23 Marzo 2020
del Generale Massimiliano Del Casale, Link Campus University.
Il prezzo del greggio quota oggi meno di 30 dollari al barile. Occorre risalire alla crisi del Golfo del 1991 per trovare alcune similitudini con la situazione odierna. Un minimo storico che rispecchia le preoccupazioni crescenti a livello globale sul mercato. L’approvvigionamento sembra tenere un costante trend di crescita, ma la domanda terrà difficilmente il passo in una situazione generalizzata di progressivo, sebbene temporaneo, calo dei consumi nel tempo del Coronavirus.
Il 6 marzo scorso, a Vienna, si è di fatto consumata l’ultima frattura in ordine di tempo nel c.d. OPEC plus, il consesso che riunisce i Paesi OPEC, guidati dall’Arabia Saudita, e i Paesi non-OPEC con la Russia a capofila. Quest’ultima ha negato un accordo sul taglio alla produzione, proposto dalle potenze petrolifere del Golfo. Una mossa che deprime le economie maggiormente legate alle esportazioni di petrolio, ma che potrebbe indebolire soprattutto la leadership di “Mbs”, il principe Mohammad bin-Salman al-Sa’-ud, il trentaquattrenne futuro monarca destinato a perpetuare la dinastia saudita. Una figura politica controversa, capace di vere fughe in avanti nel modernizzare i costumi di quella società e, al contempo, protagonista di clamorosi ritorni al passato più oltranzista e tradizionalista.
Per tutta risposta, l’ARAMCO, la compagnia di stato petrolifera saudita, il 9 marzo -appena tre giorni dopo il vertice di Vienna- ha deciso la riduzione unilaterale del costo del greggio, come mai negli ultimi venti anni, di 4-6 dollari al barile. Ribasso che ha di conseguenza determinato una riduzione di 7 dollari al barile del WTI americano, passato poi a 29 dollari, e di 10 dollari al barile del Brent del Mare del Nord, sceso a 33 dollari.
Al momento, vani tutti i tentativi di ricomporre il confronto tra le parti, l’unica prospettiva davvero concreta è che dal 1° aprile prossimo non ci saranno più restrizioni nella produzione di greggio, né per i Paesi OPEC né per quelli non-OPEC.
Ma perché tutto questo? Perché le parti non sono riuscite o non hanno inteso trovare un punto d’incontro, quanto meno provvisorio? Le risposte vanno individuate, come sempre, in un mix d’interessi, economici e geo-politici. L’economia del più grande Paese arabo si basa per il 75% sull’export di greggio. E’ pertanto evidente come una riduzione nella produzione manterrebbe su livelli apprezzabili il costo al barile, garantendo quegli introiti necessari per la tenuta del sistema economico saudita. La Russia, dal suo canto, teme che un abbassamento dei ritmi produttivi possa lasciare spazi di mercato, specie nel continente asiatico, al petrolio statunitense la cui produzione, al contrario di Russia e Arabia Saudita, è peraltro in mano a compagnie private. Inoltre, l’economia americana è molto più articolata e complessa e svincolata dal solo andamento del mercato dei prodotti petroliferi.
Una Russia che, dovendo anche fronteggiare sanzioni commerciali, è impegnata nel ricercare nuove partnership. Lo scorso autunno, Putin e Duterte, il leader filippino, hanno discusso per individuare ambiti di cooperazione per consentire alla russa Rosneft di avviare una campagna di sondaggi dei fondali nelle acque del grande arcipelago asiatico.
Il Covid-19 ha fatto il resto, abbassando di oltre il 30% la domanda mondiale di greggio rispetto all’inizio dell’anno e determinandone il deprezzamento di un quinto del suo valore da quando l’epidemia ha iniziato a diffondersi, dapprima in Cina e poi nel resto del pianeta.
Ma la vera competizione è con gli Stati Uniti. Dall’avvento dell’OPEC+, ossia quando venne siglato nel novembre 2016 l’accordo tra Russia e Arabia Saudita per ridurre l’offerta di greggio di 2 milioni di barili al giorno, gli USA hanno aumentato la propria produzione del 50%, portandola da poco meno di 9 a 13 milioni di barili al giorno. Cosicché gli Stati Uniti non solo hanno raggiunto l’autosufficienza energetica, ma stanno contendendo all’Arabia Saudita la leadership mondiale nell’esportazione di oro nero.
Se, nel breve termine, la situazione può favorire l’assertività saudita, sul medio-lungo termine l’economia statunitense appare certamente più solida, più attrezzata e, quindi, più capace di sopportare i traumi di mercato. Le compagnie americane coprono interamente e in modo più efficiente i costi di produzione con quotazioni ben al di là dei 50 dollari al barile. La saudita ARAMCO dovrebbe assicurarsi quotazioni superiori agli 80 dollari al barile per chiudere in pareggio il bilancio pubblico annuale. Quindi, l’attuale costo del greggio, che oscilla tra i 27 e i 33 dollari al barile, non è sostenibile per Rijadh sul lungo termine e con aree di mercato stabilizzate e definite.
In questo gioco del “tutti contro tutti”, si creano nuovi allineamenti, si possono modificare equilibri geo-politici. E il primo terreno di confronto sembra essere proprio il Medio Oriente.
