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941. Who is Who: Mike Pompeo  
19 Marzo 2018 di Lorenzo Zacchi - 14 marzo 2018 Nome: Mike Pompeo Nazionalità: Americana Data di nascita: 30 dicembre 1963 Ruolo: Segretario di Stato degli Stati Uniti, ex direttore della CIA Donald Trump, con un tweet, ha annunciato l’allontanamento di Rex Tillerson dal ruolo di Segretario di Stato, sostituendolo con l’ex direttore della CIA Mike Pompeo. Fatali per Tillerson le ultime dichiarazioni sulla Russia, e le divergenze di vedute con il presidente americano su Iran e Corea del Nord. Ma chi è Mike Pompeo, nuovo uomo dell’amministrazione Trump? Mike Pompeo nasce il 30 dicembre del 1963 a Orange, in California, da una famiglia di origine italiane. Nel 1982, si è diplomato alla Los Amigos High School di Fountain Valley, e successivamente, nel 1986, si è laureato in ingegneria meccanica come primo nella sua classe presso l’Accademia Militare degli Stati Uniti a West Point. Nel 1994 ha conseguito un dottorato in giurisprudenza presso Harvard. Dal 1986 ha prestato servizio militare come ufficiale di cavalleria di pattuglia presso il Muro di Berlino, sino alla sua caduta. Nel 1991 ha partecipato alla Guerra del Golfo in Iraq e Kuwait. E’ stato membro del Congresso eletto in Kansas per la Camera dei rappresentanti dal 2011 al 2017 con il Partito Repubblicano, distinguendosi per le sue posizioni oltranziste e radicali. E’ infatti considerato un “Falco”: giudica l’accordo nucleare con l’Iran una sconfitta per gli Stati Uniti, si oppone alla chiusura di Guantanamo, ha sempre avuto una posizione intransigente nei riguardi della Corea del Nord. Al contrario, Pompeo ha avuto una posizione piuttosto indulgente sul caso Russiagate. E’ inoltre un forte sostenitore del Secondo Emendamento, e si è sempre espresso a favore del Patriot Act e della raccolta delle informazioni in chiave anti-terroristica operata dalla NSA. Sostenitore di Marco Rubio alle primarie repubblicane, dopo la vittoria di Trump si è prontamente legato al futuro presidente americano, preparandolo sulle strategie di sicurezza nazionale e consigliandolo su tematiche di politica estera in campagna elettorale. Nel gennaio del 2017 Donald Trump lo nomina direttore della CIA: secondo i più critici il neo presidente si sarebbe affidato a Pompeo per bilanciare il caso Russiagate, inserendo a capo dell’agenzia un suo uomo. Al contrario, secondo i suoi fautori, durante la gestione della CIA, l’attuale Segretario di Stato ha dimostrato doti importanti per svolgere il nuovo incarico alla Casa Bianca: conoscenza e controllo di crisi e sfide globali complesse. Le capacità di Pompeo saranno subito messe a dura prova: a lui il compito di preparare lo storico incontro tra Trump e il leader nordcoreano Kim. Una svolta che potrebbe essere epocale per il nuovo corso dell’amministrazione Trump.  
