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1451. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Paolo Zanenga  
23 MARZO 2020 Connecting Polis Europa di Paolo Zanenga 1- I poli di connessione della prima Europa Nell’anno 529 hanno luogo due eventi che segnano la storia: Giustiniano chiude dopo nove secoli di vita la Scuola di Atene, fondata da Platone nel 387 a.C., creando una significativa cesura, se non una fine, nella storia della filosofia classica. Vengono anche ritirati i testi di 36 generazioni di filosofi. Più nessuna opera rimane in circolazione, lasciandone sopravvivere solo una piccola parte grazie alla tradizione indiretta di personaggi come Agostino, Boezio, e altri (1). Nello stesso anno, Benedetto da Norcia fonda il monastero di Montecassino. I due episodi non sono collegati, ma la loro sincronicità invita alla riflessione.Daun lato un’autocrazia interrompe dall’alto del suo potere un percorso culturale durato secoli; dall’altro, iniziative molto più umili, partendo da una visione ben diversa del mondo e dei suoi “loci”, inizianodal basso a tessere una nuova tela (quella del monachesimo occidentale) che, anche favorendo una rinnovata, lenta metabolizzazione della cultura classica nella società altomedioevale, ricostruisce nei secoli successivi la base della cultura e dell’economia dell’Europa, la stessa Europa che conosciamo oggi. Credo che il messaggio che ci viene da un tempo così lontano suggerisca alcuni paralleli con la situazione contemporanea. Il monachesimo nasce e si sviluppa in Occidente come un tipico fenomeno di resilienza. La crisi dell’Impero d’Occidente, le migrazioni di popoli che non condividevano la tradizione culturale greco-romana, la consistente riduzione demografica e l’abbandono di città e terre coltivate, delineano una crisi di grandi dimensioni, i cui prodromi risalivano amolto tempo prima. In questo panorama, i movimenti monastici si distinguono per la loro attenzione alla cultura e al lavoro.  Il miracolo dell’Alto Medioevo, di cui i monasteri sono stati a lungo i principali protagonisti in un ambiente difficile e spesso ostile, è stata l’incubazione e la genesi di una cultura, quella europea occidentale, che specie dopo l’anno Mille ha sviluppato una dinamica formidabile.Un miracolo anche perché si partiva da una situazione di naufragio materiale e istituzionale senza precedenti; tuttavia, si seppe portare a sintesi armonica imponenti risorse culturali del passato in forme nuove. Decisivaquindi nella formazione della prima Europa è stata la dimensione di rete: la distribuzione e i collegamenti tra punti di riferimento come i monasteri, ha portato alla formazione di sistemi straordinariamente fertili, capaci di sviluppo sia per auto-riproduzione, sia per evoluzione trasformativa indotta dalle continue (anche se rare e lente per i nostri standard) contaminazioni reciproche. Il loro sviluppo ha portato alla prima forma di identità e di coscienza comune europea, e ha favorito lo sviluppo successivo di altre reti: le leghe di città, le università, gli ordini cavallereschi, le fiere commerciali, e più tardi la finanza. In questa prima Europa i poli territoriali, pur intensamente identitari, non sono chiusi, la logica dei confini non è prevalente, e non lo sono neppure le differenze linguistiche. Se osserviamo lo sviluppo di un grande movimento culturale come l’architettura romanica, noteremo che la sua diffusione si collega alle grandi vie di pellegrinaggio, come le vie francigene, dirette a Roma, o il cammino di Compostela. La geografia dell’uomo medioevale non è territoriale ma polare, ed è in questo quadro che il senso di communitas emerge e disegna uno spazio che oggi definiamo europeo.A fronte di una produzione economica prevalentemente legata alla terra, così come la maggior parte della popolazione, emerge una “rete neurale” che inventa le proprie sinapsi, destinate a rappresentare dei riferimenti fondanti per la costruzione della cultura europea successiva: oltre ai monasteri, le scuole cattedrali, le commende, i fondachi, le “città libere” (liberi comuni, Freie Städte,bonnes villes...). La sovrapposizione a queste reti di nuove entità, caratterizzate da un controllo territoriale più forte e definito, caratterizza la formazione delle istituzioni pre-moderne e moderne. 2- L’emersione della modernità e la fine delle “prime reti” È interessante cogliere come questa formazione si articoli in processi interconnessi e tali da sostenersi mutuamente: religiosi, politici, economici, culturali, giuridici. La trama comune consiste in una diversa Weltanschauung, che gradatamente prende corpo. Il carattere di questa trasformazione, utilizzando un concetto che appartiene alla contemporaneità, è: riduzionismo, cioè capire, teorizzare, giudicare, governare, partendo dalla separazione del sistema mondo e dall’isolamento di “oggetti”. Mi sembra che si possano definire tre fasi principali con cui questa Weltanschauung dei moderni emerge e cresce, più una quarta, tuttora in corso, in cui si incrina. La prima fase parte da alcune discontinuità avvenute già nel pieno medioevo (XI e XII secolo), che sfociano in una grande trasformazione nel periodo critico1250-1350. È la fase che accompagna l’Europa verso quello che Huizinga ha chiamato “autunno del medioevo”.Nella fase espansivadel periodo 1000-1200, le proprietà feudali erano in simbiosi con i nodi delle reti in crescita, che erano funzionali allo stesso sfruttamento e valorizzazionedei fondi. Dopo il fallimento del grande esperimento visionario di Federico II, e con l’insorgere di una crisi di risorse dovuta forse a una crescita demograficain spazi ormai saturati, con la comparsa di carestie frequenti, si esaspera la volontà di controllo di chi detiene posizioni di potere, generando conflitti e separazioni che sboccano in nuove forme istituzionali, nelle quali il territorio non è più solo una proprietà, ma un riferimento di potere politico (signorie in Italia, domaine royale in Francia). Questo fenomeno, combinato con l’ereditarietà delle proprietà feudali, spinge alla modifica,e spesso alla frammentazione, di identità territoriali formatesi in secoli di evoluzione regionale locale. Contemporaneamente, il conflitto tra papato e impero delegittima proprio le istituzioni che dovevano essere fonte di legittimazione. La frammentazione della ”rete europea” non ne incrementa la diversità culturale, ma in genere la diminuisce, perché vi corrisponde una volontà di omologazione interna ai nuovi domini: minoranze religiose e linguistiche vivono una prima fase di repressione, e a volte di genocidio; caso tipico è l’area occitana, in cui la crociata contro gli Albigesi non rappresenta solo una forma di repressione religiosa e sociale, ma blocca lo sviluppo di una cultura all’epoca moltopromettente. Le strutture reticolari sono poste sotto controllo o annullate: i monasteri perdono potere, importanti ordini cavallereschi, come i templari, sono soppressi; la stessa cattività avignonese del papato testimonia l’emergere di un proto-stato come quello francese. Il potere territoriale tende a organizzarsi per colmare i “vuoti”, perciò impone il suo controllo su aree primagovernate secondo antiche consuetudini. A volte