17 Luglio 2018
di Gabriele Natalizia Coordinatore e docente del Corso di Laurea Magistrale in Studi Strategici e Scienze Diplomatiche
È realmente il mondo a voler vedere gli Stati Uniti e la Federazione Russia che vanno d’accordo? Sì, secondo quanto dichiarato da Donald Trump all’apertura del Summit di Helsinki con Vladimir Putin. Tuttavia, la Guerra fredda è finita e l’opinione pubblica internazionale non sta più col fiato sospeso per i rapporti tra la Casa Bianca e il Cremlino. Soprattutto da quando è diventato chiaro che le armi nucleari rappresentano uno strumento di deterrenza, piuttosto che uno strumento offensivo.
Occorre ricordare, inoltre, che sono numerosi gli Stati a non vedere di buon occhio l’ipotesi di un riavvicinamento tra Washington e Mosca. Solo per citare i casi più eclatanti, sicuramente il Regno Unito, i cui rapporti con la Russia hanno toccato il minimo storico dai tempi del Grande gioco. E anche quello di quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale, che chiedono alla NATO un ulteriore rafforzamento della sua presenza sul fianco Est alimentando il tradizionale senso di accerchiamento di Mosca. Tanto meno la questione è vista con favore dall’Ucraina e dalla Georgia, che hanno paura di essere definitivamente abbandonate tra le braccia del Cremlino. Sulla stessa lunghezza d’onda, ma per ragioni opposte, sono la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e l’Iran. Entrambe hanno bisogno della Russia per bilanciare il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati nei rispettivi quadranti regionali, così come per favorire la tanto agognata trasformazione in senso multipolare di un sistema unipolare più debole che in passato. Infine, anche la Corea del Nord è uno spettatore interessato a rapporti tesi tra Washington e Mosca, per poter contare sul pieno appoggio di quest’ultima, con cui vanta legami storici, sul tema del disarmo nucleare.
Viceversa, guardano con favore a uno stemperamento delle tensioni tra i due ex nemici della Guerra fredda molti Stati dell’Europa occidentale (Italia in testa, seguita dalla Germania e dalla Francia), meno interessati a investire quote crescenti dei loro budget nazionali in difesa rispetto ai loro partner dell’Europa orientale, e molto sensibili ai rapporti energetici con la Russia. Israele e Arabia Saudita, dal canto loro, vorrebbero allentare l’alleanza russo-iraniana in Medio Oriente, mentre India, Corea del Sud, Taiwan e Giappone (più moderatamente) sostengono un miglioramento dei rapporti tra la Casa Bianca e il Cremlino affinché la prima concentri per quanto possibile i suoi sforzi (diplomatici ed economici) al contenimento della potenza cinese e la seconda non ne favorisca l’azione.
La Russia al momento ha un approccio equilibrato al tema dei rapporti con gli Stati Uniti. È interessata a compiere passi avanti, resi sicuramente più facili dall’approccio realista dell’Amministrazione Trump rispetto a quanto ci si potesse aspettare da Hillary Clinton. Senza dimenticare, però, che i candidati divenuti presidenti cambiano spesso il loro approccio ai temi caldi dell’agenda politica. Dalla prospettiva di Mosca il riavvicinamento con Washington non è da escludere, perché a lungo andare i suoi interessi rischiano di confliggere con quelli di Pechino (a partire dalla Belt and Road Initiative) e di Teheran (in particolare con la sua ambizione egemonica sul Medio Oriente). Tuttavia, questa ipotesi diventerà plausibile solo nel momento in cui gli Stati Uniti saranno concretamente disponibili a riconoscere alla Russia lo status di grande potenza. Questo significa un rapporto paritario tra le due potenze, la rimozione delle sanzioni, il riconoscimento del primato di Mosca sullo Spazio post-sovietico e l’accettazione di una sua limitata influenza nell’area del Mediterraneo. Si tratta ovviamente di un processo di medio termine, che non può essere definito al Summit di Helsinki. Se questo non avverrà, la Russia potrà continuare ad agire da potenza revisionista, insidiando gli Stati Uniti con un’ulteriore saldatura dei suoi rapporti con Cina e Iran.