Il legame tra Stati Uniti e Arabia Saudita si è sempre basato su di un fortissimo rapporto di interessi, geo-politici prima che economico-commerciali. Grazie allo stesso supporto americano, i Sauditi hanno potuto recitare sino ad oggi la parte di leader regionale indicando tempi e scelte alle altre monarchie del Golfo, ad esclusione dell’Oman, sino allo scorso gennaio guidato dal vecchio sultano Qaboos bin Said che, nei suoi quasi 50 anni di illuminato governo, è riuscito a tenere il proprio Paese lontano da ogni contesa, in un’area tra le più instabili del mondo, e il Qatar che, non condividendo le politiche di mercato del Gulf Cooperation Council, nel 2017 si è allontanato dalle altre monarchie aprendo ad una forte cooperazione con Iran e Turchia ed andando così pure incontro a sanzioni economiche che, di fatto, non hanno scalfito la tenuta complessiva del Paese. Un supporto americano che ha consentito nel tempo di potersi dotare di forze armate modernamente equipaggiate, di moderne infrastrutture e di realizzare un’efficiente sistema di sicurezza interna. Risorse che hanno consentito sino ad oggi all’Arabia Saudita di detenere un primato regionale. Condizione che, d’altro canto, per gli USA ha rappresentato, e rappresenta tuttora, una polizza assicurativa contro l’espansione d’influenza da parte, un tempo, dell’Unione Sovietica e, oggi, della Russia. Senza dimenticare che, pur essendo in grado di provvedere autonomamente al proprio fabbisogno energetico, gli Stati Uniti importano greggio dai Sauditi per circa due milioni di barili al giorno. Va poi considerato che, in Arabia Saudita, si trovano le città La Mecca e Medina, due dei tre luoghi più importanti della tradizione musulmana. I luoghi che, rispettivamente, dettero i natali a Maometto e quelli ove il Profeta concluse la sua esistenza ed è sepolto. Petrolio ed Islam, quindi. Un binomio che ha reso la nazione saudita il Paese più importante del Golfo Persico, di tutto l’Islam nonché membro del G20 e che può godere del pieno appoggio, politico e militare, della prima potenza mondiale.
Ma come viene percepita oggi quella che Paolo Wulzer, docente presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, ha definito dando il titolo ad un suo recente, bellissimo volume Una relazione “complicata” ma “complementare”? La Gallup Pool, agenzia di sondaggi d’opinione e di ricerche statistiche di Washington, ha stimato che, a partire da febbraio 2019, solo il 4% degli Americani esprime un giudizio “molto favorevole” sull’Arabia Saudita, mentre il 25% si dichiara “piuttosto favorevole”. Un risultato che esprime una popolarità inferiore pure a Cuba e Venezuela. Secondo un altro sondaggio condotto da YouGov nell’autunno 2018, moltissimi cittadini statunitensi percepiscono l’Arabia Saudita più come nemico che alleato. Certamente, il clamore destato -e che tuttora desta- l’assassinio dello scrittore giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre dello stesso anno presso il consolato saudita di Istanbul, è stato molto forte e di sicuro condizionerà per lungo tempo l’opinione pubblica. Lo dimostra il fatto che un sondaggio più recente (settembre 2019) condotto da Businness Insider ha fatto emergere che appena il 22% degli intervistati considera l’Arabia Saudita come alleato. Certo, l’amministrazione Trump guarda la realtà da un’altra prospettiva, ma in democrazia, si sa, è difficile dire alla gente che stai facendo cose per il bene di un’alleanza alla quale i tuoi connazionali per primi non credono.
E da parte araba? Come viene vista oggi questa relazione?
Un banco di prova, tristissimo quanto drammatico, è rappresentato dalla guerra civile dello Yemen, avviata nel 2015. L’ennesima “war by proxy” che ha visto fronteggiarsi le monarchie del Golfo, Sauditi in testa, a sostenere il governo internazionalmente riconosciuto del presidente Hadi contro le milizie Houthi, di confessione sciita, spalleggiate dall’Iran. Una guerra che è costata 91.00 vittime e che ha portato allo stremo un paese facendolo diventare il più povero al mondo. Un conflitto che non ha visto né vinti né vincitori e che oggi sta portando le parti a mediare per una soluzione condivisa. A nulla, quindi, è valso il supporto fornito all’Arabia Saudita dal grande alleato americano. Un supporto percepito come insufficiente, inconsistente, non determinante e, quindi, insoddisfacente. Di certo, dopo l’eliminazione nel gennaio scorso del generale Qasem Soleimani, capo dei Guardiani della Rivoluzione e figura carismatica della nazione iraniana, erano tutti convinti di assistere all’ultima sfida lanciata dal “tycoon” contro il regime degli ayatollah, primo atto di un nuovo conflitto capace di accendere il Medio Oriente. Così non è stato. Gli USA hanno probabilmente rinunciato a compiere un ulteriore passo, vista l’impossibilità di proteggere tutti i siti petroliferi sauditi da una sicura reazione iraniana ad un attacco militare sferrato sul proprio territorio.
Si percepisce tuttavia un cambio di atteggiamento sul piano internazionale da parte dell’Iran, più cauto e meno assertivo rispetto ad un recente passato. Stiamo assistendo ad un riallineamento di posizioni nella sub-regione del Golfo Persico? Difficile poterlo affermare.
La presenza militare americana nell’area è sempre ancora molto consistente, ma non può bastare da sola a dare nuova linfa ad un’alleanza che sta attraversando una fase di stanchezza. L’Arabia Saudita, per scelta o per convenienza, sembra voler dare una svolta alle situazioni conflittuali che la vedono da tempo coinvolta: Yemen, Qatar e Iran.
Per la soluzione della crisi yemenita, è pronta a considerare un ruolo per gli Houthi nella governance del Paese. Nei confronti del Qatar, fallito nella sostanza l’isolamento che avrebbe dovuto minarne qualsiasi tipo di relazione internazionale, è da tempo in atto un’operazione di riavvicinamento. La partita più importante la si gioca tuttavia con l’Iran, il cui tema dominante di politica estera resta incentrato sulla necessità di liberare l’intera regione dalla presenza straniera, specialmente di quella americana, e di dar vita ad un’alleanza tra tutti i Paesi del Golfo in grado di garantire, anche sul piano militare, la necessaria sicurezza e una durevole stabilità. In questa direzione, indicata a più riprese recentemente dal ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, ha iniziato a muoversi anche l’Arabia Saudita. Difficile essere sicuri della concreta volontà delle parti di giungere almeno ad un patto di non aggressione che garantisca un’adeguata stabilità nell’area.