942. Bando di Concorso “GIOVANI AUTORI ” per n. 12 borse di studio  
6 AGOSTO 2018 “GIOVANI AUTORI” è un progetto di formazione avanzata di scrittura e drammaturgia teatrale promosso da Khora.Teatro, in partenariato con Link Theatre e sostenuto da Siae, che ha l’obiettivo di formare autori e drammaturghi under 30, selezionati con prove di ammissione, in grado di rispondere alle richieste culturali e professionali della scena contemporanea. Il percorso didattico, attraverso il lavoro con docenti professionisti, si concentra sulla funzione drammaturgica nella creazione di un testo teatrale, sviluppa un approfondito lavoro di analisi critica e l'esercizio di differenti generi e forme di scrittura. “GIOVANI AUTORI” è un’occasione per acquisire strumenti di base riguardanti le strutture drammaturgiche, le tecniche e le modalità registiche. Attraverso la “mise en scène” verranno realizzati alcuni corti teatrali. I testi prodotti verranno pubblicati, depositati in SIAE e gli autori iscritti. I giovani coinvolti potranno sviluppare una concreta professionalità nel campo della scrittura perché il percorso di approfondimento teorico e pratico mira a una consapevolezza non solo dei processi di scrittura creativa nell'ambito del teatro, ma anche all'approfondimento dei processi necessari alla realizzazione delle opere. Le attività laboratoriali si svolgeranno interamente presso il complesso architettonico del “Casale di San Pio V”, sede del campus universitario della LINK CAMPUS UNIVERSITY, mentre le “mise en scène” avranno luogo presso il Teatro Piccolo Eliseo di Roma. Le domande devono essere inviate, a pena d’inammissibilità, entro e non oltre le ore 12.00 del 24 agosto 2018. VISUALIZZA BANDO Per informazioni: e-mail: progettogiovani@khorateatro.it  
943. Democracy and Authoritarianism in Asia  
19 Marzo 2018 21 marzo - Dalle ore 9.00 alle 11.00. Working Language: English. Prof. Luis Tomé - Professor Associado, Coordenador Científico do OBSERVARE - Departamento de Relações Internacionais - Universidade Autonoma de Lisboa – UAL Discussant: Prof. Gabriele Natalizia  
944. Il corridoio sciita dell’Iran verso il Mediterraneo: tra mito e realtà  
09 Aprile 2018 di Lorenzo Zacchi - 8 aprile 2018 I diversi conflitti nati dopo la parentesi delle primavere arabe hanno cambiato la fisionomia della Medio Oriente, e hanno permesso all’Iran di incrementare la propria posizione nella regione. In Siria, in Iraq, nello Yemen e in Libano la Repubblica Islamica nell’ultimo decennio ha massimizzato il proprio potere, ed ha gettato le basi per concretizzare il noto arco di influenza che da Teheran arriva al Mediterraneo, creando diversi campanelli di allarme a Washington e trai principali alleati statunitensi nella regione. Ma quanto è prioritario l’accesso al Mediterraneo per l’Iran? Si da ormai per scontato che gli scenari che viviamo tutt’ora in Medio Oriente siano frutto delle primavere arabe, e che l’arco di crisi partito dalla Tunisia nel 2011 sia inesorabilmente arrivato a colpire il cuore del mondo arabo con il conflitto siriano e quello yemenita. In realtà gli sconvolgimenti nella regione mediorientale iniziano da molto prima, con la Rivoluzione iraniana del 1979 che ha causato il primo grande cambiamento di rotta, portando la nuova Repubblica Islamica a intraprendere una serie di rinnovamenti nella politica estera che hanno influenzato il futuro del Medio Oriente. Un’altra causa principale dell’attuale situazione regionale è senza dubbio l’intervento statunitense in Iraq e il conseguente rovesciamento del regime di Saddam Hussein, che ha dato il via all’acuirsi dello scontro settario, ma principalmente politico, tra gli sciiti e i sunniti. I conflitti attuali in Medio Oriente sono il frutto e la conseguenza di diversi fenomeni politici, non riconducibili semplicisticamente ai tumulti iniziati nel Nord Africa nel 2011. Quel che è certo, però, è che l’Iran è stato in grado di approfittare dei recenti conflitti, prima in Iraq, poi in Siria e nello Yemen, per massimizzare la propria influenza in quattro capitali della regione, riuscendo ad esercitare un notevole ruolo su alcuni tra i principali stati arabi e dimostrando di essere pienamente uscito dalla fase di impasse nella quale era caduto a seguito della guerra con l’Iraq. L’Iran, come noto, fa parte dei cosiddetti “stati canaglia” per gli Stati Uniti, e di conseguenza una sua scalata ai vertici del potere mediorientale