3 MAGGIO 2018
Il 12 e 13 maggio 2018 torna Open House Roma, il grande evento pubblico e totalmente gratuito che apre le porte di edifici storici, architetture contemporanee, luoghi di eccellenza della città. Open House Roma nasce dall’idea di un gruppo di architetti e comunicatori orientati all’innovazione socio-culturale. È un evento annuale che in un solo weekend celebra il design e l’architettura nella Capitale. Circa 200, siti di qualunque epoca e solitamente inaccessibili, vengono aperti al pubblico attraverso visite guidate gratuite. Un’iniziativa che, quest’anno alla sua settima edizione, è diventata un‘occasione unica per visitare residenze, palazzi, istituzioni, zone archeologiche o studi creativi abitualmente non accessibili. Un fine settimana alla scoperta dei luoghi speciali e sconosciuti di Roma.
L'evento, organizzato dall'associazione Open City Roma, è realizzato con la partnership di Roma Capitale - Assessorato alla Crescita Culturale e della Regione Lazio e patrocinato dal Senato della Repubblica, Università Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre.
Questa settima edizione di OHR è dedicata al Fattore Umano. Il programma del 2018 coinvolge 200 siti, anche quest'anno diviso in 5 aree tematiche: città della conoscenza, attraversare la storia, architettura del quotidiano, abitare, patrimonio creativo.
Link Campus University parteciperà all'iniziativa nell'area tematica Patrimonio creativo. Il tema apre quei luoghi di Roma dove si produce l'innovazione; distretti produttivi di nuova generazione nati dalla passione, dalla creatività e dall'intraprendenza di giovani e professionisti.
IL CASALE DI SAN PIO V
Il Casale di San Pio V è tra gli edifici della Capitale che, per le notevoli caratteristiche architettoniche, rimarrà aperto ai visitatori Sabato 12 e Domenica 13 con i seguenti orari:
10:00-14:00 Intervallo: 30 min Ultimo ingresso: 13.30
Per poter visitare il Casale è necessario prenotarsi su www.openhouseroma.org (prenotazione obbligatoria).
Guarda la guida online di Open House Roma 2018 https://www.openhouseroma.org/node/10796
RISCARTI La mostra per Amatrice e per le vittime del sisma del centro Italia.
Riscarti partecipa con “SOStenibilità, La Natura si ribella” una mostra per Amatrice e per le vittime del sisma del centro Italia. Infatti i materiali di cui sono composte le opere d’arte, provengono proprio da quel che resta della città distrutta dal terremoto del 24 agosto 2016. Ad ospitare le opere lo splendido Casale San Pio V, un edificio che intercetta cinque secoli di storia d’Italia dalla sua costruzione avviata nel XVI secolo, e che oggi è sede internazionale della Link Campus University di Roma.
Il messaggio affidato all’arte che reimpiega gli scarti, è di dipanare lo sconquassamento provocato dalla scellerata politica usa e getta. I materiali che sono stati lasciati a terra dalla furia del cataclisma, vengono rianimati e riassemblati creativamente, e raccontano di una città che è venuta giù. Questi oggetti dentro la narrativa che li ha visti mutare forma, sono la memoria di quel che resta prima del collasso, ed allo stesso tempo entrano in una storia nuova e contemporanea: una sorta di storia dell’adattamento che, per opera delle arti, trova soluzioni creative per sopravvivere all’ambiente.
Riscarti il festival del riciclo creativo presenta tre opere d’arte, due di design e una installazione, realizzate con il reimpiego degli scarti del terremoto. Dalla distruzione alla rinascita con l’obiettivo di riportare l’attenzione sui luoghi colpiti dal sisma e la promessa di celebrare in situ, il prossimo agosto 2018, insieme alle amministrazioni locali, una maratona di creativi che daranno nuova vita a parte di quelle macerie.
I sei artisti con le opere realizzate finora sono:
Alessandro Ciafardini, opera Scrivavia. “Se fosse stata "mobile", se la sarebbe data a gambe ed invece no, non era mobile ma…una finestra, dei tondini da armatura ed un vetro. Immobili, Spostati dalla furia della natura, che ci fa riflettere su quanto l'immobile sia cosi mobile il certo cosi' incerto.”
Cristiano D'Innocenti, opera Dalle radici nude a nuova linfa. “Un albero di gesso scheletrito e storto fu l’unico elemento scenografico realizzato da Alberto Giacometti per "Aspettando Godot" di Beckett. Sul palcoscenico spoglio, svuotato di tutti i segni del quotidiano, va in scena lo spettacolo della solitudine, della precarietà dell’esistenza. Un lavoro di scavo, una poetica del “levare” che tocca l’essenza invisibile di tutto ciò che tace, che non si svela.”
Tommaso Garavini, opera La casa che non c’è. "Questa è una casa che non c’è, è il suo negativo, dove le porte e le finestre sono in realtà impenetrabili, fatte di muri, e tutto il resto invece non c’è più, se non in un segno infantile che ne traccia la memoria. "
Cristiano Muti, opera Epicentro. ”Il crollo improvviso, che non lascia il tempo di scappare, di nasconderti. Un vortice di metallo piegato alla forza della natura, che diviene “gabbia” di maglie temporali. Immagine di un tempo indefinito, successivo al cedimento, dove si arrestano le parole, le certezze e le umane abitudini."
Filippo Riniolo, opera Epifania. “Epifania è un gesto delicato. un’opera già fatta non dell’artista ma dal terremoto, che irrompe nella storia, che crea un prima e dopo, e in questo essere spartiacque assume la forma del sacro. un bambolotto diventa un ‘epifania, un’arrivare nel mondo, non solo come traccia di una giovane vita che c’era, ma anche di una vita che si desidera ancora. Le macerie dunque come il punto più buio dell’inverno che però ci annuncia la prossima estate che tornerà.”
Francesca Pizzo e Germano Serafini, opera A Sora Capricchia. Un fotografo ed un'architetto, due professioni complementari, ma soprattutto complici per riuscire a cogliere e ricostruire la visione più completa di un paesaggio in frantumi.
Qui ne parla il Tg3 Lazio del 7 maggio scorso: https://youtu.be/dOPhQw2fEPM
Per info contattare: Marlene Scalise direttrice artistica riscarti@gmail.com tel. 3806376906 @riscartifest www.riscarti.com
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06 Maggio 2020
di Valentina Re
Le prime anticipazioni dei risultati dell’ottavo Rapporto di Ricerca dell’Osservatorio Generazione Proteo, realizzato in piena emergenza Covid-19, parlano chiaro: tanti, tantissimi ragazzi hanno scelto di trascorrere molto del loro tempo libero in quarantena guardando film e serie tv. Sono il 27,6%, più del triplo di quelli che l’hanno trascorso sui social (9,1%) e quasi il triplo di quanti hanno l’hanno trascorso con i videogame (10%).
Seppur il dato di per sé non ci dica dove i ragazzi li guardino, film e serie tv, la risposta alla domanda “Cosa preferisci tra Netflix e Amazon Prime Video?” è a dir poco eloquente, se consideriamo che addirittura l’81,1%, stando alle prime anticipazioni, esprime una preferenza per Netflix e solo il 12,3% dichiara di non usare nessuna delle due piattaforme globali di streaming.
Già, lo streaming: perché la “cultura on-demand” perfettamente rappresentata da un gigante come Netflix, e che al Dams della Link Campus studiamo nel corso di “Digital media and Internet entertainment”, sembra corrispondere in pieno alle esigenze della quarantena.
Netflix ci appare come un’autentica miniera di contenuti sempre nuovi da scoprire, un “serbatoio” potenzialmente infinito per alimentare il nostro bisogno di storie e di intrattenimento; un ricchissimo catalogo che ci permette di scegliere sempre che cosa guardare, quando guardarlo, senza dover sottostare a vincoli esterni alle nostre esigenze, e dove guardarlo – in famiglia se lo desideriamo, ma anche nel privato del nostro smartphone se lo preferiamo.