questo non riesce: il patto del Rütli, che simboleggia la nascita della prima Confederazione Svizzera, ne rappresenta l’episodio più noto. L’accelerazione dello sviluppo dell’economia monetaria (coniazione del primo fiorino d’oro a Firenze nel 1252) contribuisce a rendere più estesi e complessi i rapporti finanziari; il parallelo sviluppo di pratiche speculative e dell’usura solleva l’interesse e la valutazione dei contemporanei, primo tra tutti Tommaso d’Aquino. La necessità di controllo verticale investe anche la cultura: dapprima diminuisceil sincretismo e la creatività mitopoietica del mondo cristiano altomedioevale (testimoniato dalle rappresentazioni fantastiche del romanico e dalla letteratura epica), frenati dalla “sobrietà” di cistercensi e domenicani, dall’altro è sempre più frequente nell’autorità religiosa la preoccupazione di stabilire dogmi, di fare distinzioni tra ciò che va bene e ciò che è eresia. Il conseguente inaridimento della cultura dei chierici apre la strada a una cultura laica, che ricostruisce una propria mappa del mondo in chiave più soggettiva, e in certo modo fonda la modernità. La violenta riduzione demografica causata dalla Peste nera a metà del ‘300 chiude questa fase, e apre uno scenario in cui le innovazioni dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, porteranno a definire lo spazio del territorio moderno e a metterlo a disposizione dei nuovi poteri emergenti: la delicata Gemeinschaft medioevale si dissolve nel culto del detentore del potere politico, ben rappresentato dal Principe di Machiavelli. La seconda fase formativa della modernità è quella “classica”: parte alla fine del ‘400, con l’apertura delle rotte oceaniche e la diffusione della stampa, che creano la prima globalizzazione, e anche la prima omologazione; si concluderà con Westfalia (1648). È un nuovo ordine in lotta con il passato e con il futuro: si bruciano le streghe, portatrici di una sopravvissuta cultura pagana, e si brucia Giordano Bruno, che con straordinaria capacità visionaria anticipa un’idea di universo vicina alla nostra. La signoria si sostituisce a papato e impero e si autoproclama stato. Alla pace di Augusta (1555) si decide che “cuius regio, eius religio”. La stessa chiesa romana si è da tempo configurata come una signoria e poi come uno stato, e l’impero è diventato una confederazione di principati germanici. Riforma e Controriforma, primi prodotti della Galassia Gutenberg, generano dei fondamentalismi, rivoluzionari verso il passato, reazionari verso il nuovo, intrinsecamente conflittuali, che sboccherannoin quel periodo turbolento e terribile chiamato Guerra dei Trent’anni, iniziato come guerra di religione e finito come guerra tra stati. La pace di Westfalia fonda la statualità moderna, che nasce anche come spazio di normalizzazione del conflitto religioso.Richelieu può creare il nuovo modello di stato assoluto, dopo che Cartesio col Discorso sul metodo (1637) aveva descritto il contesto cognitivo su cui poteva poggiare, e prima che la pubblicazione del Leviatano diHobbes (1651) gli conferisse un telaio concettuale. La terza fase inizia con la Rivoluzione Francese e termina con le guerre mondiali del ‘900. Lo stato di Westfalia è ormai abbastanza consolidato da poter eliminare la sua testa, il suo “primo stato”, la fonte da cui è nato, l’aristocrazia, ancor prima che fosse reso obsoleto dalla Rivoluzione Industriale. Dai “tre stati”, si passa definitivamente a una concezione integrale dello “stato”. Si elimina con l’aristocrazia anche una classe  europea internazionale, trasversale ai singoli stati, una rete la cui mancanza rende la conflittualità tra le nazionisempre più radicale, fino al macello della Prima Guerra Mondiale e alla catastrofe della Seconda. Dopo che Cartesio aveva separato il soggetto dall’oggetto, Kant definisce la conoscenza possibile come conoscenza di oggetti. Ne seguono derive interpretativeche portano all’espulsione dal dominio del “reale” di tutto ciò che non è “oggetto”. La filosofia, la scienza, il diritto dell’800 e del primo ‘900 diventano discipline “positive”, così come le nuove scienze sociali: economia, sociologia, antropologia, psicologia, estetica vanno a formare un contorno rispetto al nocciolo delle scienze naturali, la cui positività era – oggi diremmo a torto - data per scontata (2). In particolare l’economia positiva ritiene di poter definire dell’uomo (homo oeconomicus) siai comportamenti (razionali), sia i bisogni (in parte definiti “di base”) e gli interessi, secondo un misto di materialismo e di istanze etiche di cui possiamo trovare le tracce già nella prima di queste tre fasi, per esempio negli scritti dell’Aquinate. L’economia nasce come economia di scarsità: questo ne condiziona i criteri e i concetti, e influenza enormemente la politica. Lo stato, nato nel Medioevo come spazio di potere spesso violento e predatorio, pur continuando anche nei tempi moderni a basarsi sul controllo della violenza legittima, assurge a garante dei diritti e dell’etica. Si compie in questa fase anche il passaggio dal latino, fattore culturale unificantefin dall’antichità, alle lingue nazionali: nell’800 e soprattutto nel ‘900, le lingue moderne diventano un carattere costitutivo e fondante degli stati nazione, sono quindi imposte inun processo che sopprime le lingue minoritarie ed esaspera i nazionalismi, anche attraverso vere e proprie costruzioni politiche e propagandistiche artificiose, come i vari Kulturkampf. La cultura raffinata e cosmopolita del ‘700 è sostituita da programmi di istruzione popolare spesso artefatti, manipolati e omologati, funzionali al potere degli stati e propedeutici a forme di democraziache scivolano facilmente nei totalitarismi. Nonostante tutto questo, la cultura alta in Europa continuò a rimaneresempre unarete internazionale molto efficace. Gli scienziati, e soprattutto gli artisti, continuarono a costituire comunità in continua contaminazione, in grado di creare sia movimenti intellettuali, stili, estetiche, siaeventi più popolari e coinvolgenti,come le esposizioni internazionali e le manifestazioni sportive. Queste reti sono sempre rimastenon solo trasversali rispetto ai diversi stati, manon hanno mai smesso di recuperare fonti del passato per rilanciare nel futuro nuove prospettive. Chi oggi pensa assurdamente che l’Europa non esista, dovrebbe ricordare che le discipline scientifiche e sociali studiate oggi in tutte le accademie del mondo sono nate in Europa, e spesso, per esempio l’antropologia, in dichiarata contrapposizione tra l’Europa e il resto del mondo. L’identità europea forse può sfuggire agli europei nostri contemporanei, ma è molto chiara negli altri continenti, dove viene tuttora fruita – e anche subita. III. La crisi dell’”Europa moderna” e l’emersione delle nuove reti Mentre dopo la Guerra dei Trent’anni l’Europa conservò la leadership globale da poco conquistata, dopo la Seconda Guerra Mondialel’aveva persa, anche se rimaneva parte importante di un “mondo occidentale” la cui centralità era passata al Nord America. Il ridimensionamento dell’importanza dei singoli stati europei è cosa nota. Ciò che vale evidenziare è che il mondo nel frattempo tornava a essere un mondo di reti, più che