Per quanto riguarda la Russia, il duro confronto consumatosi nel corso della riunione dell’OPEC+ del 6 marzo a Vienna, che ha visto il rappresentante di Mosca respingere la richiesta araba di ridurre di 1,8 milioni di barili al giorno la produzione a fronte di una minore domanda mondiale, legata al diffondersi del Coronavirus, secondo molti osservatori internazionali mette in realtà “nel mirino” l’industria petrolifera americana. Il perdurare della guerra sul prezzo che si è appena innescata può arrecare forti danni all’economia USA, finanche un ridimensionamento dell’industria energetica a stelle e strisce che può toglierle il primato mondiale. L’approccio russo tende a mantenere inalterati gli spazi di mercato posseduti che, invece, potrebbero essere in parte perduti a fronte di una riduzione degli attuali livelli produttivi, nella convinzione che lo scopo ultimo non sia già mettere in crisi le compagnie petrolifere d’oltreoceano quanto la politica delle sanzioni che gli USA han potuto attuare, forti della grande disponibilità di risorse energetiche. Un atteggiamento che ha di sicuro inasprito i rapporti di Mosca con l’OPEC. Rapporti resi ancor più difficili dallo stallo nella realizzazione del North Stream 2, la pipeline che convoglierà il gas naturale russo verso l’Europa. Uno stallo conseguente alle misure restrittive imposte all’indomani dell’annessione della Crimea, ma che, dalla prospettiva di Mosca, sono da sempre viste come il disegno tracciato da un’unica mano, quella di Washington che, dalla sua posizione di dominance energetica, assiste, per ora senza particolari sussulti, a questo (apparente?) scontro tra giganti. Di certo, la Russia ha fatto tesoro delle esperienze negative vissute in campo economico. Negli ultimi dodici anni, non ha esitato a tagliare pesantemente il proprio debito pubblico con manovre di bilancio ed interventi normativi che hanno ridotto molto sensibilmente l’enorme apparato burocratico del paese, consentendo di avviare un’importantissima campagna di investimenti e di colmare tutte le proprie riserve energetiche. Molti osservatori stimano che essa sia in grado di sostenere l’attuale situazione per almeno dieci anni. Nel frattempo, sul piano politico internazionale, nonostante la guerra in atto sul prezzo del petrolio, Mosca e Rijadh continuano a dare segnali di forte intesa sul piano degli investimenti pluriennali (Vision 2035).
E sarebbe un grave colpo per gli Stati Uniti se riuscissero a trovare le misure per un concreto legame. Ma vi sono due ulteriori aspetti che nel breve-medio termine possono giocare a favore del presidente Putin. L’ingresso sullo scenario libico, inizialmente al fianco del generale Khalifa Haftar e, più di recente, su posizioni di maggiore equidistanza rispetto al governo riconosciuto di Tripoli, di Fayez al-Serraj, assicurerà per il futuro una consistente fetta di mercato energetico libico nonché la presenza stabile in un’area da sempre ambita quanto preclusa, ai Sovietici prima e ai Russi poi.
Ma è con l’Iran che dobbiamo prepararci a veder giocare una nuova partita. Russi e Iraniani hanno sviluppato rapporti assai complessi. In Siria, entrambi supportano, sebbene con motivazioni ben diverse, il regime di Assad. I primi, entrando con decisione nel conflitto contro ISIS al fianco del governo e colmando di fatto un vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Un’iniziativa che ha consentito di restare stabilmente nel Medio Oriente, anche sul piano militare, nelle basi di Tartus e Latakia. I secondi, combattendo al fianco e sostenendo finanziariamente le milizie sciite e hezbollah per contrastare soprattutto la temuta espansione wahabita dello Stato Islamico e le rivolte anti-Assad che, qualora avessero trovato terreno fertile, avrebbero impedito la realizzazione della c.d. “Mezzaluna Sciita”, quell’arco di Paesi comprendente Libano, Siria, Irak e Iran. Parliamo quindi di un rapporto destinato a cementarsi sempre più e a creare nuovi equilibri intorno al Golfo e che può portare Mosca a diventare nel lungo termine arbitro e garante dei futuri equilibri del Medio Oriente, di pari passo col dissolvimento della presenza americana, in ossequio alla policy “America first”, oggi seguita da Washington. La soluzione dell’attuale crisi sul prezzo del petrolio ci dirà molte cose sul futuro della regione.
E la Cina? Il Coronavirus sta condizionando l’economia mondiale. Ad oggi, i consumi energetici cinesi si sono ridotti del 20%. Ma l’attenzione per il Medio Oriente e per il petrolio mediorientale, indispensabile per il funzionamento dell’enorme sistema industriale del Paese, è sempre più forte. Pechino mira a stabilire rapporti di cooperazione con tutti gli attori regionali, imperniando la propria azione non solo sull’azione politica, come hanno sinora fatto gli Stati Uniti, ma proponendo un modello di stabilità basata sullo sviluppo economico complessivo. A partire dal 2015, Xi Jimping ha avviato una campagna di investimenti, il “China’s Arab Policy Paper”, che si articola su tre diversi piani d’intervento, la c.d. formula “1+2+3”, ponendo la cooperazione energetica sul primo step (1°), seguita dalla realizzazione delle infrastrutture (2°) e dall’energia nucleare e la ricerca di nuove fonti energetiche (3°). Un impegno finanziario pari a 600 miliardi di dollari in 10 anni, per accordi commerciali con Arabia Saudita e Iran, 15 miliardi di investimenti in Egitto, senza tralasciare nemmeno la Palestina con 300 milioni di dollari. La Cina mira in sostanza a tenere sempre alta la stabilità in un’area fondamentale per l’alimentazione del proprio sistema industriale. Un’area essenziale per il “BRI”, la “Belt and Road Initiative”, che investe appieno la regione, con la presenza di porti “cinesi” a Gwadar (Pakistan) e Gibuti, lungo la cintura marittima, e il fondamentale nodo di Teheran per i collegamenti terrestri con l’Occidente.