Va detto però che i ragazzi non sembrano trascorrere online la totalità del loro tempo, e anzi i dati preliminari forniti dall’Osservatorio Generazione Proteo ci restituiscono uno scenario mediale e una “dieta mediale” più articolati e più complessi, in cui ciascun medium sembra in qualche modo fare quello che gli riesce meglio. Così, i ragazzi non disdegnano affatto di affidarsi alla cara e vecchia televisione lineare quando si tratta di informarsi (52,8%), ma si rivolgono naturalmente ai social per continuare a coltivare quella socialità che il distanziamento ha modificato, ma non certo annullato (il 35,7% dichiara che i social permettono di sentirsi meno soli).
E i social tornano in qualche modo protagonisti quando si tratta di capire meglio quali sono le ragioni di una preferenza così marcata per Netflix. Se infatti per una netta maggioranza (58,4%) è l’opportunità economica (l’inclusione nell’abbonamento per le spedizioni Prime di Amazon) a motivare l’uso di Prime Video, la preferenza per Netflix è nettamente motivata dalla popolarità dei suoi contenuti: il 57,4%, infatti, dichiara di guardare Netflix perché “ci sono serie tv e film di cui si parla molto”.
E dov’è che, principalmente, se ne parla? Ma sui social, naturalmente. Su questo “parlare molto dei contenuti Netflix” possiamo fare almeno due osservazioni.
La prima: la cultura on-demand non è tutto. Anche nell’epoca della scelta, nell’epoca in cui possiamo vedere quello che vogliamo quando lo vogliamo, permane l’esigenza di continuare a vivere esperienze collettive, sincronizzate, condivise: quando finalmente esce su Netflix La casa di carta, lo vogliamo guardare insieme ad altri, vogliamo commentarlo, vogliamo discuterne, vogliamo sentirci parte di una comunità di gusti e di interessi.
La seconda: perché si parla tanto delle serie di Netflix? Perché sono migliori di altre? Forse. Perché sono più originali? Forse. Ma c’è sicuramente una ragione, tra le molte possibili, che non possiamo ignorare: perché Netflix sa fare marketing. Perché, proprio a partire dai social, Netflix detta la sua agenda, stabilisce i “must see” del momento, costruisce i suoi molti pubblici, orienta i trend, e alimenta con grande abilità quello che oggi chiamiamo “audience engagement”, il valore del coinvolgimento.
Ma allora, chi decide che cosa guardiamo? Su questo punto, i dati forniti dall’Osservatorio ci restituiscono uno scenario dove prevale una forte percezione di autonomia decisionale, o libertà di scelta. Solo il 2,9% dichiara di essere molto influenzato dai suggerimenti sulla piattaforma, mentre il 27,9% dichiara di non esserlo per nulla – a cui si somma un 43,3% che dichiara di esserlo poco.
E tuttavia: abbiamo mai pensato al fatto che la nostra home page è diversa da quella di ogni altro nostro amico? Che gli algoritmi ce la costruiscono e ricostruiscono ogni giorno sulla base di tutte le nostre anche minime interazioni? Che ci sono contenuti che vediamo ripetersi più e più volte, e altri che non appaiono a meno di non andarli a cercare? Che l’intero catalogo di Netflix nessuno di noi lo vedrà mai, perché non possiamo accedervi se non attraverso i filtri che sono stati predisposti?
Proprio mentre finisco di scrivere questo articolo, come se l’avessi evocato, Netflix mi manda una mail: “Vuoi guardare Netflix, stasera? Guarda uno dei titoli scelti per te”. E allora vi propongo un gioco: no, non guardiamo Netflix stasera. Proviamo a uscire dalla “bolla” e, per farlo, divertiamoci a usare le stesse strategie di raccomandazione e orientamento che Netflix utilizza per guidarci nel suo catalogo.
Eccovi, allora, una serie di titoli da provare su altre piattaforme, consigliati come ve li consiglierebbe Netflix. Buon viaggio fuori dalla bolla!
Killing Eve – TIM Vision
Sandra Oh, la dott.ssa Cristina Yang di "Grey's Anatomy", è Eve, un’agente dell’MI5 sulle tracce di una killer seducente e spietata. Una caccia appassionante che si trasformerà in ossessione…
Generi: Drammi TV di genere crime, thriller TV, serie TV britanniche
Caratteristiche: Suspence, tensione crescente, protagoniste femminili forti
Perché hai guardato Grey's Anatomy, Orange Is the New Black, Russian Doll
The Good Fight – TIM Vision
L’atteso spin-off di “The Good Wife” con protagonista Diane Lockhart, avvocatessa dal carattere forte e risoluto, liberale convinta, da sempre schierata in favore delle donne.
Generi: Serie TV americane, drammi TV
Caratteristiche: Intellettuale, spiritoso, avvincente
Perché hai guardato The Good Wife, Suits, Le regole del delitto perfetto
Tales of the Loop – Amazon Prime Video
Una serie corale visivamente emozionante che racconta la vita quotidiana di una piccola comunità ai bordi del Loop, una macchina straordinaria costruita per esplorare i misteri dell’universo.
Generi: Fantascienza TV, thriller TV, drammi TV
Caratteristiche: Inquietante, profondo, emozionante
Perché hai guardato Black Mirror, Dark, Mad Men
Upload – Amazon Prime Video
Nel 2033 le persone vicine alla morte possono essere uploadate in “paradisi” virtuali. Il protagonista Nathan ha un incidente e la sua ragazza lo fa uploadare, ma non tutto è come sembra…
Generi: Fantascienza TV, thriller TV, gialli e misteri TV
Caratteristiche: Spiazzante, avvincente, ingegnoso
Perché hai guardato Black Mirror, Altered Carbon, The Good Place
The Morning Show – Apple TV+
Alex Levy e Mitch Kessler conducono “The Morning Show”, un popolarissimo programma di notizie. La loro vita e quella di tutta la troupe viene sconvolta quando il giornalista viene accusato di molestie sessuali.
Generi: Drammi TV, serie TV americane
Caratteristiche: Avvincente, emozionante, intellettuale
Perché hai guardato Unbelievable, When They See Us, Friends
For All Mankind – Apple TV+
Cosa sarebbe accaduto se il primo uomo a sbarcare sulla Luna non fosse stato un americano, ma un russo? Dall’autore di “Battlestar Galactica”.
Generi: Drammi TV, serie TV americane
Caratteristiche: Intellettuale, profondo, spiazzante
Perché hai guardato Battlestar Galactica, Altered Carbon, The Killing
04 Maggio 2020
di Marco Emanuele
da Formiche.net
Forte è la tentazione, anche in chi scrive, di parlare di Europa in termini ideali, di una costruzione che, solo esistendo, garantirebbe tutto ciò che i cittadini si aspettano in termini di libertà e di sviluppo.
Cominciamo con il dire che, in tempi difficili come quello che stiamo vivendo, l’Europa rappresenta una grande potenzialità. Diciamo anche che, guardando ai fondatori, le due linee – quella legata al Manifesto di Ventotene e l’altra che riconduciamo ai nomi di De Gasperi, Adenauer e Schumann – portano dentro elementi di grande interesse e visione; non siamo tra coloro che le contrappongono ma tra quanti non si stancano di ricercare un’anima politica.
Questa riflessione muove, tra nostalgia e progetto, sulla necessità che in Europa si formino classi dirigenti che, pur gettando il cuore oltre l’ostacolo, guardino ai rapporti di forza e agli interessi in campo. La visione politica è, anzitutto, realismo e mediazione.
La storia ritorna, pur se – circa trent’anni fa – si guardò a essa dalla prospettiva della sua fine. Non si può ragionare dell’Europa di oggi se non si fa un tuffo indietro nella storia, se non si comprende che la Lega Anseatica è tornata e che il Gruppo di Visegrad rappresenta una realtà di Paesi con i quali bisogna fare i conti. I fattori geopolitici, le zone d’influenza interne all’Europa, sono un elemento decisivo da tenere in conto in ogni considerazione che voglia calarsi nella realtà-che-è.