mette in allerta Washington e i suoi principali alleati regionali. Negli ultimi anni si è dato risalto, i termini negativi, alla cosiddetta “Land Route to the Mediterranean”, cioè un corridoio sciita che da Teheran arrivi sino al Mediterraneo, grazie a porzioni di terreno controllate dall’esercito iraniano o da milizie alleate. Una delle tesi più accreditate, che vede l’Iran aumentare notevolmente la capacità di deterrenza nei confronti del principale nemico regionale, Israele, e un accesso facile al Mediterraneo. Ma quanto è reale questo obiettivo per l’Iran? Per provare a rispondere a questo quesito è necessario stilare un elenco dei principali obiettivi strategici che la Repubblica Islamica persegue per mantenere i propri interessi vitali, per capire quanto sia prioritario il completamento della rotta verso il Mediterraneo. L’obiettivo primario per Teheran, al quale nessun governante può rinunciare, è il controllo della popolazione interna. E’ la principale fonte di preoccupazione per l’establishment, qualunque sia l’estrazione politica-religiosa. Il controllo della popolazione interna, con una grande attenzione per le minoranze etniche, è fondamentale per il mantenimento dello status quo. I cambiamenti politici nel corso degli ultimi due secoli in Iran sono avvenuti in seguito a grandi manifestazioni di piazza, e le manifestazioni viste a cavallo tra dicembre 2017 e gennaio 2018 (per quanto caratterizzate da una matrice economica), sono un campanello d’allarme per il governo iraniano che non può essere sottovalutato. Le divergenze etniche, inoltre, sono da sempre un pericolo per la tenuta interna del paese, essendo fortemente influenzabili da potenze esterne. Nonostante la parte centrale del paese sia costituita principalmente da abitanti di etnia persiana, sui confini si trovano importanti minoranze. Le più pericolose per la stabilità di Teheran sono quelle formate da arabi e curdi: i primi, che si trovano nel Khuzestan, sono posizionati in una porzione di terreno ricca di giacimenti di petrolio e in passato sono stati fonte di instabilità per il governo centrale iraniano. Per i secondi, i curdi, che rappresentano circa il 7% della popolazione, l’Iran nutre un sentimento di avversione storico, dovuto alle reminiscenze della guerra con l’Iraq, quando i curdi iracheni si unirono a Saddam nella lotta con Teheran. Inoltre, nel nuovo corso iracheno, i curdi hanno guadagnato importanti concessioni dal punto di vista dell’autonomia, e hanno accresciuto esponenzialmente il proprio profilo militare. Queste dinamiche hanno influenzato i vicini curdi iraniani, che negli ultimi anni si sono contraddistinti nella ricerca di autonomia, volta a conservare la propria cultura non-persiana. Il controllo capillare della regione curda è quindi fondamentale per la tenuta del paese, e offre il pretesto per espandere le maglie del controllo oltre i confini iracheni. Il secondo obiettivo da perseguire, per l’Iran, è quindi collegato al primo: il controllo dei territori a nord-est di Baghdad. La provincia di Diyala è la porzione di terreno dove maggiormente è presente il ruolo dell’Iran, ed è usata come base per proiettare l’influenza su tutto il confine iracheno-iraniano. Diverse cittadine, come Basijii, sono sotto il controllo di milizie sciite legate a doppio giro con Teheran. Il controllo di rotte stradali che partono da Diyala accrescono l’influenza iraniana sulla regione e mettono pressione alla provincia curda irachena. Un fattore importante, che mette in sicurezza tutto il confine occidentale dell’Iran. Un obiettivo iraniano che si è chiaramente visto negli ultimi anni è quello del mantenimento di un regime amico a Damasco, che possa garantire gli interessi iraniani nel territorio siriano. L’Iran si è impegnato nella battaglia a fianco di Assad, contro le formazioni di estrazione sunnita che minacciavano la tenuta stessa del regime, viste da Teheran come proxy dei paesi sunniti che avevano l’interesse nel far decadere il regno alawita degli al-Assad. In Siria sono presenti numerose sacche di influenza iraniana, tramite diramazioni dirette delle Guardie della Rivoluzione (specialmente sul confine iracheno-siriano) o milizie sciite vicine all’Iran, che forniscono a Teheran un peso notevole sul futuro del paese. Fondamentale per l’Iran è integrare sempre più Hezbollah nella vita politica del Libano, per influenzare ancor di più le decisioni di Beirut. Inoltre la presenza