso Assad. Uno dei primi obiettivi è dar vita al Comitato Costituzionale siriano, che prosegue e rende effettivo il “Congresso di Dialogo Nazionale Siriano” tenutosi a Sochi nel gennaio 2018, su iniziativa russa. Si pensa già alla Siria post-conflitto: uno stato che deve essere ricostruito, non solo fisicamente, ma anche politicamente, per evitare una disgregazione territoriale che per Teheran rappresenterebbe una sconfitta. I curdi Il ritiro delle forze americane dal nord della Siria può rappresentare un vantaggio per l’Iran, per ricalibrare il rapporto con i curdi siriani. Su quest’ultimi Teheran non ha mai avuto una posizione univoca: c’è sempre stato, da parte delle istituzioni iraniane, il timore per la forte dipendenza dei curdi da Washington, oltre che per la richiesta di autonomia e indipendenza da Damasco. Il processo di indipendenza del Rojava ha spaventato l’Iran, soprattutto per le possibili conseguenze che questo potrebbe avere sui curdi iraniani, nella provincia di Sanandaj. Dall’altra parte ora i curdi del Rojava hanno bisogno di riempire il vuoto di protezione lasciato dalle forze americane: in questa ottica va analizzata la richiesta di aiuto giunta a Damasco negli scorsi giorni. Il 27 novembre l’esercito siriano ha inviato un contingente di uomini a Manbij, città controllata precedentemente dai curdi, situata a pochi chilometri dal confine turco. Un accordo che soddisfa entrambe le parti: da una parte i curdi, traditi dall’alleato americano e sottoposti alla pressione di una potenziale invasione turca dal nord, godono di una nuova protezione; dall’altra Damasco pone nuovamente il controllo sui territori del nord, ricchi di giacimenti petroliferi. Un accordo che, inoltre, soddisfa pienamente l’Iran: viene non solo scampato il pericolo, al momento, di una disgregazione siriana, ma soprattutto viene arginata la presenza e il ruolo della Turchia nel nord della Siria, fattore che non è mai stato accettato a pieno da Teheran. Il ritiro delle forze statunitensi dalla Siria, inoltre, è un chiaro segno che Trump manda ai suoi alleati regionali, Israele e Arabia Saudita: per quanto rimangano i pilastri degli Usa in Medio Oriente, il futuro equilibrio dell’area deve essere gestito in primis dagli attori locali, senza contare su un copioso sostegno statunitense. Trump, così come Obama prima, non ha intenzione di rimanere impantanato a lungo in territori non più redditizi, e non considerati strategicamente importanti. L’asse anti iraniano, progettato da Trump, deve camminare con gambe proprie. In conclusione il ritiro degli Usa, e il conseguente e più sicuro mantenimento del potere da parte di Assad, rinforza il sistema di alleanze che l’Iran ha predisposto nella regione: salvaguarda le posizioni conquistate dalle milizie sciite controllate da Teheran nella guerra civile siriana, contribuisce a difendere il corridoio terrestre che con Siria e Iraq delinea la cosiddetta mezzaluna sciita. La ricostruzione della Siria, il prossimo assetto politico del paese e il sistema di alleanze che si cristallizzerà a guida di questo processo, saranno i punti cardine del futuro equilibrio di potere all’interno del Medio Oriente.  