La posizione degli Stati Uniti sembra più complessa. Sin dalla fine della Guerra fredda, i presidenti americani hanno avuto un comune obiettivo: preservare quanto più a lungo possibile il “momento” unipolare. Clinton, Bush e Obama sono stati tutti concordi sul fatto che la Russia potesse figurare tra le possibili minacce alla tenuta dell’ordine liberale, ma che, se democratizzata e integrata nell’economia mondiale, si sarebbe potuta trasformare in un suo pilastro. A tal scopo, tutti i presidenti americani hanno provato nel corso del loro primo mandato a sperimentare un approccio cooperativo con il Cremlino. La presidenza Clinton è ricordata per la Russia First Strategy, quella Bush per il tentativo di stabilire una partnership con Mosca sulla base della guerra globale al terrore, quella Obama, infine, per il Russian Reset. I tre tentativi, tuttavia, sono falliti di fronte al riemergere di una dinamica competitiva, generata da interessi di medio termine contrastanti e/o a dal declino democratico della Russia. Su questo tema, dunque, Trump si trova nel solco dei suoi predecessori. Anzi, probabilmente per scongiurare la possibilità di impeachment legata al Russiagate, ha assunto ancor più velocemente di loro un atteggiamento competitivo nei confronti di Mosca. Il vero elemento di discontinuità, soprattutto con le presidenze Clinton e Bush, è legato ai parziali mutamenti avvenuti all’interno del sistema internazionale con cui l’attuale presidente americano si sta confrontando.
Il più importante è il ruolo sempre più significativo della RPC. La sua potenza è talmente in aumento che, come denunciato dalla National Security Strategy 2017, può essere ormai ufficialmente considerata una potenza revisionista. L’Amministrazione Trump è consapevole delle criticità che affliggono le relazioni russo-cinesi, così come del declino di numerosi indicatori di potenza della Russia (anzitutto in quelli demografico ed economico). Queste considerazioni inducono a pensare che Mosca non sia convinta sino in fondo della necessità di mettere in crisi l’ordine unipolare e che, se “ingaggiata” su basi nuove, potrebbe mutare la sua postura nei suoi confronti. Washington, dal canto suo, deve evitare quell’effetto di sovra-estensione tra impegni e risorse, reso plausibile dalla crisi finanziaria del 2007-2008, che potrebbe derivare dal confronto con più rivali in diversi quadranti geopolitici. Stemperare l’inutile - almeno per il momento - rivalità con la Russia permetterebbe agli Stati Uniti di ostacolare l’ascesa cinese prima che sia troppo tardi. Per tale ragione, senza che questo tema figuri tra i dossier trattati ufficialmente a Helsinki, Trump ha anticipato che tra le diverse cose ci cui parlerà con Putin ci sarà «l’amico Xi».
15 Giugno 2018
di Gabriele Natalizia - 14 giugno 2018
Non solo. Attraverso lo sport un Paese può lanciare segnali significativi agli altri attori della politica internazionale. Gli eventi sportivi incentivano lo spirito di identificazione tra il singolo cittadino e la comunità nazionale, rafforzandone al tempo stesso la coesione interna di quest'ultima. Affermano la perseveranza di un Paese nel superamento degli ostacoli e nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. Dimostrano l’efficienza di un modello politico economico e sociale nel conseguire vittorie in qualsiasi campo e nel generare “esempi” da imitare sia all’interno dei propri confini nazionali che all’estero.
Pertanto, al di là dell’esito finale di Russia 2018, è interessante analizzare rapidamente la presenza, così come l’assenza, delle principali potenze politiche dal torneo che sta per iniziare. L’impatto mediatico dei mondiali, d’altronde, è secondo solo a quello delle Olimpiadi. Lo sanno bene al Cremlino, dove l’evento contribuisce a spezzare l’isolamento politico da parte occidentale, ma anche in Qatar, un Paese sempre più attivo sullo scacchiere internazionale che ospiterà l’edizione 2022.
Balza subito agli occhi l’assenza della superpotenza americana, che storicamente non si trova troppo a suo agio sul rettangolo verde. Proprio di queste ore, tuttavia, è la notizia che il torneo del 2026 sarà organizzato da Stati Uniti, Canada (non qualificata a Russia 2018) e Messico (qualificato). Questa formula sembra contraddire la volontà di Trump di rivedere le basi del North American Free Trade Agreement, che dal 1994 lega i tre Paesi. A completare il quadro delle nazionali che sbarcano in Russia dal “cortile di casa” americano: Brasile, Argentina, Costa Rica, Colombia, Uruguay e Panama (alla prima qualificazione).