di Hezbollah nel sud siriano, oltre che libanese, fornisce una costante funzione di deterrenza nei confronti di Israele. Controllo delle zone occidentali dello Yemen tramite la miliiza degli Houthi, oramai a controllo di larghe porzioni della capitale Sanaa. Questa strategia porta all’Iran tre diversi potenziali vantaggi: un peso specifico sulla futura ricostruzione politica yemenita; un fattore di instabilità nel confine meridionale dell’Arabia Saudita, che si vede costretta ad impegnarsi in un conflitto che rischia di deteriorarla militarmente (sono ormai costanti gli attacchi tramite missili balistici degli Houthi contro postazioni petrolifere nel sud del regno saudita o contro la capitale); il potenziale controllo, anche se indiretto, dello stretto di Bab el-Mandeb, che congiunge il Mar Rosso con l’Oceano Indiano e importantissimo dal punto di vista commerciale. Il mantenimento del controllo dello stretto di Hormuz, strategica gola del Golfo Persico, fondamentale via commerciale per il traffico del petrolio mondiale. Nonostante sia considerato al pari di un atto di guerra, l’Iran ha minacciato diverse volte di chiudere lo stretto di Hormuz, e può usare questa carta sul tavolo delle trattative internazionali, oltre che nel consolidare la propria influenza nella regione mediorientale. Sviluppo del programma missilistico: l’aumento dei fondi destinati al programma dell’ultimo anno confermano la volontà dell’establishment iraniano di perseguire il consolidamento della capacità missilistica. Diversi analisti militari giudicano l’arsenale balistico di Teheran il più completo e avanzato della regione. Oltre alla varietà di missili a breve e medio raggio, che garantiscono un importante sistema di difesa per il paese, e accrescono la capacità di deterrenza sullo stretto di Hormuz, nel settembre del 2017 l’Iran ha testato un missile nominato Khorranshahr, una versione iraniana del nord coreano Hwasong-10, con una gittata di oltre 2000 chilometri, dimostrando di poter colpire i principali nemici nella regione: Israele e Arabia Saudita. Per concludere, il corridoio sciita rappresenta, più che un accesso al Mediterraneo, un insieme di zone di influenza che l’Iran può sfruttare per condizionare le decisioni politiche dei paesi vicini. La cosiddetta “rotta per il Mediterraneo” va inquadrata in questo senso: un aumento del già forte soft power in scenari di forte instabilità nel mondo arabo. Un corridoio che quindi non avrà l’utilità di portare armi ai proxy iraniani nella regione: la rotta preferita per il trasporto di armi da parte di Teheran è da sempre quella aerea. Anche prima del conflitto siriano la via aerea è stata la più utilizzata dalla Repubblica Islamica per raggiungere le diverse milizie, passando per Damasco: stessa modalità utilizzata anche nel pieno del conflitto e tutto lascia pensare che il metodo continuerà ad essere lo stesso. Una via terrestre, per quanto possa a livello teorico congiungere Teheran con il Mediterraneo, è difficilmente difendibile da eventuali rappresaglie di cellule e milizie sunnite, ed è intercettabile dalle forze statunitensi nell’area: le vie di rifornimento sarebbero troppo allungate, ed il tempo e i costi per il trasporto maggiormente elevati. Inoltre nulla lascia pensare che all’Iran interessi una via di accesso al Mediterraneo: andrebbe standardizzata una dottrina militare che sembra voler continuare a perseguire la strada della difesa asimmetrica, che tanti risultati ha dato nell’ultimo decennio alla Repubblica Islamica. L’Iran continuerà ad investire la maggior parte del budget per la difesa nelle Guardie della Rivoluzione, e difficilmente un accesso al Mediterraneo può portare reali benefici in termini militari al paese. La rotta per il Mediterraneo, il corridoio sciita, sono quindi una serie di zone cuscinetto che permettono all’Iran di rafforzare la propria difesa, espandendo i confini e identificando determinate zone strategiche come fondamentali per la propria sicurezza nazionale. Una Siria alleata e una maggiore presa sulla politica di Baghad tramite l’esportazione del modello Hezbollah in Iraq, utilizzando le milizie sciite che si sono enormemente rafforzate sui campi di battaglia e ormai pronte a convertirsi in veri e propri movimenti politici, sono gli imperativi da perseguire per l’Iran: una strategia di influenza che si sovrappone perfettamente al corridoio sciita che Teheran ha costruito nel tempo.  