un mondo di stati territoriali. Il ruolo degli Stati Uniti come polarità dominante nelle reti globali è, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, prevalente sul fatto di essere anche un grande paese, di dimensioni continentali. Le reti principali dell’era contemporanea sono quella finanziaria e quella tecnologica, soprattutto quest’ultima, che costituisce sempre piùl’indispensabile infrastruttura della prima. Vi erano 7,3 miliardi di dispositivi connessi nel 2015 (3), ma il loro numero aumenterà di diversi ordini di grandezza con l’Internet delle Cose. Questo porta a generare flussi enormi e crescenti di dati (big data), che vanno a costituire l’ossatura sia della conoscenza fruibile, sia dei patrimoni finanziari. La tecnologia è pervasiva, dunque non è più territoriale, per la prima volta nella storia. La produzione non è più localizzata, e quindi anche i meccanismi fiscali in grado di sostenere il ruolo sociale degli stati territoriali sono ridotti a una condizione precaria e conflittuale. Questo nuovo scenario emerge da un complesso sviluppo scientifico e culturale, che dai primi del ‘900 ha svoltato radicalmente, rispetto alla Weltanschauung positivista. Le rivoluzioni scientifiche, la revisione profonda dell’idea di matematica, gli sviluppi nelle scienze della cognizione e della vita, accompagnati da un’evoluzione della tecnologia che ci fornisce nuovi occhi e nuovi sensi rispetto alla realtà, hanno creato uno scarto larghissimo rispetto alle premesse filosofiche costitutive degli stati moderni, che sono più che incrinate. Questo scarto si è creato tra le scienze naturali e la tecnologia da un lato, non più deterministiche e non più legate all’idea di legge naturale, e discipline come l’economia e il diritto dall’altro, rimaste ancorate a un’idea positivista del reale, e ancora -ovviamente - basilari nell’orientare l’azione e il senso stesso degli stati. Prendere coscienza di questo scarto è una grande e grave responsabilità delle classi dirigenti della nostra epoca. Oggi infatti il potere legislativo e normativo opera all’interno di un nomos non più legittimato dalla sfera scientifica, filosofica e culturale, se non attraverso rappresentanze formali ormai culturalmente quasi sterili. Viene in mente Platone, e la sua idea del governo dei filosofi. Il vero compito del governo (giuridico, politico, economico) sembra consistere nel saper riconoscere la realtà di un nomos che svanisce e di un nomos che sorge; compito evidentemente di filosofi. L’incapacità del diritto positivo di uscire dal suo bozzolo è riconducibile sia a una colpevole rinuncia a una rinnovata consapevolezza del reale e a una sua nuova mappatura; sia a un’effettiva situazione di vertigine quando principi entrati nella cultura comune, come il carattere “erga omnes” della legge, contrasta con una nuova visione che fa a meno di dimensioni come l’”oggettivo” e l’”universale”. Ci può essere un “erga omnes” non totalizzante? Questa è la grande sfida della contemporaneità. Simili considerazioni valgono per altre dimensioni dell’ordinamento: oltre che per il diritto, sicuramente per l’economia. L’altezza della sfida non deve indurre a rifugiarsi in vuote generalizzazioni normative, che si moltiplicano in modo vano se devono rispondere a sistemi di maggior complessità: sembra il caso nel passaggio del sistema giuridico e legislativo dal livello nazionale (già straordinariamente farraginoso) al livello europeo. Se a una maggior complessità si risponde con una maggior complicazione, vuol dire che stiamo affrontando la complessità con modelli inadeguati, che ci sprofondano nel labirinto di Borges. Questa inadeguatezza lascia campo libero a una polemica secolare tra una cultura basata sullo sradicamento della norma e sul formalismo astratto, contrapposta a una concezione vetero-europea che trova la propria specificità nel radicamento originario sul suolo, omogeneità concreta di una comunità che mette al lavoro la terra contro l'omogeneizzazione astratta del dominio dei mercati e delle industrie (4). È un contrasto in grande evidenza nell’Europa attuale, un residuo non risolto dai conflitti del ‘900, e non risolto, anzi colpevolmente strumentalizzato, dalla politica contemporanea: un conflitto che occorre superare al più presto, proprio come quattro secoli fa superammo le guerre di religione. È urgente porre al centro non solo una nuova “mappatura” del reale - da cui desumere nuovi valori, diventare coscienti di nuovi patrimoni, stabilire nuovi riferimenti su cui si possa riconoscere una società europea - ma anche una capacità di “mappatura permanente”, di continua destrutturazione e ricostruzione, che sola può garantire i valori primari e fondativi della vita rispetto ai diversi Gestell, alle diverse gabbie, antiche e nuovissime, continue promesse di infelicità e di morte. Un ordine che coniuga armonia e libertà, il cosmo dei classici, non nasce già definito, ma è il frutto di una continua e libera ricerca, di una scholè, attraverso cui scoprire le tracce di bellezza, che forniscono la trama a tessuti in estensione (5). È il modello dei processi cognitivi e vitali. 3- Una nuova scholèper l’Europa Scholè, otium in latino, denota quello spazio della vita e delle attività umane libero da costrizioni e contingenze, svincolato dalla necessità e dal quotidiano, alimentato dall’energia dell’Eros e diretto da una nous libera da scopi predeterminati. È definita dal suo contrario (ascholia, negotium), richiamato fin dai tempi omerici nel mito di Sisifo, uomo che usa la sua mente come strumento di guadagno e vantaggio personale, e che finisce col vivere condannato a fatiche eterne, prive di ogni dimensione “erotica”, intellettuale o morale. Le forze che riducono Sisifo in schiavitù tendono continuamente, anche oggi, a comandare l’ingegno umano e a strumentalizzare le passioni umane. Disse Aristotele che le repubbliche incapaci di vivere una vita di scholè sono destinate al collasso (6). Una vita di scholè ci protegge dunque dalle molteplici trappole che insidiano la nostra libertà, trappole in primo luogo culturali, epistemiche, dovute all’incapacità di rapportarsi col reale che nasce dall’ascholia. Per questo al centro di ogni polis, anche di “Polis Europa”, dovrebbe esserci una scholè, un luogo di rigenerazione continua della conoscenza, di aggiornamento delle mappe, di ricostruzione dei modelli e delle narrazioni, di raccolta delle sensazioni e dei sentimenti generati dai viventi, di rielaborazione delle eredità del passato, di ordinamento armonico, in una parola di creazione dell’essere. È molto difficile convincere chi è coinvolto in un flusso che avvolge tutto il suo presente all’epochè, alla sospensione. È difficile convincere il criceto a scendere dalla sua ruota, salvo che la ruota non s’incagli. Oggi possiamo osservare come una grande ruota si stia incagliando, e stia palesando l’insensatezza dei modelli e delle narrazioni dominanti. Alla crisi dei modelli economici classici, non più in grado di remunerare capitale e lavoro, anzi non più in grado nemmeno di generare impieghi plausibili di capitale e tanto meno di generare occupazione, corrisponde una progressiva incapacità degli stati di assolvere le proprie funzioni