Queste le ragioni che suggeriscono alla Cina di non interferire politicamente in Medio Oriente. Il rafforzamento di tensioni tra global players, come Russia e Stati Uniti, o tra attori regionali, quali Israele, Iran, Siria e Arabia Saudita con tutto in mondo arabo, danneggerebbero i piani di sviluppo cinesi e comporterebbero ingentissime perdite economiche connesse anche con la possibile riduzione dell’afflusso in patria di risorse energetiche.
Cosa attendersi per il futuro? Se si considera l’attuale crisi sul prezzo del petrolio, che peraltro condiziona globalmente soprattutto le economie dei Paesi maggiori consumatori di energia, come una parentesi della dialettica politica internazionale, l’area mediorientale e, più in particolare, la sub-regione del Golfo Persico sembra andare incontro ad una fase di “minore instabilità” rispetto al recente passato. Su questo processo di timida normalizzazione pesano ovviamente il programma nucleare iraniano e le minacce, nemmeno tanto velate, rivolte all’Occidente sulla possibilità di dotarsi dell’arma nucleare.
Il paradosso possibile consiste tuttavia in una sorta di principio dei vasi comunicanti applicato alla geo-politica. Mentre molte tensioni potranno diminuire col tempo nella zona sud del Medio Oriente, sono invece destinate ad aumentare nell’est del Mediterraneo ove la Russia ha ormai da tempo una presenza militare stabile -e senza precedenti- e dove la Turchia di Erdogan va manifestando di giorno in giorno una politica sempre più assertiva, complice un colpevole immobilismo dell’Unione Europea e dei suoi Paesi membri.
20 Marzo 2020
da affari italiani.it
Coronavirus, “Solo puntando tutto sulla ricerca l'Italia riuscirà a salvarsi ed uscirà più forte da questa crisi che durerà ancora a lungo”. Con queste parole il direttore generale della Link Campus University, Pasquale Russo, lascia poco spazio all'immaginazione: mentre l'università continua a lavorare in streaming, il Bel paese ha sotto gli occhi la soluzione per ripartire.
Direttore Russo, come sta vivendo la vostra università questa emergenza Coronavirus?
“Link Campus University, essendo una università molto tecnologica, non ha avuto grossi problemi a fare lo 'switch' e trasferirsi a casa. Il 95% del nostro personale è in smart working. Solo una decina di persone, tra cui io e il Rettore, stiamo continuando a venire a lavorare in sede. Nel frattempo abbiamo fatto sanificare tutti i locali, dagli uffici alle aule ai bagni. Inoltre, ogni settimana, inviamo a tutti i nostri studenti, che sono poco meno di 2000, un questionario in cui chiediamo loro quali sono gli aspetti positivi e negativi di questa didattica alternativa e quali sono quelli da migliorare. In base alle risposte che ci vengono date, ci riuniamo insieme ai coordinatori dei corsi di laurea via streaming, utilizzando Google Meet e studiamo delle migliorie da apportatore al sistema. Non le nascondo che fare riunioni in questa maniera è molto faticoso, ma andiamo avanti lo stesso perché il sistema sta funzionando bene”.
Ci sono casi accertati di Covid-19 tra i vostri studenti e dipendenti?
“Al momento non ci risultano casi positivi. Ne abbiamo la certezza tra i nostri dipendenti, ma non tra gli studenti. Potrebbero esserci dei casi positivi che non ci sono stati comunicati per paura, ma al momento non ci risultano. Noi siamo sempre vigili sulla situazione e chiediamo informazioni ai nostri ragazzi, poi sta a loro dirci la verità”.
Ha parlato di didattica alternativa. Come stanno procedendo le lezioni?
“La nostra università non ha voluto utilizzare un sistema telematico per svolgere le lezioni, ma ha preferito lo streaming. Docenti e studenti si collegano alla piattaforma e possono vedersi tutti in volto tramite una webcam, simulando la vera e propria esperienza fatta in classe. Nella stessa modalità stanno andando avanti i master, tutto il comparto ricerca e la nostra scuola di politica. Di quest'ultima sono stati rinviati tutti gli eventi in programma, ma stiamo pensando di ripristinarli sempre in forma streaming”.
Come si stanno trovando i docenti a stare dietri ad un computer rispetto alla vecchia cattedra?
“Devo essere onesto, c'è chi si è trovato bene fin da subito e chi ha avuto un po' di difficoltà. Abbiamo docenti giovani e molto 'smart' che non hanno avuto nessun tipo di problema a utilizzare la piattaforma, ma abbiamo anche professori più 'attempati' che hanno riscontrato un po' di difficoltà. Per questo i docenti possono svolgere le lezioni in streaming sia da casa, poiché li abbiamo forniti tutti di una rete Vpn in modo tale da preservarne la nostra e la loro privacy, che venire in università e utilizzare le nostre apparecchiature con l'aiuto di un tecnico, sempre rispettando le dovute distanze imposte dal Governo”.
E gli studenti? Rispetto alle classiche lezioni in aula, riscontrate una maggiore o una minore partecipazione?
“La partecipazione è maggiore, ma la mia preoccupazione è che possa essere legata alla novità della cosa. Ben 25 anni fà scrivevo libri sul telelavoro e so per certo che, qualora un'attività lavorativa non sia mediata da una presenza fisica, alla lunga stanca. Per questo stiamo chiedendo al nostro corpo docente di coinvolgere il più possibile gli studenti. Le lezioni infatti sono strutturate con un'ora di didattica classica e due ore di quiz, test e domande inerenti alla materia in questione in modo tale da tenere alta l'attenzione dei ragazzi. Sono certo che emergenza continuerà anche oltre il 3 aprile, per cui la nostra forza sarà quella di puntare su delle lezioni molto interattive”.
Capitolo esami?