I diversi miti europei sono all’opera e “diventano” scelte e difficoltà politiche. Nulla di ciò che accade, dal ritorno dei sovranismi alle difficoltà legate al raggiungimento di accordi europei nella crisi da Covid-19, accade per caso. Ci sono ragioni profonde che, a ben guardare, le classi dirigenti (non solo politiche) raramente esplorano.
Il tema, per noi, è lavorare sul futuro dell’Europa sapendo che è richiesto un nuovo “funzionalismo democratico”, un realismo dei fatti e capacità di mediazione che, pur considerando le ragioni ideali, lavorino a ricomporre l’Europa a partire dalle Europe che la compongono.
Sembra, infatti, che l’atteggiamento verso l’Europa voglia quasi prescindere dalla realtà profonda (miti) che rende il Vecchio Continente ciò che è oggi. Non si tratta, naturalmente, di auspicare che l’Europa diventi a misura d’interessi particolari (sarebbe una resa) ma di lavorare politicamente “tra” i diversi interessi per ritrovare, senza dubbio faticosamente, un percorso comune. Questo lavoro si chiama talento politico e può appartenere a persone che non considerino la storia come un processo distaccato dal presente, un passato “passato”, ma come un monito che ci chiama a guardare oltre ciò che vediamo.
In conclusione, guardando all’ineliminabile lato “romantico” (ma altrettanto realistico) dell’Europa che vorremmo, val bene ribadire un deciso “alert” sul pericolo rappresentato dai nazionalismi. Proprio per questo è necessario invocare il ritorno di una Politica (qui volutamente in maiuscolo) che sappia dialogare con tutte le forze in campo. Il tempo che viviamo, geopoliticamente parlando, non è quello di Spinelli, De Gasperi, Adenauer e Schumann. Si è consolidata, in diversi decenni, la capacità dell’Europa di farci vivere in pace ma inevitabilmente, in tempi di crisi, essa ritorna a mostrarsi nelle sue divisioni. Affinché l’Europa non resti una magnifica idea, urge accogliere la sfida della Politica.
29 Aprile 2020
di Valentina Re da Lavoro culturale
Nel quadro drammatico dell’emergenza sanitaria e dell’impatto delle misure di distanziamento sociale sul settore audiovisivo, abbiamo intervistato rappresentanti delle film commission e sceneggiatori già coinvolti nel progetto europeo “DETECt”. Le loro voci ci offrono un lucido spaccato della situazione attuale, in cui fiducia e preoccupazione convivono.
E-vadere, ovvero, «fuggir dal luogo in cui uno è chiuso». Tale luogo può essere naturalmente fisico e concreto, come il carcere, ma anche metaforico, come una particolare «condizione morale o spirituale», o «un modo di vita, che siano divenuti insopportabili o siano causa di disagio e di sofferenza» (Treccani http://www.treccani.it/vocabolario/evasione/): letterale o figurato che sia questo “ambiente” in cui ci troviamo rinchiusi, l’azione di evadere rappresenta un atto di liberazione. Eppure, quando parliamo di letteratura d’evasione, o di cinema d’evasione, non è esattamente a un atto di liberazione da una condizione di difficoltà a cui pensiamo. Associata alle arti, ai media, ai racconti, l’evasione si carica immediatamente di connotazioni in qualche modo peggiorative: letteratura d’evasione sarebbe solo quella «letteratura che, all’opposto di quella “impegnata”, elude prese di posizione ideologiche, problematiche sociali o morali, e simili, privilegiando invece contenuti, intrecci e situazioni in cui prevalgono la fantasia, il sentimento e l’avventura» (Treccani).
La condizione di distanziamento sociale in cui tutti ci troviamo ci mette di fronte al pregiudizio di questo uso linguistico, e soprattutto ci fa sperimentare con una forza inedita la capacità della letteratura, del cinema, della serialità televisiva, delle storie, insomma, di farci evadere (o “liberarci”) in molti modi possibili: non necessariamente per fuggire verso mondi esotici e avventurosi, ma sempre per abitare temporaneamente mondi altri, che ci permettono di guardare da un altro punto di vista il “luogo” fisico o mentale in cui siamo chiusi. A ben guardare, un ragionamento analogo lo si potrebbe fare a proposito del termine intrattenimento, che rimanda alle azioni di «fare indugiare, ritardare, tenere a bada, ritenere presso di sé»: ovvero, di trattenere, di assistere nella pausa, di accompagnare nella sospensione delle azioni – senza pregiudizi di “futilità”.
Si potrà obiettare che, nel periodo di emergenza sanitaria e distanziamento sociale che stiamo vivendo, l’appello alle funzioni fondamentali delle storie sia retorico e strumentale. Bene, se qualcuno ne è convinto, lasciamo pure da parte il valore “simbolico” delle storie, e pensiamo al loro valore “economico”, e a tutto il mondo professionale che le porta dentro le nostre case. Perché, al contrario di quanto afferma un tenace luogo comune, con la cultura si mangia eccome, nonostante l’Italia sembri inserirsi relativamente sul valore, economico e di più ampio e diffuso beneficio sociale, delle industrie culturali e creative: secondo i dati del 2015, con oltre 41 miliardi di euro, il settore creativo in Italia si collocherebbe davanti a quello delle telecomunicazioni (38 miliardi) e subito dopo l’industria chimica (50 miliardi) (Italia creativa).
Oggi, a seguito dell’emergenza sanitaria e delle misure di contenimento del contagio da Covid-19, tale comparto sta subendo ricadute drammatiche. Barbara Petronio, sceneggiatrice di Suburra e Romanzo criminale, e Federico Poillucci, Presidente della Film Commission del Friuli Venezia Giulia, descrivono con la stessa parola, “devastante”, l’impatto dell’emergenza sul settore dell’audiovisivo.
Le prime a chiudere sono state le sale cinematografiche. Progressivamente, i festival sono stati via via cancellati o rimandati. Infine, si sono fermati i set. Improvvisamente, nell’ottica dell’emergenza, la dimensione radicalmente collettiva e in presenza dell’esperienza audiovisiva si è riconfigurata come “assembramento”, e dunque come tale vietato in quanto pericoloso e imprevedibile veicolo di contagio. Ancora prima che i provvedimenti normativi chiudessero i set, ci spiega Poillucci, questi si sono bloccati perché le assicurazioni non riuscivano più a quotare il rischio per il “fermo set”, divenuto troppo alto e troppo aleatorio, o lo quotavano a cifre inaccessibili ai produttori (un problema che peraltro rischia di ripresentarsi nella fase di gestione post-emergenza).
Sul fronte della reazione immediata all’emergenza, e delle misure straordinarie a sostegno dell’economia, i lavoratori dello spettacolo sono rientrati nei provvedimenti già assunti, assimilati a seconda dei casi ai lavoratori autonomi o dipendenti. L’unico provvedimento straordinario specificatamente rivolto alle maestranze del settore non proviene da iniziativa statale ma da un privato, il colosso globale dell’intrattenimento online. Netflix ha consultato le film commission regionali, organi di interconnessione tra il tessuto territoriale e le produzioni audiovisive, per mappare i set fermati nella finestra 20 febbraio-31 marzo al fine di elaborare le linee guida per lo stanziamento di 1 milione di euro.
E sul fronte della ripresa? Secondo Fabio Abagnato, responsabile dell’Emilia Romagna film commission, “le misure iniziali non possono che essere nella direzione della liquidità e della semplificazione”. Occorre vigilare, ricorda Poillucci, “perché la tendenza è sempre quella di pensare che cinema, teatro, audiovisivo, musica, siano un orpello, l’ultima cosa a cui pensare. Ma che non siano un orpello penso che la quarantena che stiamo passando lo stia dimostrando… Come staremmo se non avessimo l’arte, i libri, la musica, i film?”. E se non bastasse questo, occorre ancora una volta ricordare che quello dello spettacolo è un comparto produttivo come tutti gli altri, e anzi tra i più penalizzati dalla situazione attuale, e i finanziamenti già programmati vanno interamente confermati senza tagli legati allo stato emergenziale.