sociali e giuridiche, col rischio di scivolare verso una crisi istituzionale di portata epocale. È sicuramente possibile uscire da questo rischio, perché la crisi non è di risorse, non è di mancanza di alternative, ma puramente epistemica e culturale. Nuovi modelli, che sono grandiosi e promettenti,A fronte di questa situazione, stanno già emergendo ma richiedono un nuovo nomos, in nome di un superiore livello di civiltà e responsabilità. Lasciare solo all’intelligenza della tecnologia questo compito (la tecnologia evolve come una mente collettiva, non è governata ma governa, non è uno strumento ma un paesaggio, è lo snodo tra i mondi individuali e il “mondo”) (7) potrebbe condannarci di nuovo al destino di Sisifo. Di fronte al nuovo paesaggio tecnologico, possiamo avere diversi comportamenti: -          illudersi di strumentalizzarlo ed esserne stritolati, in una deriva ancor meno sostenibile di quella industriale -          rigenerare cultura, valori e saperi a un livello anche più alto rispetto al passato. Questa seconda è la via della scholè-otium, la prima è quella del negotium. Una scholè per Polis Europa dovrebbe costituire una nuova porta cognitiva, un cammino di educazione nuovo e senza tempo, un ponte tra gli immensi patrimoni sedimentati nel nostro continente e l’era incombente dei paradigmi mutanti, con la sua complessità e le sue molteplici promesse di “inaspettato”. 4- Horizon 2020 (e oltre) Come potrebbe profilarsi un nuovo nomos europeo, che ovviamente potrebbe costituire un modello di interesse globale?Possiamo già rilevare alcune tracce di cui tener conto. Un tema evidente è quello dei confini, del limes. Fattore fondante degli stati territoriali, la loro abolizione fisica col trattato di Schengen, rimane una conquista forse piccola, ma positiva dell’Unione Europea. Rimangono come delimitazione delle attività sociali ed economiche su cui si esercita la giurisdizione dei vari stati, anche questa in parte sostituita da quella europea, e comunque in prospettiva affievolita nella sua importanza dal declino delle economie basate su beni tangibili e produzioni localizzate: finanza e tecnologia ignorano questi confini. Altro discorso è quello del confine esterno, del limes, mai come oggi paragonabile al limes dell’Impero Romano, e oggi come allora fonte di inefficacia, di costi, di crisi, di frustrazione. L’Europa non ha mai vissuto questo come un problema fino a che è rimasta in espansione. Dai tempi delle espansioni commerciali, mercantiliste, coloniali, il limes non esisteva, quello che contava era un sistema in espansione, una polarità egemone al centro di reti molteplici. Ci si accorge del limes quando ormai si è sotto assedio. L’inversione di questa situazione è possibile se l’Europa torna a essere un polo di creazione dinamica di conoscenza, uno hub di sistemi complessi. Non è possibile ricostituire rapidamente un sistema di potere perduto, e probabilmente non sarebbe neanche augurabile. È però possibile, come al tempo dei primi monasteri, ricreare dei poli che si distinguano non per dimensioni, ma per eccellenza qualitativa, libertà e capacità di sperimentare il nuovo. Occorre creare un’identità non dipendente da confini. Un altro tema interessante è l’evoluzione del concetto di cittadinanza. Forse un europeo del XXI secolo merita qualcosa in più della semplice cittadinanza. La traccia da seguire è quella dell’appartenenza multipla, della contaminazione tra identità molteplici, del riconoscimento a ogni persona di una sfera che si estende oltre la sua fisicità, che gli offre possibilità di scelta nel costruire se stesso, in quanto elemento costitutivo e costruttivo di reti, e non “soggetto” a un sistema, statuale o di altro tipo. Terzo tema, importantissimo per l’Europa, è quello della diversità. E viene subito in mente la questione della lingua. I poteri verticali hanno sempre utilizzato l’omologazione linguistica come strumento di potere. Richelieu ha creato l’Academie Francaise già nel 1635, prima di Westfalia, e ha consolidato la lingua francese come un patrimonio nazionale, ma anche come un fattore di unità e identità dello stato.Il prezzo pagato è stato la perdita progressiva delle lingue regionali, poi parzialmente recuperate da movimenti successivi, sia nella fase romantica, sia nella contemporaneità. In un mondo che si costituisce come polarità nelle reti, la diversità è una ricchezza inestimabile. Le lingue europee, nella loro diversità e nella loro profondità storica, offrono a questa parte del mondo un grande vantaggio. Chi pensa che l’Europa non esista perché non ha una lingua comune, ha un’idea bassa della società e delle persone. L’esempio del Tirolo è tipico di una regione con una forte identità, comprendendo al suo interno tre lingue maggiori (tedesco, italiano, ladino), e altre minori (mocheno, alemannico). La Svizzera è un altro grande esempio.Lingue diverse significano modi di pensiero diversi, e quindi disponibilità di approcci multipli all’esplorazione del reale. Ovviamente è fondamentale la disponibilità di lingue franche, trasversali, come oggi sicuramente è l’inglese (o meglio il globbish, il global english). L’acquisizione fin dall’infanzia di strumenti linguistici multipli acuisce il potenziale intellettuale e culturale della persona, e favorisce la multi-appartenenza. Uno standard europeo ragionevole potrebbe includere la conoscenza di almeno altre due lingue, oltre alla propria lingua madre e all’inglese. L’idea di Polis Europa poggia quindi sulla capitalizzazione della diversità attraverso la creazione di luoghi di collegamento, di ponti, tra universi differenti, in cui fondare officine, “atelier”, di creazione di conoscenza. Il concetto fondamentale è il riconoscimento della conoscenza situata nelle reti, fluida, in continuo cambiamento e creativa di nuova conoscenza attraverso processi di contaminazione; è un concetto alternativo a quello di conoscenza universale, quasi statica, impacchettabile e trasferibile, come avviene nell’istruzione che conosciamo e pratichiamo nelle scuole e nelle aziende. Nel mondo dei paradigmi mutanti delineato dalle tecnologie pervasive, i dati, le informazioni, sono una risorsa abbondante, anzi soverchiante rispetto a ogni tentativo di contenerla e trasferirla. Il processo valoriale è quindi proprio quello della scholè, centrato sull’esplorazione e la creazione: le missioni di scuola, impresa e territorio, separati funzionalmente e istituzionalmente nella modernità, tornano a convergere in un sistema complesso armonico, “bello” e generativo. Poli di questo tipo, a cominciare dalle regioni e dalle città più consapevoli, possono creare una rete, uno spazio interattivo e generativo, che caratterizza Polis Europa, ne capitalizza il patrimonio di diversità e rende alla cultura il suo valore strategico: non attività marginale tra le altre, ma telaio e motore dello sviluppo civile ed economico. Questo nuovo modello di Europa non chiede di essere misurato, ma si propone come generatore di nuove misure, come modello per il mondo. 