Passando alle due grandi potenze revisioniste, così come definite dall’Amministrazione Trump nella NSS 2017, la Russia è qualificata quale Paese organizzatore mentre la Cina è fuori dalla competizione. Al contrario sono in gioco Australia, Giappone e Corea del Sud, la “corona di perle” americana nel quadrante Indo-Pacifico. Viceversa, non risultano qualificate né India né Pakistan, che nonostante l’importante ruolo politico non hanno mai avuto una tradizione calcistica. Il gruppo B vede la presenza dell’Iran, il principale sfidante degli interessi americani in Medio Oriente, bilanciata da quella dell’Arabia Saudita, l’alleato ritrovato degli Stati Uniti nell’area insieme a Israele (non qualificato). Dal continente africano giungono in Russia tre squadre nordafricane e due dell’area sub-sahariana. L’Egitto sempre più allineato alla Russia, la Tunisia giudicata da qualche anno come l’unica democrazia funzionante del mondo arabo e il Marocco da sempre vicino alle posizioni occidentali. A completare il quadro, la Nigeria e il Senegal. La rappresentanza del continente europeo vede solo tre squadre non-NATO: la neutrale Svizzera, la Svezia dove si sta parlando della possibilità di un ingresso nel Patto Atlantico e della reintroduzione della leva obbligatoria in funzione anti-russa e la Serbia storicamente vicina a Mosca. Tra le squadre dei Paesi-UE, invece, è netta la prevalenza di quelli entrati prima del 2004. Solo l’Ungheria e la Croazia figurano tra i Paesi post-comunisti e ora membri dell’UE presenti a Russia 2018. Tra le escluse di rilievo figura anche la Turchia di Erdogan.
Infine, tre grandi assenze. La prima è quella della Turchia di Erdogan, sempre più attiva e rilevante per gli equilibri politici mondiali ma non dotata di altrettanta “effettività” sul campo di calcio. Più dolorosa la mancata qualificazione dell’Italia, insieme ai Paesi Bassi. Si tratta dei due Stati che si sono alternati nel biennio 2017-2018 nel seggio condiviso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un suggerimento per Roma: in virtù del nostro sostegno al budget ONU e della presenza assicurata alle missioni dei caschi blu se non riuscissimo a ottenere nei prossimi anni un seggio al CdS del Palazzo di Vetro, facciamoci almeno assicurare un posto a Qatar 2022!
Nel frattempo speriamo che i #Mondiali2018 ci regalino tanti momenti di bel calcio!
Pubblicato in collaborazione con il Centro Studi Geopolitica.info
24 LUGLIO 2018
Dal 15 al 20 luglio si è svolta a Las Vegas "Human Computer Interaction International 2018", un'importante conferenza che riunisce centinaia di ricercatori da tutto il mondo intorno al tema delle possibilità e delle sfide relative all'interazione tra l'uomo e le nuove tecnologie di comunicazione.
Quest'anno il DASIC ha contribuito all'organizzazione di una delle sessioni della conferenza, dal titolo "Quality in Interaction", durante la quale sono stati presentati alcuni lavori applicativi e teorici legati a nuovi approcci che mirano a migliorare e valutare la relazione tra l'uomo e i prodotti (fisici e digitali) con i quali interagisce.
La sessione è stata moderata da Antonio Opromolla, assegnista di ricerca del DASIC. Nel corso della conferenza sono stati presentati due paper scritti dai ricercatori del centro.
Il primo paper dal titolo "Chatbot in a Campus Environment: Design of LiSA, a Virtual Assistant to Help Students in their University Life" e scritto da Massimiliano Dibitonto, Katarzyna Leszczynska, Federica Tazzi e Carlo Maria Medaglia è stato presentato da Massimiliano Dibitonto. Si tratta di una ricerca sull'utilizzo dei chatbot in ambito universitario, in particolare focalizzato sull'applicazione e sulla relativa sperimentazione svolta proprio all'interno della Link Campus.
Il secondo paper dal titolo "Improving Quality of Interaction with the Mobility Services through the Gamification Approach" e scritto da Valentina Volpi, Giovanni Andrea Parente, Guido Pifferi, Antonio Opromolla e Carlo Maria Medaglia è stato presentato da Antonio Opromolla. Si tratta di una ricerca sulla possibile applicazione degli elementi di gamification ai servizi di mobilità, riflettendo sulle fasi del viaggio in cui potrebbero essere applicati elementi di gioco e sui possibili dispositivi da impiegare.
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12 Giugno 2018
Da https://cryptonomist.ch/it
Al recente convegno organizzato dal SUERF presso il centro BAFFI CAREFINdell’Università Commerciale Luigi Bocconi, ha avuto un certo peso l’intervento di Fabio Panetta, Vice Direttore Generale della Banca d’Italia sul tema delle Central Bank Digital Currency, cioè le valute digitali emesse dalle banche centrali, oggetto di studio da parte di diversi istituti nazionali.
Panetta ha posto in luce come le CBDC possano essere emesse da parte delle Banche centrali, anche se con alcune cautele per quanto riguarda il grado di tutela della privacy e la soluzione dei problemi tecnici riguardanti la sicurezza dello strumento.