1000. L’Italia punti sul Mediterraneo orientale  
06 Febbraio 2019 di Guido Dell'Omo da Geopolitica.info L’East Med Gas Forum rappresenta un passo decisivo per rafforzare la cooperazione tra paesi vicini geograficamente e che, al contempo, condividono un obiettivo importante: investire nel gas naturale. Il 14 e 15 gennaio esponenti dei governi da Egitto, Italia, Ue, Cipro, Israele, Giordania nonché Mohamed Mustafa, consigliere economico del presidente palestinese Mahmoud Abbas, si sono incontrati al Cairo con l’obiettivo di mettere le basi per accelerare le relazioni nel settore energetico tra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Le potenzialità del gas naturale fanno gola agli attori regionali ma non solo. Allargando l’obiettivo anche l’Ue nel 2015 ha indicato la costruzione del gasdotto EastMed come Project of Common Interest. L’Egitto scommette che la sua posizione strategica a cavallo del Canale di Suez, ponte di terra tra l’Asia e l’Africa, e le sue infrastrutture ben sviluppate, tra cui una vasta rete di condotte e due impianti di liquefazione del gas, contribuiranno a trasformarlo in un centro energetico di distribuzione per i paesi della regione e non solo. La scoperta dei giacimenti di Zohr e Nour a largo delle coste egiziane grazie alle doti esplorative di Eni e altre scoperte minori nelle acque cipriote e israeliane hanno proiettato l’Egitto verso il ruolo di esportatore di gas naturale. In questo contesto l’Italia deve cercare di diversificare le proprie fonti energetiche perché Algeria e Libia nei prossimi anni aumenteranno considerevolmente il consumo interno di energia riducendo notevolmente la loro capacità di esportazione. In Italia il Trattato di Aquisgrana è stato accolto come un campanello d’allarme da coloro che sono consapevoli dell’amicizia e delle convergenze che contraddistinguono il rapporto tra Francia e Germania e che, in generale, temono un salto di livello nei rapporti tra Parigi e Berlino che li porti a intrattenere qualcosa più simile a una relazione che a un’amicizia. Nell’attesa di una distensione dei rapporti tra Roma e il convoglio a guida franco-tedesca, l’Italia potrebbe concentrarsi sul fronte sud-est puntando su un settore di cruciale importanza. Il settore dell’energia sta attraversando anni decisivi che vedono un ruolo sempre più cruciale per il gas naturale, che secondo le stime dell’International Energy Agency entro il 2040 rappresenterà, dopo il petrolio, la seconda fonte energetica per consumo con un aumento della domanda globale pari al 45%, superando così il carbone. Questa risorsa è quindi candidata a rappresentare la fonte energetica più utilizzata durante la transizione mondiale che vedrà un progressivo abbandono dei combustibili fossili per favorire la ricerca e lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili e sostenibili. Per ora l’Unione europea è il più grande importatore di gas ma anche l’Asia giocherà un ruolo da protagonista. Solo in Cina, secondo le stime, nei prossimi decenni ci sarà un aumento della domanda per il gas naturale che toccherà l’80%, rendendo Pechino il più grande importatore di gas dopo l’Unione europea. La diversificazione energetica è prioritaria e sarebbe opportuno disporre di diverse opzioni. In questo contesto all’interno dei confini italiani si parla poco del progetto del gasdotto EastMed che nel 2015, col supporto dei governi italiano, greco e cipriota è stato indicato come Project of Common Interest dalla Commissione europea. Un progetto che prevede la costruzione di 1900km di gasdotto che colleghi le risorse del Mediterraneo orientale a Grecia, Creta, Cipro e Italia. Il ruolo di Eni nel Mediterraneo ha rafforzato le previsioni secondo cui il gas naturale prodotto dai campi di Tamar e Leviathan di Israele, Zohr dell’Egitto e Afrodite di Cipro meridionale potrebbe diventare una fonte alternativa di approvvigionamento per l’Ue, proiettando l’Italia verso il ruolo di hub energetico. Intanto la Germania, redarguita dagli Stati Uniti di Donald Trump per il prolungamento del gasdotto NordStream con la Russia, apre il mercato europeo al gas d’oltreoceano. Pochi mesi fa sulle pagine del quotidiano tedesco Bild il vice segretario per l’Energia Dan Brouilette ha affermato che “il gas naturale liquefatto degli Stati Uniti sta arrivando in Germania.” E che “la domanda non è se, ma quando.” In Italia attualmente produciamo solo l’8% del nostro fabbisogno di gas, il 40% lo importiamo dalla Russia, il 25% dall’Algeria, il 6% dalla Libia e il 10% nel sistema diviso tra l’Olanda e il Mare del Nord, mentre un altro 11% lo prendiamo dal Qatar, che è uno dei maggiori esportatori di gnl nel mondo. La nostra posizione nel Mediterraneo offre uno scenario in cui l’Italia può pensare di proporsi come ponte energetico tra i paesi in via di sviluppo e l’Europa settentrionale, pensando al contempo al continuo processo di diversificazione – già a buon punto – della nostra rete di approvvigionamento. Per pensare di poter realizzare lo scenario che vede il nostro Paese come un hub fondamentale per il passaggio di gas naturale in Europa, però, bisogna superare l’ostacolo tutto italiano della mania di dire “no” a grandi progetti infrastrutturali: senza il continuo ammodernamento dei gasdotti e la costruzione di quelli considerati strategici per il futuro dell’Italia non si andrà da nessuna parte mentre, ad approfittarne, sarà qualcun altro.  
Search results 991 until 1000 of 1593