945. Le ragioni strategiche dello strike americano sulla Siria  
16 Aprile 2018 di Gabriele Natalia Come spiegato da Alessandro Colombo in “Tempi decisivi”, le crisi svolgono la funzione di svelare le verità che si celano all’ombra del confronto tra gli stati. Il bombardamento ordinato dalla Casa Bianca, oltre alla volontà punitiva nei confronti di Bashar al Assad, è sembrato volto più che altro alla ricerca di un effetto “smascheramento”. L’obiettivo, per il momento, è stato ottenuto. A essere smascherati sono stati, anzitutto, i reali rapporti di forza tra l’America e i suoi rivali strategici. Nonostante la diatriba sul numero dei missili tomahawk intercettati dai russi, è emerso ancora una volta che quando i nodi della politica internazionale vengono al pettine e si passa dalla guerra “sotto altre forme” al ricorso diretto alla violenza nessuno – neanche Mosca – è nelle condizioni di sfidare Washington. La sostanziale passività della Russia, inoltre, svela il fatto che il suo impegno in Siria non abbia quale suo obiettivo prioritario né la salvezza del regime baathista, né la lotta allo Stato Islamico, ma la preservazione delle sue posizioni strategiche a Tartous e Latakia. D’altro canto, viene svelato anche il peso specifico in campo militare dell’Iran. Il contributo di Teheran è stato determinante per la riconquista di alcune importanti città siriane, ma risulta ininfluente quando dalla dimensione terrestre dei combattimenti si passa a quella aerea. Infine, il bombardamento lancia un monito a Damasco. Riafferma, infatti, la disponibilità degli americani al ricorso alla forza quando le “linee rosse” tracciate da Washinton vengono superate, a differenza di quanto accaduto nell’estate del 2013 con l’Amministrazione Obama. Questa dimostrazione potrebbe dissuadere per il momento Assad a realizzare la riconquista del settore nord-est della Siria in mano alle milizie curde. Il secondo “smascheramento” riguarda i rapporti tra gli Stati Uniti e i loro alleati. Il sostegno fornito da Gran Bretagna e Francia, da un lato, rafforza ulteriormente la special relationship tra Washinton e Londra, una scelta obbligata per Downing Street dopo la Brexit; dall’altro, evidenzia il nuovo corso dei rapporti tra la Casa Bianca e l’Eliseo, al di là delle differenze personali di stile e cultura politica di Trump e Macron. Allo stesso tempo mette a nudo la verità rispetto a due alleati come Israele e Turchia, che negli ultimi anni hanno assunto posizioni quanto meno ambigue nei confronti della Russia. Sia Gerusalemme che Ankara hanno assunto pubblicamente una posizione favorevole allo strike, che resterà da vedere se potrà modificare il corso delle loro relazioni con Mosca. Dalla prospettiva italiana, invece, almeno per una volta l’assenza di un governo con “pieni” poteri sembra essere una fortuna (a dispetto di quanto dichiarato dal presidente della Repubblica Mattarella). L’interesse dell’Italia è quello di evitare la degenerazione dei rapporti tra Stati Uniti e Federazione Russa, che metterebbe in crisi l’equilibrismo politico che vuole Roma da sempre alleata di Washington, ma con ottimi rapporti con Mosca, per compensare la sua debolezza in sede europea. Un ulteriore peggioramento delle relazioni tra le due potenze ci costringerebbe a una scelta, che non è difficile immaginare sarebbe quella del campo occidentale qualunque sia il nuovo esecutivo. Ma, per l’appunto, il governo ancora non si è formato e l’Italia si può permettere il lusso di non decidere.  
946. Stati Uniti e Russia: ancora una volta rivali strategici  
03 Maggio 2018 da affaritaliani.it di Gabriele Natalizia, docente Link Campus University Lorenzo Zacchi, Centro Studi Geopolitica.info Il mondo sta per essere trascinato in una nuova “Guerra fredda”? È una delle domande a cui si è provato a rispondere nella conferenza Le relazioni tra Russia e Occidente nell’area Baltica e nel Caucaso. A cento anni dalla fine della Grande guerra, recentemente organizzata dalla Link Campus University con la collaborazione della Fondazione Egor Gaidar e della Fondazione Roma Sapienza. La dinamica di potere tra Stati Uniti e Unione Sovietica ha costituito per quasi mezzo secolo la vicenda centrale delle relazioni internazionali: due blocchi contrapposti, guidati da altrettante superpotenze alla ricerca dell’affermazione di un’egemonia globale, legittimata da modelli politici, economici e sociali antitetici. Una divergenza di interessi, quella tra Washington e Mosca, che da molti era spiegata con il ricorso