Ha però anche sottolineato che la loro emissione non è certo all’ordine del giorno in Banca d’Italia.
Su questo tema abbiamo intervistato il Professor Antonio Maria Rinaldi, docente di Finanza Aziendale presso l’università “G. D’Annunzio” di Pescara e di Organizzazione dei Processi Economici presso la Link Campus University di Roma.
Professor Rinaldi, cosa ne pensa della posizione di Banca d’Italia che sembra escludere, sicuramente a breve, l’emissione di CBDC?
Se leggiamo con attenzione l’intervento del Vice Direttore, Fabio Panetta, comprendiamo chiaramente le perplessità di Banca d’Italia: si teme di togliere una fonte di reddito rilevante per il sistema creditizio. In una situazione in cui il margine d’intermediazione del sistema bancario è ai minimi a causa della politica monetaria della BCE, le commissioni derivanti dalla gestione dei sistemi di pagamento sono un elemento essenziale nei bilanci delle banche. L’introduzione di una CBDC, che permetterebbe transazioni monetarie dirette a costi minimi, se non pari a zero, cancellerebbe questa ricca fonte di reddito e quindi potrebbe mettere ulteriormente in crisi le nostre banche. Peccato che questi redditi siano garantiti dal sistema economico nel suo complesso, cioè dalle aziende e dalle famiglie, che pagano questi costi in prima persona, per cui, in questo modo, si perpetua una rendita di posizione del sistema bancario e non si incentiva l’efficienza.
Eppure nello scritto di Banca d’Italia si ammette che l’introduzione delle CBDC potrebbe avere un effetto positivo, soprattutto verso chi è marginalizzato dal sistema bancario…
Certo, come riconosce il dott. Panetta, ad oggi una fetta importante della popolazione italiana è esclusa dal sistema bancario ma potrebbe avere accesso ai sistemi di pagamento elettronico. Si tratta di una fetta non secondaria, pari al 7% delle famiglie, 1,8 milioni di persone, che non utilizzano i conti bancari spesso non per scelta volontaria, ma perché esclusi da vicende economiche personali. Penso a tutti coloro che hanno segnalazioni presso il CRIF, tali da non permettere di accendere un conto corrente. La Banca d’Italia preferisce tutelare una fonte di reddito per un sistema comunque obsoleto, piuttosto che fornire uno strumento di pagamento a chi ne avrebbe bisogno.
Nel suo intervento la Banca d’Italia mette pure in evidenza le storture che una criptovaluta potrebbe generare nella gestione della politica monetaria. Cosa ne pensa?
E’ tutta una questione legata alla distribuzione e alla gestione del mining di questa ipotetica CBDC. Se il mining fosse centralizzato, senza alcuna maturazione di interesse, non vi è dubbio che non vi sarebbe differenza fra CBDC e normale valuta fiat dal punto di vista della politica monetaria, perché le quantità emesse sarebbero comunque determinate a monte dall’autorità monetaria. Se si utilizzassero invece soluzioni diffuse sarebbe necessario per la Banca Centrale mantenere il controllo del mining presso i singoli operatori, sia che si trattasse di istituti intermedi, sia che si trattasse dei singoli cittadini. Ebbene, nulla ci vieta di immaginare una soluzione in cui il mining, magari PoS (Proof of Stake, in cui la generazione di criptovalute non dipende dall’elaborazione dei dati, ma dal possesso della valuta stessa) viene concentrato in istituti di credito che quindi trasferiscono l’interesse generato al cittadino. Oppure di vedere la stessa attività completamente decentralizzata e in mano al cittadino, che potrebbe svolgere un limitato mining dal proprio wallet. La Banca Centrale dovrebbe comunque avere il controllo delle quantità di mining concesse agli altri utenti. Anzi, avremmo uno strumento monetario veramente efficace perché interverrebbe in modo istantaneo sui redditi delle famiglie in caso di recessione economica, evitando i ritardi e i costi funzionali dei normali strumenti di politica monetaria.
Lei ritiene che in futuro la Banca d’Italia tornerà sui propri passi?
Personalmente posso concordare con il dott. Panetta che l’emissione di una CBDC sia ancora prematura e richieda maggiore studio, anche dal punto di vista della sicurezza, della privacy e dei costi transazionali. Inoltre c’è un grosso problema: quale dovrebbe essere l’attore demandato alla gestione, la BCE o le Banche Nazionali? Sono però convinto che si tratti solo di un rinvio, perché non si può fermare l’evoluzione dell’economia solo per la tutela di interessi particolari, per quanto rilevanti.
04 Giugno 2018
Another important actor in the Syrian crisis, it can only be Iran.