“Anche qui stiamo seguendo le disposizioni arrivate dal Ministero e stiamo procedendo con esami in streaming, solamente orali. Per quanto riguarda il riconoscimento del candidato che si appresta a svolgere l'esame, argomento chiacchierato in questo periodo, la nostra fortuna è che avendo classi molto piccole, in stile liceo, i docenti conoscono perfettamente ogni loro studente e sono in grado di riconoscerli all'istante. Una disposizione ulteriore che abbiamo dato a docenti e studenti è quella di fare domande brevi con risposte brevi, in modo tale che i candidati non abbiano il tempo di consultare sotto la webcam appunti o libri. Lo streaming fatto in questa maniera ci è sembrata la formula migliore per garantire la regolarità degli esami”.
Stesso discorso per le lauree?
“Esattamente. La commissione si collega in streaming, qualcuno si trova in università e qualcuno da casa ad ascoltare la relazione del candidato. Non abbiamo fermato nulla”.
Con tutte queste novità sperimentate in questo periodo, il mondo universitario può dire di uscirne fortificato?
“È quello che dico dal primo giorno. Io sono convinto che quando sarà finito il Coronavirus, oltre al mondo universitario, anche l'Italia sarà migliore. Ne usciremo più forti, soprattutto quelli che hanno colto subito la possibilità di cambiare e non si sono fatti prendere dal panico. Come diceva Darwin 'Non sopravvive il più forte, ma quello che si adatta più velocemente', ma ci vorrà ancora parecchio tempo. L'Italia deve approfittarne per cambiare, per diventare più aperta verso il resto del mondo. Dobbiamo puntare sulla ricerca, è solo così che si può far tornare l'Italia tra le leadership mondiali. Bisogna far nascere un nuovo Risorgimento, puntando sulle 'research university'. Noi abbiamo un dipartimento di ricerca molto forte e apprezzato, questo perché nonostante siamo un'università privata che non riceve fondi dallo Stato, attraverso le rette paghiamo i professori senza incassare gli utili, ma li investiamo nella ricerca. Se ci riusciamo noi nel nostro piccolo, non vedo perché non dovrebbero riuscirci anche realtà più grandi”.
11 MAGGIO 2018
Il 17 maggio dalle ore 10 alle 13 si terrà l'evento "Next challenges for humans and things", un incontro aperto sulle sfide del futuro legate all'innovazione e alle nuove tecnologie.
L'evento, promosso dal centro di ricerca Dasic, si inserisce all'interno del calendario di appuntamenti in occasione della European Maker Week.
11 Marzo 2020
da nuovosud.it
Una laurea a Siracusa in tempo di coronavirus. E' stata celebrata questo pomeriggio nella Sala Verde di Palazzo Vermexio. In video conferenza con l'Università Link Campus University di Roma, ha conseguito il titolo di dottore in Economia aziendale, discutendo la tesi sulle 'Imprese operanti nel settore delle spedizioni marittime', Andrea Mauceri Boccadifuoco, 24 anni, siracusano doc. Solo i familiari hanno potuto assistere alla laurea di Andrea, mentre gli amici sono rimasti davanti al portone di palazzo Vermexio. Una giornata importante e indimenticabile per il neo laureato che ha rinviato i festeggiamenti a causa dell'emergenza sanitaria del Covid 19.
03 Marzo 2020
Eurilink, la Casa Editrice della Link Campus University, firma l’appello degli Editori AIE
Gli editori chiedono tempo fino a settembre per l’entrata in vigore delle nuove norme della legge per il libro, tanto più alla luce dell’impatto dell’emergenza Coronavirus. Di seguito il testo.
Come editori riuniti nell’Associazione Italiana degli Editori, da oltre 150 anni la nostra casa comune, vogliamo rivolgere un appello al governo a poche settimane dall’approvazione definitiva in Senato, lo scorso 5 febbraio, della legge sulla promozione e il sostegno della lettura. Si tratta di un provvedimento rispetto al quale non abbiamo nascosto le nostre critiche, preoccupati per l’impatto che la riduzione degli sconti potrebbe avere sui lettori, ma che oggi è legge e di cui tutti condividiamo senza riserve gli obiettivi: far crescere la cultura del libro, allargare il pubblico dei lettori e quindi, in definitiva, alimentare lo sviluppo democratico del Paese. Daremo con convinzione e in tutte le forme possibili, a partire dalle scuole, il nostro contributo affinché questi obiettivi possano essere raggiunti.
Nel garantire questo impegno, segnaliamo la necessità di consentire alle nostre imprese, di adeguarsi e prepararsi per tempo al nuovo assetto del mercato, evitando inefficienze, sprechi e doppie lavorazioni che possono danneggiare editori, rivenditori, autori e lettori.
Questo è vero tanto più dopo l’affacciarsi dell’emergenza Coronavirus nel nostro Paese che obbliga il mondo del libro ad affrontare criticità inedite. Le aziende editoriali devono essere messe in condizione di conoscere al più presto la decorrenza delle nuove norme, che dovrebbero entrare in vigore non prima di settembre per consentire a tutta la filiera del libro di affrontare una difficile situazione.
Il 24 e 25 maggio l'Università degli studi Link Campus University ospiterà la terza edizione di #ProteoBrains, l’evento annuale organizzato dall’Osservatorio “Generazione Proteo”. Una “due giorni” in cui i protagonisti saranno le centinaia di studenti provenienti da istituti scolastici di tutta Italia, che avranno la possibilità di dare voce alle loro idee, confrontandosi tra loro e con autorevoli esponenti della società civile su temi di grande attualità.
Quest’anno, in particolare, i lavori di #ProteoBrains saranno aperti dalla conferenza stampa in cui sarà presentato il Libro Bianco “Generazione Proteo”, a cura di Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio “Generazione Proteo”, in cui sono raccolti 5 anni di attività di ricerca dell’Osservatorio nonché il racconto dell’esperienza di #ProteoBrains. Nel corso della conferenza stampa saranno altresì presentati i risultati del 6° Rapporto di ricerca realizzato dall’Osservatorio “Generazione Proteo”, che a tal fine ha intervistato circa 20mila studenti (17-19enni), in rappresentanza dell’intero territorio nazionale.