alla variabile domestica: la rivalità avrebbe trovato origine nelle profonde differenze tra i rispettivi regimi politici delle due potenze. Questa era l’interpretazione di George Kennan nel famoso Long Telegram del 1946. Gli assunti del telegramma, poi riformulati in un famoso articolo di Foreign Affairs firmato da Mister X, furono radicalmente contestati da Walter Lippmann. Quest’ultimo interpretava la ricerca sovietica di una sfera d’influenza sull’Europa orientale e di un accesso al Mediterraneo come un’eredità dell’Impero zarista e, pertanto, sosteneva che doveva essere trattata come una “costante” della politica estera russa, dettata da condizioni esterne anziché interne. Il mutamento sistemico seguito al collasso dell’URSS, che ha determinato il passaggio dal sistema bipolare a quello unipolare a guida-statunitense, ha costituito la cornice da cui è scaturita la ben nota teoria di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”. Questa ha condizionato profondamente il dibattito sia politico che scientifico in tutto il mondo per tutto il corso degli anni Novanta e Duemila. Meno noto al di fuori della comunità accademica, ma intimamente collegato alla prima, è stato il cosiddetto approccio transitologico, secondo cui la democrazia avrebbe avuto la capacità di attecchire universalmente e senza pre-condizioni. La “terza ondata di democratizzazione”, iniziata nel 1974 in Portogallo e culminata con il crollo dei regimi comunisti in Europa orientale nel 1989, sembrava confermare l’esattezza di tale lettura dei profondi mutamenti in corso. All’interno del nuovo contesto politico-strategico post-Guerra fredda, quindi, una parte cospicua dell’élite americana si convinse della possibilità di integrare la Federazione Russa nell’ordine liberale, qualora il suo processo di democratizzazione avesse prodotto un esito positivo. Tale convinzione ha trovato riscontro nel tentativo dei primi tre presidenti degli Stati Uniti eletti dopo il 1991 di integrare la Russia nel nuovo ordine internazionale: Bill Clinton con la politica del Russia first, George W. Bush con la collaborazione nella Global war on terror e Barack Obama con il Russian reset. Ognuna di queste iniziative, tuttavia, si è bloccata di fronte all’emergere di vecchi e nuovi ostacoli e ogni Amministrazione è terminata con uno stato dei rapporti con Mosca peggiore di quelli che aveva trovato al suo avvio. Nel secondo panel della conferenza alla Link Campus è stato evidenziato come le speranze di trasformare la Russia in un nuovo pilastro dell’ordine liberale siano andate via via sfumando con il suo progressivo rafforzamento. Uscita dal pantano ceceno alla fine dello scorso decennio e sostenuta da una forte crescita economica, Mosca è tornata a rivendicare il suo status di grande potenza. In questa fase si è anche arrestato il processo di democratizzazione iniziato dopo il collasso sovietico. La transizione verso una democrazia di tipo occidentale, se avesse mai preso inizio, è stata soppiantata dal consolidamento di un regime definito “democrazia sovrana” dalla classe dirigente russa, ma che i suoi critici non esitano a chiamare “democrazia guidata” (secondo Freedom House si tratta di un regime autoritario a tutti gli effetti). La Russia di Vladimir Putin, quindi, ha assunto una postura sempre più antagonista nei confronti del sistema internazionale a guida americana. Non a caso, è stata definita “potenza revisionista” nella National Security Strategy dell’Amministrazione Trump (dicembre 2017). Si è così rianimato il dibattito sulle ragioni profonde della competizione tra Stati Uniti e Russia, che ha nuovamente visto la contrapposizione tra quanti la imputano alla natura del regime politico russo e quanti a interessi strategici di lungo termine inconciliabili. Negli ultimi anni la competizione è divenuta particolarmente evidente nella crisi dell’Ucraina e nel conflitto siriano, verso i quali si è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Tuttavia, proprio nel secondo panel della conferenza alla Link Campus intitolato Baltico e Caucaso, le relazioni tra Russia e Occidente tra passato e presente, è stato ricordata l’esistenza di altri e potenzialmente altrettanto critici teatri di confronto: su questi bisogna iniziare a ragionare prima che tensioni più o meno “latenti” (presenza di russi nell’Area Baltica) o “congelate” (i conflitti del Caucaso meridionale) si trasformino in vettori di ulteriori crisi tra i giganti della politica internazionale. *Link Campus University **Centro Studi Geopolitica.info  