5- Una proposta per prossimi approfondimenti Gli stati hanno fatto la storia dell’Europa, almeno dal 1648 fino al 1945. Poi sono emerse reti più potenti, più efficaci, più generative. Gli stati europei hanno pensato allora, come tutto il pensiero dominante indicava, che il problema fosse di scala, quantitativa. USA e URSS erano più grandi degli stati europei, e quindi l’Europa doveva unirsi per diventare un grande stato. Le problematiche erano complesse, perché un processo di unione è sempre una perdita di potere, o almeno di compromissione del proprio modello con quello di altri. Ricordiamo che l’opposizione di De Gaulle all’ingresso del Regno Unito in Europa era legata a vari fattori, tra cui la concezione diversa dello stato sociale. Allora il pensiero positivo trionfava ancora, l’idea di sistema complesso era nelle menti e sui tavoli di un’intelligenza che influiva poco o niente sulla politica, ancora ferma alle ideologie. L’Unione Europea è nata e si è sviluppata in una logica additiva, non moltiplicativa, generativa. A ogni passo in avanti corrisponde da parte di qualcuno qualche passo indietro, il concetto di negoziato finisce per focalizzarsi sui dettagli e perdere la visione strategica. Un’unione tra enti generati da una cultura di separazione rende tutto straordinariamente lento e complicato, e produce istituzionicomplicate, in cui la preoccupazione da parte di singoli stati, specialmente i maggiori, di perdere il controllo, è molto evidente. Nella storia del pensiero occidentale, alla visione deterministica e riduzionista ha fatto da contrappunto, in tutti i tempi, una sensibilità più inclusiva e aperta, manifestata da molti pensatori. Il pensiero di Nicola Cusano, lontano nel tempo ma vicinissimo nello spirito, ricordato e illustrato in questa conferenza, rappresenta questa corrente, spesso costretta a diventare sotterranea, ma oggi emergente in un nuovo Zeitgeist. Ci suggerisce un approccio diverso, forse non alternativo a quello percorso finora, ma certamente diverso è più fertile. L’Europa non è una somma di stati, ma – diremmo con termini contemporanei – un sistema emergente, un ecosistema, in cui la diversità delle sue componenti, delle nationescome dice Cusano, interagisce in modo generativo. Questo è stato anche il carattere delle “polis” che nella storia d’Europa hanno creato i modelli che caratterizzano una cultura fondamentalmente unitaria. Oggi, nel nuovo spazio delle reti, le città e le regioni d’Europa possono costruire con la loro storia, la loro identità, il loro talento, le loro reti, la “Polis Europa” e dotarla del suo patrimonio naturale.Le euroregioni in formazione oggi sono embrioni di questo carattere complesso e interattivo della Polis Europa: si costituiscono giustamente su considerazioni di carattere naturale e geografico, ma anche storico e culturale. Nella nuova dimensione dei paradigmi mutanti, non solo la concezione dello spazio, ma anche quella del tempo si modifica: ogni regione è quello che è, ma anche quello che è stata in ogni tempo, perché ogni momento della sua storia accresce il suo patrimonio, non solo la sua condizione presente. La formazione delle euroregioni risente però del carattere di territorio definito per motivi amministrativi delle sue componenti regionali o subregionali, e questo è un limite. Sarebbe interessante definire le euro regioni come poli senza confini rigidi, e con possibilità di attrazione e integrazione di partner secondo logiche multiple, non solo territoriali, ma anche di altro tipo. Il passaggio dal concetto di identità territoriale al concetto di identità polare apre ulteriori possibilità. Potremmo definire come poli della Polis Europa non solo territori identitari, ma anche città, strade, campi di studio, scuole e movimenti d’arte, infrastrutture chiave, sistemi imprenditoriali, parchi naturali, centri scientifici, e creare stratificazioni multiple di spazi, di significati, di valori, di concentrazioni di capitale. Un sistema complesso non si definisce come somma di parti e parte di sovrasistemi, ma come “emergente”: quindi pari dignità e identità per una città e per la regione di cui fa parte geograficamente, senza sovraordinamenti, sostituiti da multiappartenenze, e così via per tutti gli altri poli. Ogni polo è portatore di una conoscenza situata, ha una storia, ha un sistema di relazioni, ha un potenziale patrimoniale, e contaminandosi di continuo con gli altri, produce nuova conoscenza, si struttura come piattaforma, come storia, come patrimonio, offre a “poli di regia”la possibilità di identificare nuovi attori, mappare relazioni, facilitare interrelazioni e sviluppi, e curare l’integrità, l’efficacia e la misura dell’ordine complessivo. Potrebbe essere il punto di partenza di un nuovo mondo. Note Paolo Zanenga, Le reti tra antichità e medioevo, tra modernità e postmodernità, in Cronache goletane, 393 9492981 Immanuel Wallerstein, Comprendere il mondo – Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo (Asterios, 2013), 97-116. Mobile World Congress 2016, at mobileworldcongress.com Giulio Itzcovich, Il Nomos della terra e la polemica con il positivismo giuridico: Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, at http://www.juragentium.org/topics/thil/it/itzcovic.htm Serge Salat, Cities and Forms: on Sustainable Urbanism (Hermann, 2011) Kostas Kalimtzis, Aristotle on Schole and Nous as a Way of Life, at http://www.ihnpan.waw.pl/wp-content/uploads/2014/10/3_kalimtzis.pdf William Brian Arthur, La natura della tecnologia – Che cos’è e come evolve (Codice 2011), 183-193. Preparato originariamente per POLIS EUROPA Castel Tirolo, 22-23 aprile 2016 Torna all'Appello  
1452. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Ortensio Zecchino  
23 MARZO 2020 La paura ci dice che siamo uguali, ma che ci salveranno le differenze di Ortensio Zecchino Mai l’uomo si è trovato così uguale ad ogni altro, come in questa circostanza: uguaglianza nell’appartenenza alla specie umana. La morte, si dice, rende uguali e ‘La livella’ di Totò ce lo ricorda. Ma la morte induce solo un astratto pensiero di uguaglianza,  perché  è evento troppo singolare, che non si può condividere con chi ormai non c’è più. Vivere il tempo di un’epidemia globale ci fa invece sentire uniti tutti come anelli viventi della catena umana. Per sconfiggere il virus siamo costretti a isolarli materialmente, ma gli anelli restano ancor più uniti virtualmente e, aggiungerei, spiritualmente, come ben dimostra l’esperienza di questi giorni. L’umanità nella sua storia ha vissuto tante epidemie. Le due più note e, forse, più gravi, la peste nera del 1348 e la spagnola del secolo scorso, pare che siano venute entrambe dalla Cina. Anche allora il virus viaggiava, se pur con minore velocità ma, dove arrivava, si diffondeva facilmente per le cattive condizioni igieniche, e non solo. Ma allora ogni realtà viveva la ‘sua’ epidemia inconsapevole di quanto fosse accaduto o accadesse altrove. Oggi siamo tutti nell’inedita condizione di vivere tutto in assoluta contemporaneità e condivisione.  