Alla conferenza stampa, trasmessa in diretta Facebook e aperta dal Presidente della Link Campus University Vincenzo Scotti, parteciperanno, tra gli altri, Giovanni Alfredo Barbieri, responsabile della Direzione centrale per lo sviluppo dell’informazione e della cultura statistica dell’ISTAT, il Direttore generale dell’Agenzia Nazionale Giovani (ANG) Giacomo D’Arrigo, Paolo De Nardis, professore ordinario di Sociologia presso Sapienza-Università di Roma, mons. Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma, Marco Mancini, Direttore del Dipartimento per la formazione superiore e per la ricerca del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Monica Nanetti, dirigente scolastico dell’ITIS E. Fermi di Roma e presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio “Generazione Proteo”. La conferenza stampa sarà moderata da Piero Schiavazzi.
A seguire, nel pomeriggio del 24 maggio prenderanno avvio i lavori dei tavoli tematici, che in questa terza edizione di #ProteoBrains si focalizzeranno non su “argomenti” bensì su “idee” – Partecipazione, Impegno, Tempo, Relazioni, Ostacoli, Reazioni, Talento, Certezze, Paure, Speranze – cui toccherà ai ragazzi “dare forma” con l’aiuto dei docenti della Link Campus University e di dieci special guest, espressione della cultura dell’immagine: i fotografi Lucia Baldini, Federica Sasso e Frida Miranda Rodriguez, lo street artist SMOE, il game designer Giacomo Masi, il visual practitioner Marco Serra, la pittrice Lidia Bachis, lo scultore Carmine Leta, il direttore del Museo della Cattedrale di Ferrara Giovanni Sassu, il regista Silvio Peroni.
I risultati dei lavori dei tavoli tematici e le “istantanee” che danno forma alle 10 idee di #ProteoBrains saranno presentati nella sessione plenaria conclusiva, in programma a partire dalle ore 11 del 25 maggio, moderata dalla giornalista Rai Annalisa Bruchi.
Scarica la locandina
Federica Sasso
Fotografa
Lidia Bachis
Pittrice
Marco Serra
Visual Practitioner
Giovanni Sassu
Direttore Museo Ferrara
Silvio Peroni
Regista
Frida Miranda Rodriguez
Fotografa
SMOE
Street Artist
Giacomo Masi
game Designer - Sceneggiatore
Carmine Leta
Scultore
Lucia Baldini
Fotografa di Scena
03 Marzo 2020
Di Pasquale Russo da Affari Italiani
Il COVID-19 è il Cigno Nero per l’economia mondiale basta guardare le previsioni riportate nella. fig. 1. Il Mondo sarebbe cresciuto del 3,4% soprattutto dovuto alla crescita dell’Asia e dell’Africa. Nessuno se l’aspettava, nessuno può oggi prevedere l’impatto che avrà. A mia opinione analizzando quanto affermato dai più importanti Think Tank, valutando lo stato da cui si partiva, credo che l’Italia avrà un impatto superiore al 5% del PIL pari ad una perdita di 70/80 MLD e provo a dimostrarlo.
Partiamo con un po’ di dati pubblicati negli ultimi tempi.
Per comprendere bene l’impatto sull’economia italiana della crisi causata dal coronavirus covid-19 è necessario ricordare da dove partiamo, rispetto l’anno ante-crisi (2007) dobbiamo ancora recuperare 4,2 punti percentuali di PIL e ben 19,2 punti di investimenti. A distanza di 10 anni (2009) inoltre, i consumi delle famiglie sono inferiori di 1,9 punti e il reddito disponibile, sempre delle famiglie, è in calo di 6,8. In materia di lavoro, l’occupazione è aumentata dell’1,7 per cento, mentre il tasso di disoccupazione è cresciuto dell’84,4 per cento. Se, infatti, nel 2007 il tasso di coloro che era alla ricerca di un’occupazione si attestava al 6,1 per cento, nel 2018 è salito al 10,5 per cento (dato ancora ufficioso). Invece l’export a distanza di un decennio è cresciuto con le vendite all’estero del + 13,9 per cento (fonte ISTAT)
Poche settimane fa l’ISTAT affermava che il PIL a Dicembre 2019. era stato del -2,7% su mese e -4,3% su anno, comunque il calo peggiore da un anno all’altro e molto al di sotto delle attese degli economisti. Ma soprattutto nell’intero 2019 la produzione era tornata a scendere (-1,3%) dopo 5 anni con -13,9% per l’auto, dato peggiore dal 2012. L’ISTAT poche settimane fa pronosticava che sarebbe stata difficile un’inversione di tendenza del PIL nel primo trimestre 2020.
Infine bisogna fare riferimento che sempre secondo quanto riporta l’ISTAT, il PIL dell’Italia nel 2017 – ultimo anno per cui ci sono i dati ripartiti per regioni – la Lombardia ha contribuito per 383,2 miliardi, il Veneto per 162,5 miliardi, l’Emilia-Romagna per 157,2 miliardi. Dunque, sommando i dati delle tre regioni, risulta un contributo al PIL nazionale pari a circa 703 miliardi di euro. In percentuale rispetto al PIL si tratta del 40,1%, Insomma le tre Regioni del Nord Italia sono come la. la Cina la Corea e l’India per il Mondo.
Infine la Confesercenti stima una perdita di circa 3,9 miliardi di consumi se la crisi sarà limitata nel tempo e spiega che avrà conseguenze pesanti sul tessuto imprenditoriale: potrebbe portare alla chiusura di circa 15 mila piccole imprese in tutti i settori, dalla ristorazione alla ricettività, passando per il settore distributivo e i servizi.
Secondo Bank of America la crescita economica globale nel 2020 sarà probabilmente la peggiore dopo la Grande Recessione a causa diversi eventi a cominciare dal coronavirus ma anche altri quali le elezioni presidenziali e la conseguente incertezza per un cambio di politica economica che porterà gli investitori ad essere conservativi.