The Tehran-Damascus alliance
The alliance between Iran and Syria is a historical constant. A strategic axis since 1979, the year of the Iranian Revolution.It is a privileged relationship that revolves around three factors: hostility towards Israel, the counter-balancing of Western influence in the Middle East and the containment of revanchist Sunnism.
The role of Iran has long been deepened in relations with Syria. In 1980, Syria was the only Arab country to line up with Tehran in the war against Saddam Hussein’s Iraq, providing them with weapons and materials, ground-to-air missiles and anti-tank rockets, also empowering Iranian aviation pilots to land in Syrian bases in case of emergency. Last but not least, he trained groups of Kurdish-Iraqi dissidents.In return, he received oil at bargain prices and, later, know-how for the chemical weapons program. History teaches that the Damascus-Tehran axis is very similar to an iron pact. Difficult to crack in the future.
In the Syrian crisis, the spheres of influence and geographical maps are redrawn. In an increasingly probable partition of Syria into spheres of influence, Iranian projects are far-sighted. And Teheran is investing his best brains there. Otherwise the continued presence on the front of Major General Qassem Suleimani, number one of the Quds forces would not be explained otherwise. The man responds directly to the Supreme Leader of the Revolution, Ali Khamenei.
It is often very early to galvanize Syrian, Iraqi, Afghan, Pakistani Shia militias and the ubiquitous Hezbollah, which has lost a third of its men in the fighting in recent years.
Iranian aid to Syria
But what is actually the Iranian contribution to Syria? Since 2011, Teheran immediately went to the aid of the Syrian ally, put in trouble by the first internal sediments. The Ministry of Intelligence and Security (VEVAK) already had listening and interception centers in the north-east of the country and near the Golan. He monitored the situation in the framework of the mutual defense treaty with Syria, providing crucial help both in terms of public security and intelligence. When the situation plummeted, at the beginning of 2011, Mohammed Nasif Kheirbek, a man of the Assad clan and of national intelligence, offered himself as an intermediary with the Iranians.
He promoted the creation of a set of storage and arsenal warehouses at Latakia airport, where the Russians nowadays. The mission was successful, because the industrial complex of the IEI (Iranian Electronic Industry), a defense contractor, immediately activated, transferring precious materials to the Syrian General Intelligence Directorate: from radio-frequency disturbers to field jammers, for a value of no less at 3 million dollars.
The IEI is also active in the space field, so much to produce the series of observation satellites Fajr (50 kg), one of which launched two years ago.
Iranian experts began shuttling with Damascus to form anti-rebellion units and provide surveillance know-how for telephone and computer networks.
There is a kind of general rule in the Iranian organization, because usually the Ministry of Intelligence and Security provides information, logistical support and transmissions; the pasdaran do the work on the “field” and the Quds forces deals with the most daring and violent operations. The Revolutionary Guardians have a long experience of counter-insurgency operations.
The most experienced men, from the hottest provinces of the country, have been sent to the Assad court. When Damascus began to lose ground to the north and east, in the summer of 2012, Teheran punctuated its defenses in the central and southern reduced.
He helped Assad train new military units and train the old ones.
Between 2011 and 2012, Iran has also started the formation of groups of Shiite militia, with a twofold aim: to balance the disintegration of the Syrian military apparatus, strengthening its mass of maneuver, and guaranteeing a stable force in the event of overthrow of the Assad regime. According to some US experts, the National Defense Force (Syrian military group organized by the government of President Bashar al-Assad) was wanted and trained by members of the Pasdaran and Hezbollah. It is about 50-70,000 men, mainly Shiite Syrians and Alatiti.
It even pays wages, which range from 100 to 160 dollars per month, depending on the grade. He also mobilized former Iraqi Shiite militiamen and formed the Abu Fadl al-Abbas brigade first, followed by several others.
Even the notorious Hezbollah brigades in Iraq, the fighters of Asa’ib Ahl al-Haqq and the irregulars of the Badr militia passed to action, receiving orders, weapons and equipment from Tehran, which guaranteed the regime motivated men and an indispensable logistic support, by air. The Pasdaran have also recruited new fighters among Afghan refugees in Iran.
The operation was so successful that already in mid-2014, an entire “Afghan” brigade was reported in Syria, with a core of 2,500-4,000 men, also foraged with Iranian salaries of 500 dollars a month. Many militiamen today are proud to fight for the pasdaran or the Lebanese Hezbollah, rather than for Assad.
Hezbollah in Syria
It is not clear how many Lebanese Shiite militiamen are in the theater: estimates range from 2,000 to 4,000, including reservists. Which would equate to about a quarter of the movement’s availability. Each zone of Hezbollah operations has an independent command. The operatives would act within multinational units, including pasdaran, members of the Quds force and other militia, coordinated with the regime’s regular units and the Russian advisers. But there is an exception, along the Lebanese border, where Hezbollah responds to no one and moves independently, not so much to protect the Shiite populations, but rather to preserve the transit corridors of Iranian weapons.