La pandemia mondiale ci rende tutti sempre più uguali e contigui perché le interconnessioni sono tali che ormai nessuna barriera può spezzarle e assicurare chiusure ermetiche. Tutto ciò deve indurci ad alcune considerazioni. Le esperienze passate, pur diversissime, possono insegnarci qualcosa. La terribile peste del 1348 – che ebbe una diffusione larga, ma non planetaria - trovò terreno facile in realtà afflitte, non solo da cattive condizioni igieniche, ma ancor più da una grave carestia causata dall’instaurarsi, agli inizi del secolo, di quella che è ormai definita ‘piccola era glaciale’. Questa condizione fece sì che, dove penetrata, l’epidemia si diffondesse con irrefrenabile velocità e virulenza. Nel mondo ‘interconnesso’ di oggi, se dovessero realizzarsi condizioni climatiche avverse (e la prospettiva non è solo fantascientifica) l’insorgenza di pandemie, oggi inevitabilmente planetarie, potrebbe insidiare l’esistenza stessa dell’umanità, come non avveniva nel mondo ‘sconnesso’ di un tempo. E questa considerazione, banalmente evidente – ma, almeno in apparenza, ignorata dall’obnubilamento di popoli e governanti – dovrebbe da sola bastare a farci capire che le singole, piccole realtà nazionali sono impari rispetto alle sfide globali, di fronte alle quali, ineluttabilmente e implacabilmente, saremo posti con sempre maggiore frequenza. Un’ultima considerazione, in tema di uguaglianza, s’impone guardando alle vicende di questi giorni. Le nostre democrazie sono entrate in affanno perché i loro meccanismi sembrano non reggere di fronte alle pressanti esigenze, molto indotte dalla rete, di più alti livelli di uguaglianza. Queste esigenze sono sempre state presenti e vive nella storia dell’umanità. La modernità per soddisfarle è approdata prima al modello di Stato liberale e, più recentemente a quello di Stato sociale, che ha reso più sostanziale l’uguaglianza, aprendo la stagione dei diritti sociali. Oggi anche questo assetto è diventato precario, senza che all’orizzonte se ne intravedano nuovi e più adeguati. Ma la pandemia una cosa sta mostrando: la pericolosa inconsistenza di talune scorciatoie, come quelle offerte dalle teorizzazioni populiste dell’uno = uno.  Assolutizzando il concetto di uguaglianza, queste teorizzazioni hanno preteso di decretare un indifferenziato livellamento, in sé negatore d’ogni diversità, anche di quelle fondate sulle competenze, in politica, a torto ritenuta mestiere improvvisabile, e finanche nella scienza, anch’essa regno di un auspicato ugualitarismo, in cui ogni voce dovrebbe avere pari diritto di cittadinanza, tanto che si è preteso di far passare ‘antivaccinismo’ e ‘vaccinismo’ come posizioni ‘ugualmente’ legittime. Uno = uno è verità indiscutibile dal punto di vista del valore dignità, ma non è principio adottabile nell’organizzazione delle nostre società complesse, dove ognuno per rendere un valido servigio a tutti deve avere competenze acquisite nella progressione di esperienze e di studi: in politica, nelle scienze, nelle attività produttive, nelle professioni (come faremmo senza personale sanitario all’altezza delle sfide che stiamo vivendo? E potremo mai vincere il virus senza affidarci alle elites della ricerca biomedica?). Verità, queste, che, mutatis mutandis, la saggezza antica aveva condensato nel cosiddetto Apologo di Menenio Agrippa. (pubblicato su Il Riformista in data 20 marzo 2020) Torna all'Appello  
1453. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Gaetano Tedeschi  
23 MARZO 2020 LETTERA APERTA di Gaetano Tedeschi Signori, Il grande senso dello Stato che ci accomuna, mi induce a esporvi mie riflessioni Sono un semplice Ingegnere ancorchè abbia gestito grandi gruppi Industriali pubblici e privati, e come tale conservo una visione analitica dei problemi. Vogliate pertanto perdonarmi invasioni in campo politico,comunque da prendere come spunto. Vorrei in un clima di sintesi partire dalle conclusioni a cui giungo portando sul tavolo politico i vari step e percorsi logici. La globalizzazione (messa in evidenza nell’attuale emergenza)ci porta comunque a traguardare modelli di Unione tra Stati e per quanto ci riguarda Europa Il modello ci viene con semplicità mostrato proprio da questa esperienza dalla quale si esce (vedi Cina)solo con un sistema unitario in cui il default di una regione (in questo caso Italia e Spagna) è superabile se fanno parte di una nazione che accomuna popoli di culture e religioni affini. L’effetto moltiplicatore di diseguaglianze con certezza prevedibili nella situazione di emergenza ci induce a accelerare tale processo Va in tale chiave affrontato il tema dei rapporti economici e produttivi tra i grandi (Europa Russia Cina Usa) con nuovi criteri e strategie.Quelle attuali sono figlie di conflitti mondiali ormai lontani e successive guerre fredde, allo stato obsolete. Tali strategie pertanto vanno modificate con decisione e fermo impulso valutando gli elementi motori dello sviluppo. In particolare nella produzione di energia e delle sue fontivero motore di qualsiasi progresso industriale.Le società di Stato come ENI , che rivedere le proprie strategie fino ad oggi impostate su investimenti per concessione di estrazione puntando invece su sistemi energetici ecocompatibili Un ruolo determinante lo svolgeranno I grandi player, bancari e industriali, e soprattutto le società di Stato nel loro ruolo di essere trainanti di un sistema produttivo fatto di piccole e medie imprese, ad oggi viste solo come strumenti di un mercato speculativo, teso all’unico obiettivo degli utili e per lo Stato incalzato da obblighi di indici, dividendi. Tali conclusioni partono dalla seguentesintetica analisi “La politica europea sta con difficoltà traguardando l‘urgenza di un modello sociale europeo capace di ricostruire i diritti universali che le politiche economiche neoliberiste hanno indebolito.” e si completano attraverso la lettura di dati e con la proiezione degli stessi nello scenario di emergenza finanziaria/sociale che si scatenerà a breve a seguito delle necessarie (in quanto etiche) misure per arginare la pandemia del Coronavirus EUROPA NELLA SITUAZIONE ATTUALE un decennio di lunga e profonda crisi, l’impoverimento della classe media, l’invecchiamento della popolazione, la precarizzazione del lavoro e lo spettro della povertà che è avanzato in tutta Europa, specie in Paesi come il nostro caratterizzati da un sistema di protezione sociale inefficace. Vi sono poi state le scelte politiche europee neoliberiste più attente al rigore del pareggio dei bilanci degli Stati membri, alla competitività globale, che non ad assicurare condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti. Fattori concomitanti questi, che hanno di fatto ridotto l’accesso ai servizi pubblici aggravando ulteriormente le già precarie condizioni di milioni di persone. Viene, de facto, rimesso in discussione il principio dell’accesso universale a condizioni di vita dignitose per tutti i cittadini, mentre le distanze tra ricchi e poveri continuano ad acuirsi. Segno, quest’ultimo, dell’importante arretramento della politica in tema di giustizia sociale, di redistribuzione dei redditi e delle ricchezze, della sua rinuncia a fronteggiare dinamiche economiche di natura internazionale. Ne sono prova i dati Eurostat sui redditi degli individui che ci riconsegnano un’Europa diseguale con incrementi consistenti dell’indice di disuguaglianza economica La scarsa efficacia delle politiche nazionali ed europee nel contrastare questo fenomeno fortemente correlato alla nuova stagione del capitalismo contemporaneo, il fincapitalismo , ha inevitabilmente impattato su un aumento dell’indicatore relativo alla popolazione a rischio di povertà monetaria. Tale indice definisce chi vive in famiglie con un reddito equivalente non superiore alla soglia di povertà è passato nel periodo 2010/2015 dal 16,5% al 17,3% (Eurostat 2017). È evidente l’urgenza di un recupero della centralità delle politiche pubbliche in ambito sociale per rispondere al disagio economico e sociale che non lascia immuni neanche coloro che un lavoro ce l’hanno, ma sono retribuiti in modo insufficiente o comunque non godono della stabilità necessaria per potersi considerare al riparo dal rischio povertà, .Dato questo ancora più  preoccupante il trend di crescita dei– Lavoratori a rischio povertà in Europa valori tra il 6% (Finlandia) e  20% (Romania)| . Il quadro descritto da Eurostat, in un generale avanzamento del lavoro povero in Europa, pone l’Italia (anno 2016) tra i Paesi con il più alto tasso di lavoratori a rischio di povertà o esclusione sociale, preceduta solo da Spagna, Grecia e Romania  Tali indici e relativi squilibri  fanno ipotizzare “espulsioni” o peggio”autoesclusioni” Insomma, l’area degli “esclusi” o a rischio di espulsione si allarga senza più importanti resistenze, poiché “includere” non è funzionale allo sviluppo dell’economia finanziaria a differenza dell’economia materiale ,L’economia politica globale ci pone di fronte quindi ad un nuovo e allarmante problema: l’emergere della condizione di espulsione  Nonostante l’urgenza di politiche pubbliche atte a frenare le disuguaglianze sociali ed economiche che stanno minando i valori di un’Europa più equa e inclusiva, si deve prendere atto del fallimento della Strategia Europa 2020, licenziata dalla Commissione europea nel pieno della crisi economica (2010)  in quell’ambizioso obiettivo di ridurre di 20 milioni gli oltre 80 milioni di persone nell’UE (16,5% dell’intera popolazione nel 2008) che vivevano al di sotto della soglia di povertà è stato seppellito da una politica di austerità imposta a tutti gli Stati membri, di cui lo stesso Fondo monetario internazionale ne riconosce oggi i limiti. In poco tempo, di quel modello di sviluppo e dei suoi target è rimasta la mera evocazione, mentre la popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentata in Europa senza alcun freno, colpendo 119 milioni di persone (nonostante le prestazioni sociali) e attestandosi al 25% della popolazione totale. È pur vero che Europa 2020 mirava a risolvere alcuni dei problemi che avevano caratterizzato la strategia del decennio precedente (la cosiddetta Strategia di Lisbona) portando l’Europa verso un modello di prosperità, piuttosto che di austerità. Nel lodevole tentativo di realizzare una crescita bilanciata, la Strategia Europa 2020, inghiottita dalla crisi del debito sovrano, ha mostrato tutta la sua debolezza nel processo di implementazione, ma dato allarmante la sua visione viene riproposta nella stesura della successiva Agenda 2030 COSA CAMBIA CON L’ATTUALE EMERGENZA Vorrei tralasciare le cause che ci hanno portato alle misure adottate, essendo meri esercizi e di analisi che vedranno la dialettica politica/scientifica, sulle quali si discuterà a lungo. Certamente in sintesi comunque riconducibili a una presa d’atto dell’insufficienza sanitaria a fronteggiare fenomeni ancorchè naturali, aprendo un vasto dibattito sia etico che strutturale/istituzionale.Mi soffermo invece su quelle che sono le conseguenze di tale emergenza. L’effetto devastante è una accelerazione di problemi che non sono compatibili con il tempo di uscita da crisi finanziaria, ma che compromettono lo status di sopravvivenza generato da improvvisa povertà che produrrebbe  scenari di distruzione di qualsiasi politica Europea o comunque di aggregazione , in virtù delle regole imposte dalla globalizzazione .Nulla a che vedere per gli effetti con il 29 o il 2003 e 2008 Il crollo del PIL stimato in circa il 4% al mese è un fattore con crescita esponenziale, nel senso che per effetto induttivo il secondo mese avrà un crollo del 8 e il terzo del 16%, fino a collassare nella soglia del 33%. Riportando tale dato negli indici di povertà l Italia con una differenziazione massima nella crescita PIL  rispetto a Germania di  soli 1,2 punti ha mostrato una crescita del 3% all’anno di tale indice rispetto allo 0.3% della stessa Germania. Questo vuol dire che il L’indice di povertà si moltiplica 10 volte la differenziazione nella crescita di PIL. Va da se che nel più ottimistico quadro di una differenzazione dovuta al periodo di emergenza vedrebbe l’Europa deflagrata da un big bang socioeconomico EUROPA FUTURA post emergenza CORONAVIRUS Sembra cinismo ma sono profondamente convinto che non lo sia. L’emergenza che ha sempre caratterizzato i cambiamenti mondiali, anche questa volta ci porge la possibilità di rinnovarci e superare con tempistiche eccezionali percorsi che se affrontati con confronto dialettico avrebbe allungato a dismisura Non cè molto tempo per prendere decisioni, ma è chiaro che è il momento di richiamare ogni centro decisionale, ogni lobby internazionale, ogni struttura che possa incidere in tali scelte a proporre un modello di Europa davvero pronto a sostenere una cura e un programma di ricrescita comune. La prima immediata decisione è la creazione di una vera banca centrale con le caratteristiche di autonomia dei governi correndo anche il rischio di una governance di tipo finanziario e non gia sociale, credo sia la terapia più semplice da mettere in atto. Forse una amara (in termini di democrazia) immediata medicina, che comunque avrebbe effetto di intubamento del malato (in fondo lo siamo Spagna e Italia in Primis) per dargli poi il tempo con il proprio corpo di reagire. Superato il primo periodo la reazione di terapia sarà poi la creazione di un unico modello di Unione. Lo stesso che sia federativo odi altra natura farà parte di un dibattito politico da affrontare con scadenze certe e magari sottoposto a referendum europeo entro 12 mesi La base dello stesso dovrà essere in ogni casofondata  sullo  sviluppo integrato Intelligente, sostenibile e Inclusivo che punta a una crescita sostenibile non solo in termini di PIL, ma anche in ambito sociale e ambientale. MODELLI PRODUTTIVI E INDUSTRIALI CONSEGUENTI Da qui anche i vari conseguenti modelli produttivi non più finalizzati alla generazione di meri guadagni  premianti solo e sempre più gli effetti speculativi, che per loro  natura , non possonoche favorire sleale concorrenza e corruzione. Serve un cambio di percorso anche gestionale. I grandi gruppi soprattutto di controllo Pubblico saranno chiamati a favorire il trascinamento della piccola e media impresa, sollevando la stessa dai temi che ne impediscono lo sviluppo, cioè incapacità di mezzi finanziari e mancata possibilità di investimento in ricerca e sviluppo. In campo Internazionale soprattutto per L’Energia , bisognerà essere pronti , a svincolarsi da politiche degli ultimi decenni  basate solo su accaparramento delle risorse con acquisizioni di concessione o dei mercati  e mettere in atto nuove strategie, puntando su innovazione tecnologica di cui i mercati attuali cmq si serviranno.Per i mercati emergenti in particolare Africano,attuando una nuova politica, non più colonialista ma fornitore di servizi e attrezzature tecnologicamente avanzate.saranno invece prodotti di riferimento per il loro sviluppo Per questo servono anche uomini nuovi, che abbiano la conoscenza degli apparati nonché delle necessarie interazioni tra politica e strategia ,ma che non ne fanno parte e quindi liberi di seguire “nuove direttive”che  la politica, mi auguro Europea , vorrà dare. Io ci sono. Torna all'Appello  