947. RomHack - Cybersecurity Convention  
6 AGOSTO 2018 RomHack è un evento di sicurezza gratuito organizzato dall'associazione di promozione sociale Cyber Saiyan. L'edizione 2018 ha come filo conduttore il tema "Attacco e Difesa in una prospettiva di team, con focus specifico su scenari reali" e si terrà Sabato 22 Settembre ore 10:30 presso l'Università degli Studi Link Campus University I talk sono selezionati attraverso una Call For Papers che si è aperta il 9 Aprile e chiuderà il 15 Giugno 2018 Vuoi proporre un talk? Clicca qui e segui le istruzioni! Un comitato tecnico valuterà le proposte e comunicherà gli esiti entro il 15 Luglio 2018. Di questo comitato fanno parte i quattro membri del direttivo di Cyber Saiyan e quattro persone di comprovata esperienza nell'ambito della sicurezza. I biglietti gratuiti per partecipare a RomHack sono terminati, ma è ancora possibile aggiungersi alla lista di attesa su Eventbrite. Diventa Sponsor Supporta l'evento e contribuisci al suo successo, scegli di diventare sponsor ufficiale! Scrivi a info@romhack.io SPONSOR ORO SPONSOR ARGENTO SPONSOR TECNICI  
948. Vi spiego l’industria europea della difesa (e non solo). Parla Giuseppe Giordo  
07 Maggio 2018 Di Stefano Pioppi da Formiche.net Di fronte a una competizione internazionale che si fa sempre più feroce, l’industria europea della difesa è chiamata a un’opera di ampia ristrutturazione. Servono meno aziende ma più grandi, e scelte precise sulle tecnologie su cui investire. Parola di Giuseppe Giordo, presidente e ceo di Aero Vodochody, colosso aeronautico della Repubblica Ceca, intervenuto a Roma, alla Link Campus University, per tenere una lectio magistralis su “L’industria europea della difesa: situazione e prospettiva”. Già ad di Alenia Aermacchi, Giordo ha alle spalle una lunga esperienza nel settore aerospaziale. Oltre a guidare dal 2016 un’azienda che ha realizzato 11mila velivoli (più di 650 dei quali operativi), è oggi presidente dalla confederazione che riunisce le industrie ceche del settore, nonché membro del board di Sami, il nuovo protagonista dell’industria della difesa dell’Arabia Saudita. LE CARATTERISTICHE DELL’INDUSTRIA DELLA DIFESA “Quella della difesa è un’industria altamente tecnologica, ma con un fortissimo contenuto di forza lavoro, una delle poche industrie in cui l’automazione non funziona tanto”, ha detto Giordo aprendo la lectio magistralis. Si tratta di “uno dei settori in cui vengono fatti maggiori investimenti in ricerca e sviluppo”. In Europa, “ha un turn over che si aggira intorno ai 100 miliardi di euro, impegnando direttamente 500mila persone e, indirettamente, altri 1,2 milioni, con un effetto moltiplicativo dell’investimento tale per cui ogni euro investito in programmi relativi alla difesa ha un ritorno di 2 euro nel sistema economico”. Tra i settori che la compongono, quello dell’aeronautica e aerospazio “è forse il più trainante, con il maggior numero di imprese, una forte competitività sui mercati internazionali e importanti investimenti in ricerca e sviluppo”. Quello aeronautico è tra l’altro “l’unico campo dove ci sono state collaborazioni internazionali che hanno avuto successo”, ha spiegato Giordo ricordano i programmi Tornado ed Eurofighter, ma anche la joint venture missilistica MBDA, casi in cui “si è sorpassata la tendenza a competere tra Stati”. UNA PIRAMIDE A TRE LIVELLI A ogni modo, l’industria della difesa europea può essere descritta come “una piramide a tre livelli”, ha rimarcato Giordo. Il suo apice è rappresentato da “pochissime grandi aziende in grado di fornire un prodotto finito (come Dassault e Thales in Francia, Leonardo in Italia, o Saab in Svezia): si tratta di campioni nazionali dei singoli Stati che registrano fatturati annuali intorno ai 10 miliardi di euro”. CìSi tratta di “campioni nazionali che rappresentano gli interessi dei propri governi, molto posizionati sui mercati domestici, che controllano quasi al 100%, e dotati di una buona reputazione internazionale; essi cooperano e competono allo stesso momento”. Il secondo livello consiste in “un centinaio di aziende che partecipano ai programmi dei grandi player fornendo sistemi complessi e con fatturati annui di 1,5 miliardi”. Infine, ha aggiunto il ceo di Aero Vodochody, “il terzo livello è il più importante, quello su cui la politica industriale di un Paese deve puntare; si tratta di oltre 1.400 piccole medie imprese in Europa, con dimensioni molto inferiori rispetto alle altre, ma con partecipazione