Inoltre, Abagnato e Poillucci convergono nel sottolineare l’importanza di un’azione tempestiva anche sul fronte delle nuove norme che dovranno regolare le attività dello spettacolo, dalle sale ai set. Precisa Abagnato: “Bisognerà riscrivere le ‘regole’ su come gestire un set al tempo del Covid-19, ovvero se e come limitare le libertà creative della interpretazione e della ripresa cinematografica, per non parlare dei mestieri a supporto dell'attore, come il comparto trucco e parrucco. Prima le autorità sanitarie renderanno esplicita la situazione imminente e prima ogni settore potrà essere ripensato, temporaneamente o con caratteristiche di permanenza”. Senza contare la possibilità, ricordata da Poillucci, di dover anche far fronte ai potenziali effetti di congestione che si produrranno alla ripresa, a livello sia di produzione che di esercizio, con il rischio per i progetti finanziariamente più deboli di soccombere, e per i film indipendenti di non riuscire ad arrivare in sala.
Ci sono però almeno due attività, nel settore dell’audiovisivo, che l’emergenza sanitaria non ha bloccato: lo sviluppo di nuovi progetti e la scrittura, il lavoro degli sceneggiatori. Sebbene anche queste attività abbiano una marcata dimensione collettiva, si tratta di un lavoro collettivo che può essere riorganizzato e gestito a distanza. “Io da sceneggiatore sono un privilegiato” dichiara Tommaso Matano, sceneggiatore di Curon e di Sopravvissuti, “perché il mio lavoro può proseguire nonostante l’emergenza. La parte dello sviluppo è l’unica che può andare avanti ed è quella su cui le produzioni possono concentrarsi in attesa di tempi migliori”. “E questo”, continua Barbara Petronio, “ci dà la spinta ad essere positivi, a mettere in cantiere idee e storie per quando tutto questo sarà finito. Perché ce lo dice la storia dell’umanità che poi, dopo la crisi, arriva il momento di sollevarsi”.
A distanza, Giampiero Rigosi e Sofia Assirelli stanno sviluppando insieme la terza stagione di La porta rossa. La collaborazione è agevolata dalla lunga conoscenza e dalla confidenza che col tempo si è consolidata, ma creare “da remoto” non è la stessa cosa: “Fare brainstorming attraverso questi strumenti è possibile”, commenta Sofia Assirelli, “ma è diverso. La creatività ha bisogno anche di giri larghi, di pause, di battute, di leggerezza, mentre le riunioni via Skype, Meet o Zoom vanno sempre dritte al punto”. Una riflessione che varrebbe sicuramente la pena estendere anche a tante altre attività che, spostate online, non sono più (nel bene e nel male) le stesse attività di prima.
Nel quadro drammatico di questa crisi, il punto di vista degli sceneggiatori, consapevoli del “privilegio” di poter continuare a lavorare in sicurezza per “nutrire” il settore in attesa della ripartenza, rappresenta una chiave di lettura che può consentirci di guardare al presente con un margine di fiducia e di ottimismo.
Ma non dobbiamo dimenticare, e non dimenticano gli sceneggiatori, gli altri lavoratori della filiera audiovisiva, e la necessità urgente di prepararsi a un futuro pieno di incognite.
Sul fronte della scrittura, osserva Assirelli, “è molto difficile prevedere già da ora cosa cambierà”. In un ipotetico futuro con molti progetti sul mercato, e una propensione all’investimento forse ancora minata dalla difficoltà di gestire la fase di ripresa, “gli sceneggiatori, per paura dell'incertezza, potrebbero dover accettare condizioni di lavoro fino a quel momento inaccettabili, e questo va evitato. Questa crisi potrebbe mettere in luce e aggravare problemi già esistenti nel settore, ma potrebbe essere anche l'occasione per regolamentarli e risolverli".
Tommaso Matano si sofferma invece sulla crisi dell’esercizio. “L’emergenza rilancia il già infuocato dibattito sul rapporto tra la sala cinematografica e la fruizione domestica. La questione è se sia possibile, almeno in questi mesi, trovare una sinergia tra i servizi di streaming e i cinema. So che in Italia produttori, distributori ed esercenti hanno chiesto al MIBAC una deroga in modo da poter usufruire del tax credit e altre agevolazioni per i loro film anche senza l’uscita in sala, ovvero assimilando quest’ultima all’uscita su una piattaforma online. Questo da un lato alleggerirebbe la congestione di titoli alla riapertura dei cinema, e dall’altro darebbe adesso visibilità (anche se “casalinga") a film che altrimenti soffrirebbero la competizione in sala. Inoltre, la distribuzione direttamente sui servizi di streaming dovrebbe garantire anche un contributo di solidarietà agli esercenti. Per quel che ne posso capire, mi sembra una buona idea”.
Barbara Petronio ci riporta, infine, all’emergenza dei set: “perché si possono sviluppare le idee più belle del mondo”, ricorda, “ma se non si trova il modo di realizzarle rimangono carta stampata. Probabilmente il settore dell’audiovisivo sarà l’ultimo a riprendere, perché l’intrattenimento e quindi l’arte, in una fase del genere, è ritenuta superflua, non necessaria. Ci sono varie idee che stanno emergendo in questi giorni, test alle troupe, set blindati. Credo che il dibattito sarà complesso e non penso che ne usciremo facilmente. Potrebbe essere anche l’occasione per cambiare modo di lavorare, forse anche in meglio”.
16 Aprile 2020
Nella mattinata di ieri, mercoledì 15 aprile, con la conferenza “The future of museum professionals in the digital era”, si è conclusa formalmente l’esperienza del progetto Mu.SA: Museum Sector Alliance. Il progetto è partito nel 2016 ai fini di formare nuove figure professionali nell’ambito della digital transformation dei musei, ed è stato condotto da 11 partner di Grecia, Italia, Portogallo e Belgio, nell’ambito del programma Erasmus+.
La conferenza, originariamente programmata a Bruxelles, si è tenuta grazie all'organizzazione di Culture Action Europe, svolgendosi online a causa dell’attuale emergenza Covid-19, e contando oltre 500 partecipanti.
Ospitata dal DAISSy Research Group della HOU (Hellenic Open University), il meeting ha ripercorso il disegno di Mu.SA dagli inizi, attraverso le parole dei rappresentanti di alcuni partner, come Achilles Kameas, Panagiota Polymeropoulou e Spiros Borotis (HOU), Antonia Silvaggi (MeltingPro), Paula Menino Homem (Università di Porto), Theodor Grassos (AKMI), Massimiliano Dibitonto (Link Campus University) e Ivo Oosterbeek (Mapas des Ideas).
I relatori si sono alternati per raccontare l’intero progetto, dalla sua programmazione avvenuta attraverso una prima fase di ricerca volta a comprendere le lacune digitali nel mondo museale mediterraneo, fino all’identificazione di quattro nuove figure professionali che accompagnino i musei verso un nuovo contesto digitale, ossia quelle di Digital Strategy Manager, Digital Collection Curator, Digital Interactive Experience Developer, Online Community Manager.
Per la formazione di questi specifici ruoli, Mu.SA si è declinato in un iter formativo che ha previsto un iniziale MOOC di base, destinato a chi nei musei già opera o ambisce a lavorarvi ed è volto ad acquisire nuove skill digitali. Dei 1371 studenti che hanno completato il MOOC di base, i più meritevoli e interessati si sono poi iscritti ai diversi corsi di specializzazione dedicati ai quattro profili menzionati.
Nella conferenza di ieri sono state illustrate anche la metodologia formativa nonché quella di valutazione, che ha compreso l’analisi di 200 ore di Work Based Learning per tutti gli ‘specializzandi’, permettendo loro di applicare le nozioni apprese all’interno dei musei che li hanno ospitati, aiutando anche questi ultimi a mettere in atto progetti pratici per facilitare il loro ingresso nel digitale.