Sempre secondo Bank of America La crescita del prodotto interno lordo in tutto il mondo dovrebbe rallentare al 2,8% per il 2020 Cina compresa mentre sarebbe del 2,2% senza la Cina.
Infine Bank of America afferma che l’economia mondiale è molto debole per affrontare una crisi cosi forte e lascia intendere che i risultati potranno essere peggiori di quelli previsti. Stiamo affrontando la prima crisi della supply chain mondiale.
Per l’Italia proviamo a vedere quanto vale il settore del Turismo con la fig. 2 di fonte ISTAT riferito al 2015, guardando come il turismo impatta su segmenti di economia, dalle agenzie turistiche ai ristoranti, ai voli aerei, ecc. ecc.
Ora si può dedurre che la crisi del COVID -19, per l’Italia impatta su alcune principali settori di attività quali: Turismo, Commercio Internazionale, Industria, Agroalimentare, Fashion.
TURISMO
In Italia, il segmento del turismo vale in totale 146 miliardi di euro: una cifra pari al 12% del Pil, con 216mila esercizi ricettivi e 12mila agenzie di viaggio. Al momento Napoli ha perso 15mila visitatori e attende una disdetta del 30% delle prenotazioni sotto Pasqua, a fronte del -40% subito da Venezia dopo la cancellazione del Carnevale e il crollo del 60–70% delle prenotazioni incassato dal Lazio anche nei mesi dopo la festività. Milano, sul “debooking” ha picchi dell’80%, mentre la riviera romagnola ha cali record per la stagione estiva. Una stima «prudenziale» di Federturismo, l’associazione di categoria, stima una perdita di 5 miliardi di euro su scala nazionale.
INDUSTRIA
Quasi 6.000 i lavoratori metalmeccanici lombardi sono fermi la maggior parte sono dipendenti di imprese della “zona rossa”, ma sono fortemente interessate anche le aziende industriali di Bergamo, Milano e Cremona. A fine 2019 erano 17.288 i lavoratori coinvolti dalla cassa integrazione ordinaria, straordinaria e licenziamenti, in crescita del 79% rispetto allo stesso periodo del 2018, non potrà che peggiorare questo dato.
COMMERCIO INTERNAZIONALE
Le vendite all’estero delle tre Regioni. valgono un totale di 138 miliardi di euro a fronte di un volume complessivo di esportazioni pari a 465 miliardi di euro.
AGROALIMENTARE
Una stima di Coldiretti su dati ISTAT ha rilevato un calo dell’11,9% delle esportazioni di prodotti italiani in Cina.
FASHION
La crisi COVID-19 ha messo in chiara difficoltà la moda italiana. La Camera della Moda prevede perdite pari all’1,8% all’inizio di febbraio 2020, ora i danni rischiano di essere molto più alti.
Infine bisogna mettere in conto i consumi interni cadranno per due motivi, il primo dovuto al cambiamento dei comportamenti dei singoli cittadini i quali oltre a ridurre i consumi per motivi sanitari, li ridurranno anche per incertezze legate al futuro. Servirebbe uno ricerca di economia cognitiva per prevedere cosa potrà accadere. Per fortuna l’Italia è ancora un’economia fortemente manifatturiera, perché cosa succede ad un’economia di servizi se le persone non possono viaggiare in sicurezza, fare shopping ed andare al lavoro nessuno lo sa.
Il secondo per l’impatto della crisi mondiale sulla già debole economia italiana e sulle famiglie basso reddito soprattutto del Sud Italia che vedranno sparire anche molti lavori stagionali.
Il Cigno nero del COVID-19 sta ancora circolando nel mondo, se attacca gli Stati Uniti, la prima economia del mondo, sarà davvero brutto. Il sistema sanitario pubblico italiano sta dimostrando che nonostante il disastro provocato dalle leggi finanziarie degli ultimi dieci anni è quello che ci sta salvando. Negli Stati Uniti in assenza di qualsiasi tutela sanitaria universale e in assenza di copertura del congedo per malattia, temo che potrebbe accadere una catastrofe. Si pensi che un cittadino della California che è andato a farsi un test perché aveva il timore di aver contratto il coronavirus, ha pagato 3270 dollari. Reputo che non molti andranno a farsi visitare.
I modi e gli interventi per superare questa crisi e tutelare le persone, saranno la cartina tornasole delle società umane e quelle disumane, bisogna impedire un crollo della domanda e se non si metteranno a disposizione delle imprese e dei consumatori almeno 30 miliardi di euro, (53 mld è il debito che la PA ha verso le imprese)l’Italia non ce la farà, sembra una previsione fosca, invece è una pre-occupazione, cioè per occuparsi prima che problema diventi irrisolvibile.
27 Febbraio 2020
da Affari Italiani
L'incontro “Che futuro ha questa Europa?”, organizzato il 24 febbraio dalla Scuola Universitaria per la Formazione Politica della Link Campus University
Si è tenuto nel pomeriggio di lunedì 24 febbraio sul tema “Che futuro ha questa Europa?”, organizzato da Polis, la Scuola Universitaria per la Formazione Politica della Link Campus University, fondata e diretta da Paola Brienza e di cui è Vicepresidente un collaboratore del nostro giornale, Andrea Catarci.
Il Casale di San Pio V, quello in cui nel 1571 il pontefice ebbe la visione della vittoria di Lepanto contro le truppe dell’impero Ottomano, oggi è la sede dell’Università degli studi Link Campus University. All’interno c’è un piccolo gioiello, quell’Antica Biblioteca che in passato è stata scuola di metodo per educatori di persone non vedenti e centro di istruzione per ciechi e sordomuti. In essa sono custoditi e consultabili i testi originali in braille e vengono realizzati incontri per gli studenti e dibattiti pubblici come quello che si è tenuto appunto lunedì 24 febbraio.
Per oltre due ore, guidati dalla regia sapiente del Vicedirettore del Tg1 Angelo Polimeno Bottai, si sono susseguiti gli interventi di sei relatori d’eccezione: gli Eurodeputati Dino Giarrusso del M5s e Antonio Maria Rinaldi della Lega, il Senatore Giovanbattista Fazzolari di FdI, i Deputati Cristina Rossello di FI, Stefano Fassina di LeU e Piero de Luca del Pd.