significativa ai programmi”. D’altronde, ha ricordato Giordo, “per le grandi piattaforme, normalmente l’impresa responsabile dà fuori il 70% del lavoro”. UN’EUROPA A MOLTE VELOCITÀ Eppure, il Vecchio continente sembra ancora lontano da una vera e propria integrazione del settore. “Quello che succederà all’industria della difesa europea in futuro dipende da quello che succederà all’Europa, e questo non è dato sapere”, ha spiegato Giordo. Tuttavia alcune indicazioni si possono dare: “La struttura industriale europea deve essere razionalizzata; ci sono troppe imprese e troppe aree con competizioni senza sinergie; bisogna avere meno aziende ma più grandi, e occorre dirigere gli investimenti verso solidi programmi europei che consentano all’industria continentale di mantenere il gap tecnologico rispetto alla competizione internazionale”. Può essere utile in questo la nascente difesa europea. “La Pesco è un tentativo di avere un embrione di bilancio comune e di identificare programmi su cui trovare sinergie”. L’idea è “brillante”, ha detto Giordo, pur intravedendo “un grandissimo rischio: che diventi solo uno strumento con cui due o tre industrie europee di altrettanti Paesi ricevano soldi e gli altri mettano solo contributi finanziari senza ritorni”. È questa una preoccupazione che arriva soprattutto “dall’atteggiamento francese e tedesco”, palesatosi nel recente nuovo annuncio sul “Futuro sistema da combattimento aereo”. IL CONTESTO INTERNAZIONALE Tutto questo mentre il contesto internazionale evolve con rapidità. Diverse imprese europee, ha notato Giordo, “non riescono a operare con la velocità che il mercato richiede e rischiano di perdere posizionamento soprattutto nel mercato internazionale”. E per l’Europa il riferimento internazionale restano gli Stati Uniti che, “con un mercato interno non comparabile con qualsiasi altro Paese e il grande supporto governativo”, presentano una “struttura industriale pragmatica, basata su competenza e centri di competenze che evitano duplicazioni e sovrapposizioni grazie a una politica industriale molto chiara”. Ciò è il risultato di “una ristrutturazione industriale avviata 15 anni fa, che ha portato a identificare i segmenti e la tecnologia su cui investire”. D’altra parte, anche la Russia presenta “grandissime ambizioni tecnologiche e di crescita”. Negli ultimi anni, “ha acquisito tecnologie che non aveva, soprattutto nell’elettronica e nei software, e così sta colmando il gap avuto per anni con Usa ed Europa”. Ciò, anche in questo caso, grazie a una “forte riorganizzazione industriale che probabilmente porterà presto alla nascita di un unico colosso del settore, tra l’altro privatizzato, pur conservando il forte supporto del governo”. Difatti, ha evidenziato Giordo, “non c’è visita internazionale in cui Putin non cerchi di vendere prodotti russi; e questo è un rischio perché la Russia compete in alcuni mercati in cui Europa vorrebbe accedere”. Se poi anche la Cina sta raggiungendo “un livello tecnologico pari a quello statunitense”, non bisogna dimenticare altri Paesi che sembrano distinguersi come esempi di “un sistema che si muove”: Turchia, Corea del Sud e Arabia Saudita. Quest’ultima, ha concluso Giordo, ha scelto il comparto della difesa “come elemento della Vision 2030 con cui punta a staccarsi dal petrolio e diversificare l’economia”.  
949. Corso Laurea in Dams  
3 AGOSTO 2018 Le selezioni per il Corso di laurea in DAMS si terranno il 14, 21, 28 settembre e il 5 ottobre 2018, alle ore 15.00, presso la nostra sede in Via del Casale di San Pio V, 44 a Roma. Orientamento Performer: Recitazione a memoria di un monologo o di una scena di dialogo (in italiano) da un’opera teatrale italiana o straniera del ‘900 a scelta del Candidato Prova di canto su un brano leggero o lirico a scelta del Candidato oppure 1 prova di ballo classico o moderno su un brano a scelta del Candidato Prova estemporanea scelta dalla Commissione d’esame Colloquio Orientamento Producer e Filmaker: Colloquio attitudinale con la Commissione esaminatrice  
950. The South Caucasus on the International Arena: Overcoming the Zero-sum Game in the Region  
22 Maggio 2018 Gabriele Natalizia, docente di Relazioni internazionali dell'Università degli studi Link Campus University, ha partecipato al ciclo di incontri "The South Caucasus on the International Arena: Overcoming the Zero-sum Game in the Region" organizzato dalla Georgian Technical University di Tbilisi (15-18 maggio).  
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