Vari sono stati gli spunti emersi da questo meeting. Non poteva ovviamente mancare una riflessione legata all’attuale pandemia del Coronavirus: Julia Pagel (NEMO) ha infatti sottolineato quanto l’arte sia importante per superare periodi così lunghi di isolamento sociale grazie alla compagnia della sua fruizione, e quanto i media digitali aiutino l’accesso all’arte stessa anche in situazioni in cui non è possibile farlo fisicamente. L’accessibilità e l’inclusione sociale che i new media permettono è stata anche oggetto di attenzione da parte di Tere Badia (CAE) nel suo discorso di apertura: la Badia, però, sottolinea quanto il cambiamento, prima che tecnologico, debba essere soprattutto mentale, per permetterci di accogliere un nuovo modo di pensare e, di conseguenza, un nuovo modo di beneficiare dell’arte.
La conferenza si è conclusa con un mini-talk moderato da Margherita Sani (IBACN), che ha visto la partecipazione di Alexandre Matos (ICOM Portogallo), Philippos Mazarakis-Ainian (ICOM Grecia), Romina Surace (Symbola) e Leena Tokila (ICTOP).
Da questo confronto è emerso quanto in Europa vi sia scarsa omogeneità nel digital shift museale, e quanto bisogno vi sia di Fondi Europei per superare il gap tra vecchio e nuovo. In particolare, si è focalizzata l’attenzione su quanto la digital transformation non sia solo un cambio di ‘mezzi’ di fruizione, ma di come realizzi una vera e propria crescita quantitativa e qualitativa dei musei, resi così più visibili e più vicini ai bisogni dei visitatori.
16 Aprile 2020
Di Valentina Re
Uscita in piena emergenza Coronavirus, La casa di carta 4 dimostra ancora una volta quello che, da sempre, le buone storie sanno fare: farci viaggiare, anche senza muoverci di casa, nel tempo e nello spazio. E se in epoca di quarantena la maratona su Netflix la possiamo anche fare, per così dire, “in solitaria”, saranno poi i molti spazi di discussione online a permetterci di ritrovare una dimensione di scambio e di socialità con gli amici e con gli altri fan della serie, numerosissimi in tutto il mondo.
Perfetta per il binge watching, attesissima in tutto il mondo ad ogni nuova release, popolarissima e commentatissima sui social, La casa di carta sembra proprio avere tutte le caratteristiche delle serie originali prodotte e distribuite dal colosso globale dello streaming, Netflix.
Eppure, la storia è un po’ più complicata. Possiamo interpretare la storia di La casa di carta come quella di un doppio “riscatto”: dei personaggi che abbiamo imparato ad amare, innanzi tutto, ma anche di coloro che questi personaggi li hanno creati – attori, registi, sceneggiatori, produttori, direttori della fotografia, montatori… Tutto quel mondo della creatività, insomma, a cui il nostro Dams si rivolge, e per il quale le grandi piattaforme globali possono rappresentare una sfida e un’opportunità.
Da un lato abbiamo il plot, il racconto, che alla Link impariamo a costruire nel corso di Screenwriting: con quel ritmo implacabile che, a parte qualche sbavatura, guarda alla migliore tradizione dell’heist movie (il film di rapina), e in alcuni momenti sembra quasi omaggiare il Soderbergh più brillante, quello degli Ocean’s.
Abbiamo le location, la Spagna ma anche l’Italia, l’Europa del Mediterraneo, con il suo calore, le sue tavolate affollate e imbandite, le sue musiche che viaggiano, si ibridano, ci fanno sentire comunità.
E infine abbiamo i personaggi: una banda di losers, in fondo, di perdenti, emarginati, pieni di debolezze e di difetti. Ma è dal loro punto di vista che osserviamo le cose, ed è per questo che simpatizziamo con questi outsider che ricorrono al crimine, certo, ma in nome di una più ampia giustizia sociale.
Osservato dal loro punto di vista, il mondo che li ha esclusi appare corrotto e spietato. In cerca di riscatto, a questo mondo privo di ideali e di valori rispondono con un codice etico alternativo: che certo devia rispetto alla morale comune, ma che ci appare comunque autentico e genuino, capace di consolidare i rapporti e i legami anche nei momenti di crisi.
Otterranno questo riscatto? Forse lo hanno già ottenuto, attraverso le relazioni di fiducia e di rispetto che hanno stabilito tra loro? O attraverso il sostegno popolare che li sprona?
Questo, La casa di carta 4 non ce lo svela ancora, ma quello che possiamo senz’altro confermare è il successo di chi sta dietro le quinte. Ed è, anche questa, una storia di “riscatto”.
Contrariamente a quanto potrebbe apparire, La casa di carta non nasce come produzione originale Netflix, ideata e sviluppata all’interno della piattaforma globale.
Le parti 1 e 2 della serie, infatti, vengono co-prodotte dall’emittente spagnola Antena 3 con Vancouver Media: ma è una serie che da subito guarda al mercato internazionale, ci scommette, e vince la sua scommessa.
La vince per tante ragioni: perché osa re-interpretare un genere, l’heist movie, sicuramente più americano che europeo, e ne sfrutta tutte le risorse narrative; perché coniuga un genere di intrattenimento popolare con un lavoro di scrittura raffinato, creando personaggi complessi, ambivalenti, fragili, appassionati; perché ha la capacità di radicare una classica storia di rapina in un contesto che è fortemente caratterizzato a livello geografico, economico e politico, ed è in grado di generare appartenenze, reazioni, discussioni.
A Netflix va certo riconosciuto il merito di aver individuato le potenzialità “glocal” della “piccola” produzione spagnola: prima acquisendo i diritti per la distribuzione internazionale sulla piattaforma, e poi decidendo di intervenire direttamente per co-produrre le parti 3 e 4, con un repentino cambio di scala nel budget che tutti possiamo chiaramente riconoscere.
D’altro canto, va sottolineato che Netflix è ben cosciente dei suoi meriti, e non ha esitato a celebrarli (e autocelebrarsi) nel documentario La casa di carta: il fenomeno, disponibile insieme alla parte 4, che trasforma la storia produttiva della serie in una sorta di narrazione epica, o di mito delle origini.
Quello che ci auguriamo il nostro Dams possa fare è fornire gli strumenti per identificare la retorica del colosso americano pur riconoscendo, ne La casa di carta, un possibile modello per la serialità europea, e forse anche per quella italiana: una serialità che sappia competere nello scenario globale, che sappia confrontarsi anche con i generi meno frequentati nelle tradizioni nazionali, valorizzare la ricca diversità territoriale e culturale del continente europeo, e costruire personaggi complessi, articolati, combattuti, persino contraddittori, che proprio dalla loro (umana) contraddittorietà traggono molta della forza per appassionarci.
14 Aprile 2020
Di Minello Giorgetti
Le cronache del tempo raccontano che le prime vittime si registrarono il 5 maggio 1656 in due zone della città piuttosto distanti tra loro: una casa nel rione Ponte e un podere alle pendici di Monte Mario. Nel primo caso, un calzolaio perse nello stesso giorno il figlio, la moglie e il genero; nel secondo, morì una bimbetta di sette anni ricoverata al Fatebenefratelli, sembra contagiata da una vignarola al servizio del cardinal Barberini. Ciononostante, le autorità iniziarono a preoccuparsi seriamente solo dieci giorni più tardi, in seguito ad ulteriori tre decessi registrati tra il 15 e il 26 maggio: un marinaio sbarcato a Civitavecchia, un religioso siciliano e un pescivendolo napoletano a Trastevere. Quando poi, ai primi di giugno, al S. Giovanni spirò con i medesimi sintomi un soldato napoletano, non poterono tergiversare oltre e si prepararono ad affrontare la peste a Roma.