Since 2000 at least, the Pasdaran have used the Syrian platform for arms transfers to Hezbollah. With the ongoing conflict, the air route has become the safest and has supplanted the land and sea routes. Commercial companies also collaborate in the “air bridge”: Iran Air, Mahan Air and Yas Air transport fighters, ammunition, rockets, cannons and anti-aircraft.
Iranian military aid in Syria
In the hundreds and so of commercial aircraft, military cargo is added: at least 3 Antonov An-74 and 2 Ilyushin Il-76. The traffic is intense. Teheran brings replacement parts for the T-72 MBTs, Falaq-2 rockets, Fateh-110 missiles, 120 mm howitzers, 107 mm rocket launchers, jeeps and other vehicles into Syria. Iranian technicians also contributed to the realization of the chlorine bombs, repeatedly used by the regime loyalists.
Thanks to videos on Youtube, we have seen Iranian drones repeatedly fly over Idlib, Homs, Damascus and Aleppo: reconnaissance UAVs like the Mohajer 4, the Ababil-2, the Mirsad-1, the Shahed 129 and the Yasir. Most of the funds for the maintenance of the Syrian air fleet in Russia also come from Teheran. A mix of aid that is added to Russian support.
Conclusion
Since December 2013, Syrian sources have said that Iran’s commitment to the Syrian conflict has cost at least six billion US dollars each year, while other Western sources assume even double financial support.
It is probable, according to multiple sources, that the most relevant clashes in Syria will cease at the end of this year 2018. The small clashes between the various ethnic groups and therefore among their external referents will probably not end yet. but the bulk of armed actions will certainly cease, now the areas of influence have stabilized. The first thing that stands out is that, despite everything, the forces of Bashar al-Assad have won.
Of course, neither Assad nor Russia alone has the strength to rebuild the country.The game will be really hard when it comes to the time of reconstruction. The most important future lever of external influence will once again be the Syrian Arab Republic.
Russia and Iran already hold the majority of reconstruction contracts, while they will acquire the vast majority of the public sector, to repay the military expenses they incurred to maintain the Assad regime.The World Bank estimates the cost of reconstruction to 250 billion. Other evaluations, less optimistic, but more realistic, think that the Syrian national reconstruction reaches up to 400 and even 600 billion US dollars.
Six years after the outbreak of the conflict, in 2011, the great diaspora of Syrian businessmen met in Germany at the end of February 2017. From there the Siba, Syrian International Business Association was founded.
With regard to the great Syrian reconstruction, Russian, Iranian and Chinese governments are already active and have already secured the largest contracts in the sectors of hydrocarbons, minerals, telecommunications, real estate construction and electricity grids.
Returning to Iran, and to the reconstruction phase of Syria, Mohammad Bagheri, Chief of Staff of the Iranian armed forces announced his intention to build a naval base on Syrian territory. This is to control the sea in front of Lebanon, creating a further cause for concern for neighboring Israel and beyond. The idea of an Iranian presence at a strategic point like the adjacent waters Beirut might not like Putin, which has its own base at Tartus, a true Russian outpost in the Mediterranean.
Other sources close to Ayatollah Khamenei, on the other hand, speak of a possible base, even submarine, in an even more western area, between Cyprus or some Greek islands of the Dodecanese. In both cases the immediate effect would be a rise in tension throughout the Middle East area.
Iran has never hidden on the other hand that its goal, with its participation in the war in Syria, is to dominate the region on the border with Israel to better keep the Jewish state in check.Now one last consideration: the development of the Iranian missile program. The increase in funds for the last year program confirm the willingness of the Iranian establishment to pursue the consolidation of missile capacity. Several military analysts judge Tehran’s most complete and advanced ballistic arsenal in the region. In addition to the variety of short and medium-range missiles, which guarantee an important defense system for the country, and increase the deterrence capacity on the Strait of Hormoz, in September 2017 Iran tested a missile named Khorranshahr, an Iranian version North Korean Hwasong-10, with a range of over 2000 kilometers, proving to be able to hit the main enemies in the region: Israel and Saudi Arabia.
Pubblicato in collaborazione con il Centro Studi Geopolitica.info
29 Maggio 2018
Il prof. Francesco Corona, direttore del master in Ingegneria della Sicurezza, è intervenuto nella Sala delle Conferenze della Camera di Commercio di Perugia in occasione dell WorkShop dal titolo "PRIVACY le nuove disposizioni europee sulla protezione dei Dati"
Nella giornata di approfondimento si è discusso di DGPR e Cybersecurity. Il prof. Corona è intervenuto sul tema CYBER INCIDENTS.