Sull’allarme legato al coronavirus e sui commenti alle misure che l’Italia e l’Europa hanno adottato per arginarne la diffusione, inevitabile incipit proposto dall’agenda politica, si sono soffermati in particolare Cristina Rossello e Dino Giarrusso, rimarcando la solidità del nostro sistema sanitario e l’importanza di attuare misure decise senza ingenerare panico eccessivo e controproducente.
Sul bilancio dell'Unione europea per il settennato 2021-2027, che va approvato entro la fine del 2020, hanno posto attenzione Stefano Fassina e Antonio Maria Rinaldi, ricordando come il budget annuale equivalga a una cifra di poco superiore all’1% della ricchezza complessiva dell’UE.
Per Rinaldi, l’Italia è stata abbandonata al proprio destino con riferimento ai flussi migratori, mentre Fassina ha segnalato un duplice rischio da scongiurare, quello di continuare a produrre deregulation in materia di lavoro e reddito, nonché quello di indebolire ulteriormente la costruzione europea qualora si proceda all’allargamento ad altri Stati.
La necessità di ripensamento generale del processo di unificazione, a seguito dello sconvolgimento determinato dalla Brexit che si aggiunge alla storica “anomalia tedesca”, è risuonata nelle parole di Giovanbattista Fazzolari, che ha anche rivendicato il pragmatismo di un approccio di tipo confederale: nella consapevolezza della penalizzazione subita dall’Italia per i prevalenti interessi franco-tedeschi e delle difficoltà insormontabili incontrate nel passaggio da un’Europa monetaria a un’Europa politica e dei popoli, il Senatore ritiene più realistico concentrare la collaborazione sulle tematiche più sentite, a partire dalla difesa e dalla sicurezza, lasciando altre sfere alla dimensione nazionale. Di parere sostanzialmente diverso si è detto Piero De Luca che, pur ammettendo la fase di difficoltà attraversata dalla costruzione continentale, ha sostenuto la tesi dell’urgenza di rafforzare in fretta l’Unione in un’ottica federalista ampliandone il campo d’azione, per poter reggere l’urto della competizione globale con politiche sociali e fiscali maggiormente condivise e incisive. Sul tema sono tornati un po’ tutti nel secondo giro di interventi, in particolare Fassina e Fazzolari, individuando nel contrasto dei cosiddetti “stati canaglia”, ossia quelli dei “paradisi fiscali”, e del dumping sociale i nodi fondamentali e più intricati da sciogliere.
In conclusione si può dire che nell’incontro si sono palesate in maniera evidente le diverse impostazioni culturali delle forze politiche nazionali rispetto all’Unione. Oltre l’abito ideologico, però, affrontate un po’ meno risultano essere le ricette proposte, il “come” agire per cambiare lo status quo, probabilmente anche per il limitato tempo a disposizione.
Guarda il servizio del TG2 andato in onda il 24 febbraio 2020
Guarda tutti gli interventi sul Canale Youtube
17 MAGGIO 2018
E’ iniziato il conto alla rovescia per i finalisti della sesta edizione del piu’ grande concorso didattico che si svolge nelle medie superiori italiane High School Game. Organizzato da Planet Multimedia, senza alcun onere per le scuole, il concorso anche quest’anno ha coinvolto oltre 100.000 studenti delle quarte e quinte classi di 400 istituti di tutte le Regioni in un’appassionante gara che si conclude il 21 maggio nel porto di Civitavecchia a bordo della Cruise Roma di Grimaldi Lines, da sempre vicino al concorso.
Il 19 aprile, presso l'Università degli studi Link Campus University, si è tenuta la semifinale del Lazio. Guarda le foto qui: https://www.facebook.com/pg/highschoolgame/photos/?tab=albums
Il 20 e il 21 maggio, si terrà la Finale Nazionale sulla Grimaldi Lines con 600 studenti finalisti, accompagnati dai loro docenti, che si sfideranno su una vasta tematica che comprende non solo gli argomenti trattati nei programmi scolastici ma anche temi di grande attualità e importanza formativa, come la sicurezza stradale, i cambiamenti climatici, l’educazione alimentare, il business english e il contrasto al cyberbullismo.
Per l'occasione lo staff dell'Ufficio Orientamento della Link Campus University sarà sulla nave da Crociera come partner dell'iniziativa a sostenere gli studenti e premiando i più meritevoli con Borse di studio per l'iscrizione alla nostra Università.
High School Game utilizza tecnologie multimediali e contesti coinvolgenti per realizzare eventi didattici all’insegna dello slogan: imparare divertendosi.
La validità di questo metodo è stata oggetto di un’approfondita ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma che lo ha definito “efficace, coinvolgente, virtuoso”.
Gli studenti ricevono sull’APP High School Game documenti, testi e presentazioni per prepararsi alle sfide che si volgono inizialmente sull’APP. Nelle gare dal vivo gli studenti, muniti di telecomando, davanti a un maxischermo devono rispondere a domande a risposta multipla.
Un sofisticato software elabora in tempo reale le risposte e le statistiche. In ogni Istituto vengono selezionate le migliori 3 quarte classi e le migliori 3 quinte classi che poi gareggiano con altre classi simili di altre scuole nelle semifinali regionali in vista della sfida finale.
Per i vincitori sono previste borse di studio, corsi di lingua in Italia e all’estero, esperienze significative, come l’incontro con il Papa, e un viaggio Barcellona. I partner scientifici di High School Game sono le università di Napoli, Genova, Cagliari, Foggia, Lumsa, IULM, Link Campus, Laba, Uninettuno, Ucam e l’Unical.
I concorsi tematici sono realizzati in collaborazione con istituzioni prestigiose come Banca Mondiale, Connect4Climate e Polizia di Stato, e con partner come Shenker e L’Angelica.