Si trattava, in realtà, dell’ennesima manifestazione del flagello che dal Medioevo serpeggiava in Europa e che vent’anni prima aveva già colpito Milano e che Manzoni ha immortalato. Prima di Roma, il micidiale morbo aveva sterminato la Sardegna, Genova e infine il Meridione d’Italia causando quasi 300.000 vittime. A paragone, i quasi 15.000 romani morti sembrano davvero ben poca cosa sebbene il contagio avesse imperversato a lungo devastando interi quartieri e annientando la quasi totalità delle attività. Tuttavia, l’interesse di viaggiatori e dei diplomatici presenti allora nella Capitale, si concentrò sull’efficienza, nonostante i ritardi, dell’organizzazione romana, al punto che vennero pubblicati diversi libri, opuscoli e stampe rievocative che illustravano gli avvenimenti dell’epidemia e le misure prese dai magistrati per alleviarla. Sovente, infatti, in tali pubblicazioni è sottolineata la validità delle disposizioni adottate e, in particolare, la serietà dell’impegno e la dedizione dei vari responsabili preposti.
Tutti elementi che contribuirono, considerati i rimedi di allora, a circoscrivere il contagio e limitarne quanto più possibile la diffusione. Alessandro VII Chigi, l’allora pontefice, non esitò a mobilitare la Congregazione di Sanità, otto cardinali e 28 commissari, due per rione, ognuno con il suo ruolo preciso che andava dal sovrintendere alla disinfestazione di case e suppellettili, alla tutela dei non contagiati e di quelli in quarantena, passando per l’approvvigionamento delle merci e la cura delle famiglie e degli infetti, senza trascurare il mantenimento dell’ordine pubblico e ovviamente, l’eliminazione dei cadaveri.
Non fu facile in pochissimo tempo organizzare il perfetto funzionamento di tutto il sistema ma, per fortuna, venne individuato e messo a capo un Commissario Generale in grado di governare l’emergenza in virtù del suo inflessibile rigore morale unito ad un’energica capacità decisionale. Costui fu il cardinal Girolamo Gastaldi che per salvaguardare accuratamente l’isolamento tra i malati e i sani, in tutte le fasi della malattia, intuì che era indispensabile subito concentrare gli individui infetti in un solo lazzaretto, individuato nella struttura più ampia e centrale del Fatebenefratelli all’isola Tiberina. Il cardinale, pertanto, trasferì innanzitutto i religiosi da quel luogo a Santa Maria della Sanità all’Esquilino e quindi scelse di riservare il più periferico Casaletto di San Pio V, per la posizione rispetto al resto della città e ai vantaggi per l’approvvigionamento idrico, esclusivamente ai confinati all’isolamento in quarantena. Non solo: per renderlo ancor più irraggiungibile, gli abitanti di Trastevere si ritrovarono il 23 giugno improvvisamente segregati dietro uno steccato eretto nottetempo e, poco dopo, sorse un vero e proprio muro munito con otto cancelli sorvegliati da un corpo di guardie armate. Da ultimo, si stabilì di inviare alla “Consolazione” i casi sospetti accertati nei vari ospedali cittadini mentre il Casaletto di Pio V rimase in funzione solo per i convalescenti per un primo periodo di isolamento per concludersi poi nell’edificio delle Carceri Nuove appena ultimato ma non ancora in funzione.
Finalmente, il 7 aprile 1657, nelle chiese della città si udì di nuovo il Te Deum al posto del De profundis fin ad allora cantato. Era il segnale della fine della pestilenza per una popolazione ormai ridotta allo stremo e che, dopo quasi un anno, contava meno di centomila persone; tuttavia, senza le drastiche regole e la rigida condotta adottate dal Cardinal Gastaldi, il numero dei morti sarebbe stato certamente ben più elevato. A chi si lamentava dell’eccessiva severità delle restrizioni papa Alessandro VII rispondeva: “Ci vuole nelle materie odiose chi faccia volentieri lo sbirro”.
Bibliografia
- Crf. Bibl.Ap.Vat, Chig. E, III, 62
- G. Gastaldi, Tractatus de avertenda et profliganda peste politico-legalis eo lucubratus tempore, quo ipse Loemocomiorum primo, mox sanitatis commissarius generalis fuit, peste urbem invadente anno 1656 & 57 Ac nuperrime Goritiam depopulante, typis commissus, Bononiae, Ex camerali Typographia Manolessiana, Bologna 1684
- cfr Strenna dei Romanisti 2000 M.T: Bonadonna Russo pag. 467 489
Immagini
- Prospetto del Casaletto di San Pio V durante la peste del 1656 (Tractatus di G. Gastaldi) - Biblioteca Nazionale Marciana
- Cap. XXIX del Tractatus di G. Gastaldi - Biblioteca Nazionale Marciana
4 MAGGIO 2018
“Un euro investito in cultura ne produce 1,8 in altri settori”. Il dato, fornito dal Prof. Avv. Emanuele F. M. Emmanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale, nel corso della lectio “Arte e Finanza”, tenuta alla Link Campus University, conferma l’idea che la cultura possa produrre ricchezza.
“C’è una pregiudiziale negativa -spiega il Prof. Emmanuele- per un mondo che non si conosce. La politica ritiene, ancora oggi, che l’unico modo di sviluppo economico sia legato all’industria e all’agricoltura, non comprendendo invece appieno che il nostro Paese dispone di un patrimonio artistico importante, capace potenzialmente di generare ricchezza per la Nazione, grazie ai turisti che da tutto il mondo vengono in Italia per scoprirne e ammirarne le bellezze”.
Una diffidenza incomprensibile che porta spesso a situazioni paradossali: “Opere d’arte interessanti e fruibili -conclude il Prof. Emmanuele- restano troppo spesso negli scantinati dei musei. Un vero e proprio mistero alimentato poi dal fatto che, quando un privato desidera utilizzare quel patrimonio per valorizzarlo, gli viene opposto spesso un rifiuto.”.
UFFICIO STAMPA LINK CAMPUS UNIVERSITY
MASSIMILIANO NICCOLI
349.2762619
Link intervista: http://unilink.it/arte-e-finanza/
8 Aprile 2020
Di Marco Emanuele da Formiche.net
Ragione e passione, in questo periodo, sono più che mai in dialettica. Come nel “caso Taranto”, se salvaguardare salute o lavoro, anche nell’emergenza “coronavirus” sembra persistere, almeno secondo The Economist, il tema duale del “salvare le vite” o del “quanto ci costa?”.
Certo ci vuole razionalità, calcolo, un po’ di sano utilitarismo: ma il problema è tutto qui? Panikkar risponderebbe con l’a-dualità, Morin che dobbiamo – à la Pascal – ricongiungere gli opposti. Siamo in linea con questi due pensatori, ben considerando che la “sostenibilità” è un fattore da tenere in conto.
La scelta obbligata tra due linee apparentemente non dialoganti è parte della tragedia del nostro tempo. Se non accettiamo massimalismi in alcun ambito, tanto meno nel pensiero, ciò che è chiaro è che entrambe le linee hanno un senso.
Ha ragione Massimo Cacciari (Huffington Post, 5 aprile 2020): “Per comprendere il capitalismo, è più utile leggere Schumpeter che Freud. Il capitalismo è crisi. È distruzione e creazione. È contraddizione: discontinuità nella continuità. È conflitto. Salti improvvisi, movimenti forsennati, squilibrio. Non ha niente della serena linea retta con cui molti si figurano il movimento della storia”. Se è così, e ne siamo convinti, quella contraddizione dentro al capitalismo può essere moderata nella grande tradizione di democrazie liberali che, se non tirano fuori gli artigli delle loro potenzialità, rischiano di scomparire dal palcoscenico della storia. È inutile stracciarsi le vesti di fronte alla possibilità di democrazie autoritarie, competitive che guardano al risultato prima che ai processi per arrivarci: è una deriva ineluttabile.