All'evento erano presenti i massimi rappresentanti della Camera di Commercio di Perugia e in sala oltre c'erano 400 rappresentanti di imprese e liberi professionisti ed altre centinaia in collegamento in diretta streaming .
22 Maggio 2018
Gabriele Natalizia, docente di Relazioni internazionali dell'Università degli studi Link Campus University, ha partecipato al ciclo di incontri "The South Caucasus on the International Arena: Overcoming the Zero-sum Game in the Region" organizzato dalla Georgian Technical University di Tbilisi (15-18 maggio).
3 AGOSTO 2018
Le selezioni per il Corso di laurea in DAMS si terranno il 14, 21, 28 settembre e il 5 ottobre 2018, alle ore 15.00, presso la nostra sede in Via del Casale di San Pio V, 44 a Roma.
Orientamento Performer:
Recitazione a memoria di un monologo o di una scena di dialogo (in italiano) da un’opera teatrale italiana o straniera del ‘900 a scelta del Candidato Prova di canto su un brano leggero o lirico a scelta del Candidato oppure 1 prova di ballo classico o moderno su un brano a scelta del Candidato Prova estemporanea scelta dalla Commissione d’esame Colloquio
Orientamento Producer e Filmaker:
Colloquio attitudinale con la Commissione esaminatrice
07 Maggio 2018
Di Stefano Pioppi da Formiche.net
Di fronte a una competizione internazionale che si fa sempre più feroce, l’industria europea della difesa è chiamata a un’opera di ampia ristrutturazione. Servono meno aziende ma più grandi, e scelte precise sulle tecnologie su cui investire. Parola di Giuseppe Giordo, presidente e ceo di Aero Vodochody, colosso aeronautico della Repubblica Ceca, intervenuto a Roma, alla Link Campus University, per tenere una lectio magistralis su “L’industria europea della difesa: situazione e prospettiva”. Già ad di Alenia Aermacchi, Giordo ha alle spalle una lunga esperienza nel settore aerospaziale. Oltre a guidare dal 2016 un’azienda che ha realizzato 11mila velivoli (più di 650 dei quali operativi), è oggi presidente dalla confederazione che riunisce le industrie ceche del settore, nonché membro del board di Sami, il nuovo protagonista dell’industria della difesa dell’Arabia Saudita.
LE CARATTERISTICHE DELL’INDUSTRIA DELLA DIFESA
“Quella della difesa è un’industria altamente tecnologica, ma con un fortissimo contenuto di forza lavoro, una delle poche industrie in cui l’automazione non funziona tanto”, ha detto Giordo aprendo la lectio magistralis. Si tratta di “uno dei settori in cui vengono fatti maggiori investimenti in ricerca e sviluppo”. In Europa, “ha un turn over che si aggira intorno ai 100 miliardi di euro, impegnando direttamente 500mila persone e, indirettamente, altri 1,2 milioni, con un effetto moltiplicativo dell’investimento tale per cui ogni euro investito in programmi relativi alla difesa ha un ritorno di 2 euro nel sistema economico”. Tra i settori che la compongono, quello dell’aeronautica e aerospazio “è forse il più trainante, con il maggior numero di imprese, una forte competitività sui mercati internazionali e importanti investimenti in ricerca e sviluppo”. Quello aeronautico è tra l’altro “l’unico campo dove ci sono state collaborazioni internazionali che hanno avuto successo”, ha spiegato Giordo ricordano i programmi Tornado ed Eurofighter, ma anche la joint venture missilistica MBDA, casi in cui “si è sorpassata la tendenza a competere tra Stati”.
UNA PIRAMIDE A TRE LIVELLI
A ogni modo, l’industria della difesa europea può essere descritta come “una piramide a tre livelli”, ha rimarcato Giordo. Il suo apice è rappresentato da “pochissime grandi aziende in grado di fornire un prodotto finito (come Dassault e Thales in Francia, Leonardo in Italia, o Saab in Svezia): si tratta di campioni nazionali dei singoli Stati che registrano fatturati annuali intorno ai 10 miliardi di euro”. CìSi tratta di “campioni nazionali che rappresentano gli interessi dei propri governi, molto posizionati sui mercati domestici, che controllano quasi al 100%, e dotati di una buona reputazione internazionale; essi cooperano e competono allo stesso momento”. Il secondo livello consiste in “un centinaio di aziende che partecipano ai programmi dei grandi player fornendo sistemi complessi e con fatturati annui di 1,5 miliardi”. Infine, ha aggiunto il ceo di Aero Vodochody, “il terzo livello è il più importante, quello su cui la politica industriale di un Paese deve puntare; si tratta di oltre 1.400 piccole medie imprese in Europa, con dimensioni molto inferiori rispetto alle altre, ma con partecipazione significativa ai programmi”. D’altronde, ha ricordato Giordo, “per le grandi piattaforme, normalmente l’impresa responsabile dà fuori il 70% del lavoro”.