Il “calcolo sentimentale” risponde alla logica di un realismo degno di questo nome. Lasciamo agli ottimisti di maniera (coloro che inventano hashtag per consolare l’inconsolabile e gl’inconsolabili) di anelare al nuovo mondo possibile; lasciamo ai pessimisti di maniera di disegnare scenari di una fine imminente (tanto la storia, tragicamente birichina, ritorna sempre).
Ci interessa un realismo che definiamo “complesso”. Non più o/o ma e/e. Un realismo che, per diventare tale, visione storica, deve fare i conti con la realtà di una politica schiacciata tra la sua assenza e la presenza pervasiva dei tecnici e dei competenti. Essa è come il “comune”, ciò che istituisce le nostre democrazie liberali a rischio di estinzione, schiacciato tra il privato e il pubblico.
Continuiamo a non capire che la storia non è lineare. Una pandemia dopo l’altra, infatti, ci facciamo sempre la stessa domanda. Dischi rotti. Pensiero e decisione: questo serve. E capacità di comunicazione nella crisi: ciò che è tragicamente mancato. Non riusciamo a capire cosa sarà di noi tra una settimana e, intanto, continuiamo a non capire che la realtà tutta intera non può essere affrontata, consapevoli che sempre ci sfuggirà, in maniera separata e senza un’alleanza strategica tra politica, scienza, cultura e amministrazione. Ciascuna, s’intende, nella propria autonomia.
Confondiamo, separiamo, mutiliamo. Anziché gridare al vento, o rinchiuderci nei nostri specialismi, caliamoci nella realtà. Tanto, prima o poi, un’altra pandemia tornerà. Fa parte delle possibilità, nel grande mare dell’imprevedibile che governa le nostre vite.
07 Aprile 2020
Di Piero Schiavazzi da Huffington Post
Logos versus virus. Covid – 19 contro anima mundi.
Da Domenica delle Palme a Domenica dei “palmari”. Al posto del tappeto di mantelli e rami d’ulivo, Bergoglio ha “virtualmente” fatto ingresso, dai tablet e dagli schermi televisivi, nella settimana cruciale dell’anno liturgico.
Davanti alle piazze vuote, Francesco raccoglie la sfida, ineludibile per un Papa, di riempirle di senso. Sentendo sotto di sé “la certezza che si sgretola” e sopra le spalle il peso della storia. Con la memoria, recente o antica, di celebri duelli epocali. Tra pieghe degli anni e piaghe degli uomini.
Cercando nell’aria il nemico invisibile. Diverso dalle frecce a tre punte dei cavalieri unni. Dalle spade a due mani dei fanti lanzichenecchi. Dalle fortezze, volanti e gravide, che rasero al suolo San Lorenzo. E optando al dunque per la strada del logos, in luogo del patos.
Scegliendo, sul crinale scosceso tra le sue due anime, la via cognitiva, endoscopica, ignaziana del discernimento, piuttosto che quella emotiva, esoterica, sudamericana del sentimento.
“Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio”.
Giudizio severo. Da ultima spiaggia. Tirato a lucido da una pioggia leggera e indirizzato a un mondo che, avrebbe detto il predecessore, “soffre per mancanza di pensiero”. Discorso duro, divaricato tra i toni, sussurrati teneramente al microfono, e i contenuti, che riecheggiano segnatamente all’unisono e tracciano una linea, retta e senza soluzione di continuità, tra il monastero Mater Ecclesiae, residenza del papa emerito, e la Domus Sanctae Marthae, negli headquarters del papa regnante.
“Con la tempesta, è caduto il trucco ed è rimasta scoperta quella’appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci …”
C’è un nervo geopolitico e teologico che connette sottile, ipersensibile, i settennati di Bergoglio e Ratzinger. Divisi, più di quanto sia dato percepire. Uniti, più di quanto si possa concepire.
Lontani nella visione di Chiesa. Vicini nella concezione del mondo. Dialettici e distanti nell’analisi economica (Benedetto è un liberale illuminista e trascendente, Francesco un anticapitalista viscerale, impenitente) ma collimanti e univoci nella sintesi profetica.
Concordi ambedue nel giudizio, di fondo, sulla globalizzazione: un trend epocale che oggi subisce da dentro l’attacco esiziale, pestilenziale del coronavirus, ma che al loro sguardo realizza nondimeno ed esaudisce, provvidenziale, l’anelito divino di unificazione del genere umano. Come non si era visto prima nella storia.
Insomma, Dio lo vuole. Conclusione che in Bergoglio, papa di estrazione creola e attrazione sinica, si staglia in effetti conseguente, quasi tautologica, mentre in Ratzinger, europeista e sommo apologeta dell’imprinting greco - romano del cristianesimo, appare di per sé sorprendente, specie considerandone la portata teologica.
Eppure è stato proprio lui nel 2009, attraverso le pagine di Caritas in Veritate, a porre l’imprimatur di un’enciclica sul fenomeno dell’integrazione planetaria, riconoscendole un’anima e sancendone l’ascesa, nonché ascesi, dal piano sociale a quello dottrinale, quale “conditio” indispensabile alla sua comprensione: “La transizione presenta difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell’anima etica e antropologica, che dal profondo sospinge la globalizzazione...”.
Concetto etico che in Francesco si materializza ed evolve in precetto etnico, alla stregua di verbo che si fa carne: non solo unione di anime, ma fusione di razze. Con il monito esplicito, pronunziato in febbraio sul lungomare di Bari al cospetto dei presuli del Mediterraneo, a non “contrastare il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità”.
Se tuttavia le “avversità”, fino ad oggi, erano in primo luogo riconducibili ai populismi - sovranismi, nei cui confronti Bergoglio, proveniente da un paese peronista, sviluppa e possiede gli anticorpi del caso, il corona virus costituisce per contro un nemico inatteso, imprevisto, che trasferisce il terreno del contendere dall’ambito morale, delle coscienze, a quello subliminale dell’inconscio.
“Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca …”.
È come se la guerra mondiale a pezzi, mutuando la nota suggestione di Francesco, si fosse miniaturizzata e velocizzata, convertendosi da guerra di posizione in guerra lampo. Saldando in tempo reale l’umanità, sì, ma nella paura. E rimandando indietro, in flashback l’avventura del pontificato. Riavvolgendo il nastro del film e capovolgendone seduta stante la scena iniziale.
Quando infatti appena eletto l’arcivescovo di Buenos Aires rinunciò in un sol colpo, il 13 marzo 2013, al “palazzo” e alla “mozzetta”, per cingersi al loro posto di “popolo” e di “piazza”, non avrebbe pensato mai sette anni dopo di ritrovarsi a vivere la ricorrenza privo di entrambi.
L’unica “spoliazione” alla quale il pontefice, a dispetto della duplice predisposizione - argentino di nazione, assisiate di adozione - non era preparato. Sperimentando in modalità estrema il mistero e ministero della solitudine, indotta nel DNA di un Vicario di Cristo dall’incubatrice michelangiolesca della Sistina. Mutazione genetica che lo rende concettualmente l’uomo più prossimo a Dio ma pure, contestualmente, il più solo al mondo. Non solo servo bensì “nervo”, scoperto ed esposto ai sovraccarichi e cortocircuiti storici. Servo dei servi e, in definitiva, nervo dei nervi di Dio. Assimilandone la figura - oltre che a un ponte - ad un “fusibile”: paziente zero e portatore sano, filo conduttore della contraddizione insanabile, dell’orizzonte inconciliabile, in questa vita, tra cielo e suolo, natura e cultura, terra promessa e valle di lacrime, ospedali da campo e camere sterili.
Come se la creazione avesse mostrato improvvisa il suo lato dark (in alternativa si sarebbe costretti a prendere sul serio il ruolo di “alleato”, improvvidamente attribuito a Covid – 19, con una lettura estremistica di Laudato si’, dal gesuita Benedict Mayaki), separando poesia e prosa. Rompendo l’incanto amazzonico, ecologista della Chiesa di Francesco e atrofizzandone la capacità di reazione, che risulta e risalta inizialmente disorientata (di “sbandamento della leadership cattolica”, in proposito, ha lucidamente parlato Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio). Sino allo stop and go aneddotico, catartico della chiusura e riapertura delle parrocchie romane, disposta e revocata nell’arco di poche ore, proprio il 13 marzo, in un dietrofront da Quo Vadis, “Le misure drastiche non sempre sono buone”, ha sentenziato il successore di Pietro, celebrando la messa, dimessa, dell’anniversario e avvertendo impellente, inderogabile, la necessità di una scossa – riscossa.
Corto circuito mediatico tra esigenza evangelica e diligenza civica, tra Chiesa in uscita e Chiesa in ritirata (“In tempi di pandemia non si deve fare il Don Abbondio”, ha intimato al clero). Insostenibile impasse che ha spinto il Pontefice alla sortita, di Domenica pomeriggio, inoltrandosi solitario sulla via principale del centro cittadino, stretta e allungata, vuota e surreale come il tubo pulsante di un macchinario di risonanza magnetica. Per fare eco alle angosce, al rimbombo del mondo e trasformarlo in icona, silente, davanti al crocifisso “antivirus” di San Marcello al Corso, reduce dalla peste del 1522.
Immagine potente che assurge diagnostica, rivelatrice nella hit e galleria delle più significative del settennato e investe il nucleo stesso dell’esperienza di Francesco, spezzandolo e scindendolo in due, tra genesi e nemesi. Rovesciandone altresì e rinviandone l’esito sine die.
Avviene in Urbe, sul piano interno, ecclesiale, dell’evangelizzazione. Opponendo al messaggio e impegno missionario del papa gesuita, di portare la Chiesa fuori da se stessa, l’epilogo del vescovo che esce dalle mura e si aggira per la città deserta, dimora di un’umanità fortemente, forzosamente rarefatta: costretta in casa. Contrappasso feroce, da inferno dantesco, dell’individualismo e assenza di socialità – nell’era dei social -, che Francesco ha tenacemente, continuamente denunciato in guisa di male oscuro del millennio testé iniziato.
E accade in Orbe, sul piano esterno, internazionale, della globalizzazione. Posponendo in maniera indefinita il disegno e miraggio prioritario di Bergoglio, di tagliare il traguardo di Pechino: un obiettivo che sembrava sino a ieri a portata di mano, a seguito dell’accordo di settembre 2018 sulla nomina della gerarchia episcopale, ma oggi è tornato tout azimut proibitivo. Azzerando il countdown con una brusca frenata, mentre il paese leader dell’Occidente, colpito al cuore – nei centri vitali e diventato esso stesso epicentro - da una nuova Pearl Harbor, punta il dito e il dizionario all’indirizzo dell’Oriente, sul chinese virus e sul paese dal quale trae origine il flagello, fra guerre commerciali e revival dello scontro di civiltà.
In crudele analogia clinica con lo sviluppo del contagio, il morbo s’insinua dunque in profondità e insidia le vie respiratorie, innovative, del pontificato. La sua geografia e architettura diplomatica, protesa verso la Cina e l’Asia, per risalire la china di un cattolicesimo ancora fermo al tre per cento nel continente del futuro. La sua topografia e postura programmatica, distesa sulla teologia della città e sulla “scoperta di quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze … in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita”, recita Evangelii Gaudium, magna carta di Francesco.
Verosimilmente, sotto tale profilo, Covid -19 configura il nemico peggiore insorto fin qui sul cammino di Bergoglio, per l’attitudine a colpirne gli asset strategici e inibirne la narrazione, mirando ai luoghi “dove si formano i nuovi racconti e paradigmi” della Dottrina Sociale, dalle metropoli al Far East.
Un settimo sigillo e stigma bergmaniano, sull’agenda di un munus petrino che Padre Antonio Spadaro, fidato interprete, in tempi non sospetti connotò drammaticamente, sette anni fa, nel segno del confronto decisivo, da redde rationem, “tra il principe di questo mondo e il Signore della storia”.
Venerdì 27 marzo, ante-vigilia della risurrezione di Lazzaro. Come nell’episodio evangelico, la Chiesa giunge in ritardo sul luogo del dolore, ma si riprende subito, impareggiabile la scena, con una liturgia spettacolare, che catalizza l’audience e scala lo share. “Da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, da questo colonnato che abbraccia Roma …”
Erano tre lustri, dal funerale di Giovanni Paolo II e conseguente raduno dei grandi della terra sul sagrato gremito della basilica, che Roma non si mostrava così splendidamente, magistralmente “caput mundi”. Tratteggiando l’icona sovrana, contraltare, complementare di un re nudo nella sua solitudine: ma re.
Come una maison che dopo avere sperimentato il design alternativo del Giubileo 2016, start-up in Africa e produzione world-wide, riscopre il segreto e la romanità del proprio brand, nell’attitudine a confezionare, dall’Urbe, una visione dell’Orbe unitaria e prêt-à-porter: di massa e made in Rome.
Dall’abbraccio marmoreo del colonnato e quello incorporeo del web, l’Urbe ritorna quindi capitale. Ma l’Orbe, per effetto collaterale del corona virus, anziché presentarsi più coeso esaspera le disparità, pure all’interno della UE. Tra Nord e Sud, tra Est a Ovest: tra il Gruppo di Visegrad e i soci fondatori, su garantismo e autoritarismo. Tra luterani baltici e cattolici mediterranei, su intransigenza e “indulgenza” finanziaria.
“Le polarizzazioni sempre più forti non aiutano a risolvere i problemi”.
A immediata conferma del presagio del Pontefice, Covid - 19 conduce a maggiore età - cronicizzando ma non stabilizzando - l’era del disordine globale, inaugurata 18 anni prima, l’11 settembre 2001, al termine del breve, illusorio intermezzo del post guerra fredda, durato in tutto una dozzina d’anni, dal Muro di Berlino alle Twin Towers, e “dopato”, anabolizzato dal siero di verità della “fine della storia”.
Le polarità si moltiplicano e s’incrociano, in una serie di applicazioni geografiche o ideologiche, tra East e West, Meridioni e Settentrioni.
Tra l’East espansivo e guarito, lanciato a riconquistare, o estendere, la propria zona “d’influenza, lungo la via della silk and road initiative. E il West regressivo e ferito, lasciato a contare - contenere la perdita, crescente, di terreno e di vite.
Tra i Settentrioni, stremati ma organizzati: complessivamente in grado di opporre resistenza. E i Meridioni al contrario senza rete, disarmati, esposti al rischio di ecatombe biologica. Prospettiva che terrorizza il Vicario di Cristo. Come se l’inferno, schiacciato e tenuto a freno dal piede divino, si preparasse all’escalation dallo slum di una megalopoli africana o dalla botola di un campo profughi damasceno.
Infine tra le democrazie, che salvaguardano la struttura dello stato di diritto, e le autocrazie, che viceversa tirano dritto: attrattive, volitive, infettive. Approfittando della congiuntura per smantellarlo e volgerlo de facto in dittatura.
L’epidemia in definitiva disegna e ci consegna un mondo più piccolo e più grande, accorciando ed allungando, annientando ed aumentando in simultanea le distanze.
“Siamo sulla stessa barca”: nell’atrio di San Pietro, il Papa osserva il film a lieto fine del lago in tempesta, che campeggia sopra di lui dal mosaico giottesco. Fuori tuttavia, nel fascio di luce cinematografica del tramonto, il vascello della comunità internazionale evoca piuttosto la scialuppa del Titanic, dove l’istinto di sopravvivenza dei singoli prevale, scomposto, sulla consapevolezza “che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo”.
Diagnosi e prognosi, discorso e decorso separano destini e rotta di navigazione, al comando dei rispettivi capitani, che remano in opposte direzioni.
La barca è una, vero. Però l’equipaggio litiga e la sbilancia. Mentre l’onda di ritorno della recessione la spinge alla deriva. Impetuosa, imperiosa. Impedendole di raggiungere la terra e gettare l’ancora.