UN’EUROPA A MOLTE VELOCITÀ
Eppure, il Vecchio continente sembra ancora lontano da una vera e propria integrazione del settore. “Quello che succederà all’industria della difesa europea in futuro dipende da quello che succederà all’Europa, e questo non è dato sapere”, ha spiegato Giordo. Tuttavia alcune indicazioni si possono dare: “La struttura industriale europea deve essere razionalizzata; ci sono troppe imprese e troppe aree con competizioni senza sinergie; bisogna avere meno aziende ma più grandi, e occorre dirigere gli investimenti verso solidi programmi europei che consentano all’industria continentale di mantenere il gap tecnologico rispetto alla competizione internazionale”. Può essere utile in questo la nascente difesa europea. “La Pesco è un tentativo di avere un embrione di bilancio comune e di identificare programmi su cui trovare sinergie”. L’idea è “brillante”, ha detto Giordo, pur intravedendo “un grandissimo rischio: che diventi solo uno strumento con cui due o tre industrie europee di altrettanti Paesi ricevano soldi e gli altri mettano solo contributi finanziari senza ritorni”. È questa una preoccupazione che arriva soprattutto “dall’atteggiamento francese e tedesco”, palesatosi nel recente nuovo annuncio sul “Futuro sistema da combattimento aereo”.
IL CONTESTO INTERNAZIONALE
Tutto questo mentre il contesto internazionale evolve con rapidità. Diverse imprese europee, ha notato Giordo, “non riescono a operare con la velocità che il mercato richiede e rischiano di perdere posizionamento soprattutto nel mercato internazionale”. E per l’Europa il riferimento internazionale restano gli Stati Uniti che, “con un mercato interno non comparabile con qualsiasi altro Paese e il grande supporto governativo”, presentano una “struttura industriale pragmatica, basata su competenza e centri di competenze che evitano duplicazioni e sovrapposizioni grazie a una politica industriale molto chiara”. Ciò è il risultato di “una ristrutturazione industriale avviata 15 anni fa, che ha portato a identificare i segmenti e la tecnologia su cui investire”. D’altra parte, anche la Russia presenta “grandissime ambizioni tecnologiche e di crescita”. Negli ultimi anni, “ha acquisito tecnologie che non aveva, soprattutto nell’elettronica e nei software, e così sta colmando il gap avuto per anni con Usa ed Europa”. Ciò, anche in questo caso, grazie a una “forte riorganizzazione industriale che probabilmente porterà presto alla nascita di un unico colosso del settore, tra l’altro privatizzato, pur conservando il forte supporto del governo”. Difatti, ha evidenziato Giordo, “non c’è visita internazionale in cui Putin non cerchi di vendere prodotti russi; e questo è un rischio perché la Russia compete in alcuni mercati in cui Europa vorrebbe accedere”. Se poi anche la Cina sta raggiungendo “un livello tecnologico pari a quello statunitense”, non bisogna dimenticare altri Paesi che sembrano distinguersi come esempi di “un sistema che si muove”: Turchia, Corea del Sud e Arabia Saudita. Quest’ultima, ha concluso Giordo, ha scelto il comparto della difesa “come elemento della Vision 2030 con cui punta a staccarsi dal petrolio e diversificare l’economia”.
6 AGOSTO 2018
RomHack è un evento di sicurezza gratuito organizzato dall'associazione di promozione sociale Cyber Saiyan.
L'edizione 2018 ha come filo conduttore il tema "Attacco e Difesa in una prospettiva di team, con focus specifico su scenari reali" e si terrà Sabato 22 Settembre ore 10:30 presso l'Università degli Studi Link Campus University
I talk sono selezionati attraverso una Call For Papers che si è aperta il 9 Aprile e chiuderà il 15 Giugno 2018 Vuoi proporre un talk? Clicca qui e segui le istruzioni!
Un comitato tecnico valuterà le proposte e comunicherà gli esiti entro il 15 Luglio 2018. Di questo comitato fanno parte i quattro membri del direttivo di Cyber Saiyan e quattro persone di comprovata esperienza nell'ambito della sicurezza.
I biglietti gratuiti per partecipare a RomHack sono terminati, ma è ancora possibile aggiungersi alla lista di attesa su Eventbrite.
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