1454. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Francesco Macci  
23 MARZO 2020 L’egoismo del singolo e l’egoismo degli Stati di Francesco Macci Dopo le prime misure restrittive del Governo che imponevano alla maggioranza degli italiani di rimanere a casa, si sono viste sui media molte immagini di persone che nei supermercati riempivano carrelli e auto fino all’inverosimile. Ebbene, in queste immagini traspariva uno stato d’animo proprio di tutto il genere umano: la PAURA, una comprensibile reazione istintiva. Ma se l’essere umano non razionalizza e imbriglia le sue reazioni istintive, queste facilmente danno luogo a comportamenti poco etici: il comportamento poco etico scatenato dalla paura è l’EGOISMO. Sono rari coloro che in questi momenti riescono a rimanere lucidi e coltivare il sentimento opposto all’egoismo: l’ALTRUISMO. Si comprende meglio dopo questa premessa lo scandaloso blocco dell’export di mascherine da Francia e Germania verso l’Italia e la ragione per cui la richiesta di aiuto del Ministro Speranza al Consiglio dei Ministri Europei della Sanità sia andata a vuoto. La reazione istintiva di paura e poi egoismo che abbiamo visto a livello individuale è stata la stessa che hanno avuto,a livello macroscopico, gli altri Paesi nei confronti dell’Italia. Fatto salvo, quando la questione è peggiorata per tutti, ripensarci. Gli Stati non sono entità astratte ma sommatorie di persone con vizi e virtù proprie degli esseri umani e che, al netto di calcoli politici ed economici, sono influenzati, come tutti, da istinti e paure e che soprattutto, vivono sempre una dimensione individuale delle scelte. Nei vari contributi a sostegno dell’iniziativa “L’Esistenza dell’Europa”, tutti fortemente condivisibili, vi sono elencate modalità e azioni specifiche che, partendo da questa crisi, possano portare ad una rifondazione dell’Europa. Ma io credo che ci debba essere un sentimento di base per far sì che queste proposte possano funzionare, ed è quello che spinge una persona a lasciare uno dei due ultimi pacchi di uova rimasti sullo scaffale a chi viene dopo di lei. È un moto empatico dell’animo, a tratti utopico, è l’altruismo. Approfitto inoltre per far mio l’appello del Professor Marco Emanuele di costruzione di una rete internazionale, informale e libera, di intellettuali per l’Europa-in-comune,rivolgendomi però ai miei colleghi studenti universitari e medi, “nativi europei”, per dare vita ad un grande movimento europeo a sostegno dello stesso concetto e chiedendo supporto alle istituzioni universitarie e scolastiche dal cui coinvolgimento non possiamo prescindere per un progetto di così ampia portata. Torna all'Appello  
1455. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Alessandro Corbino  
23 MARZO 2020 di Alessandro Corbino Se un appello dobbiamo oggi fare non è – a mio sommesso modo di vedere – a “qualcuno”. A chi ci governa. A qualunque livello. L’appello necessario dobbiamo rivolgerlo a noi stessi. A coloro che quei governi legittimiamo. Con il nostro consenso (raramente). Con la nostra passività (ordinariamente). Un momento come quello presente esige sicuramente compattezza e disciplina. Ed esige – non meno sicuramente – una guida “sicura” e ben “orientata”. La quale non può non essere oggi quella di coloro che il “caso” ha preposto alle cose. I governanti di questo momento non possono che essere coloro che hanno attuale investitura. E bene facciamo perciò ad invitarli a considerare la gravità del momento. Non è tempo per altro. Ma questo non significa anche che non dobbiamo – da subito – riflettere su uno stato di cose che va modificato. L’esperienza della pandemia ha reso palese a tutti che le ragioni delle insufficienze dei nostri sistemi “liberal-democratici” occidentali (nelle diverse declinazioni: li riguardano tutti) sono legate alla cultura “giuridica” e dunque agli assetti di governo (intesi nel senso più generale) delle nostre società. Non siamo più in grado di decidere tempestivamente, efficacemente e democraticamente.  Per la ragione semplicissima che chi deve decidere ritiene di dovere “dettare” e non invece – come non può non essere – “sintetizzare”. E dunque vive o di esitazioni (quando comprende che le attese sono variamente orientate) o di improvvisazioni (quando lo preme la necessità). Non devo ricordare a nessuno il succedersi piuttosto scomposto (al quale assistiamo, non solo in Italia) di provvedimenti di emergenza (ma anche di “dichiarazioni impegnative”, economiche e persino scientifiche) che si rivelano il giorno dopo (insisto: il giorno) già da rivedere. Nell’emergenza è emersa – con drammatica evidenza – l’inesistenza della “politica”. I nostri sistemi vorrebbero esserne espressione. Probabilmente lo sono stati. Di certo, non lo sono più. E non per malvagia intenzione (o anche solo pervicace insipienza) di questo o quello. Non lo sono perché non vi è più alcuna corrispondenza tra i “modelli” che ci siamo dati (gli ordinamenti giuridici) e le “pratiche” che ne sono venute. I modelli (le nostre “costituzioni”) sono stati costruiti nell’illusione che essi potessero regolare la vita quotidiana delle nostre collettività per sempre (quasi diretti a disciplinare una realtà già “nota” e sostanzialmente “immobile”). E hanno dunque lasciato (com’era inevitabile che fosse) spazio ad una “pratica” degli stessi che se ne è resa (spesso) indipendente. Penso a ciò che è accaduto con la questione giustizia in Italia. Abbiamo perduto di vista la relazione (insuperabile) tra “complessità” della realtà e conseguente necessità che la “decisione” – in un ordine “politico” (dunque di autogoverno) – sia il risultato di un “processo” collettivo. Deve avere come “premessa” le condizioni (anche e prima di tutto “culturali”: determinano la formazione del “cittadino”) che ne rendano possibile un diffuso “consenso”. Attraverso percorsi che possono (debbono) avere configurazione varia, ma che devono rendere (il più possibile) quel “risultato” individuo (l’atto generale di indirizzo o di amministrazione, la decisione “giudiziaria”) una determinazione che “compone” istanze diverse (che possono essere talora contrapposte, talora solo lontane nello spazio, talora influenzate dai diversi contesti, talora di differente urgenza, talora in relazione dialettica ulteriore). Il che non significa affatto guardare ad un defatigante e inconcludente interrogarsi continuo. Significa comprendere che la decisione “politica” non può, di principio, essere affidata a meccanismi di semplificazione. Li deve prevedere. Non li deve dunque né escludere, né esaltare. Li deve semplicemente “includere”. Deve essere possibile coniugare l’esigenza di efficienza e tempestività con la contemporanea necessaria attenzione al concorso dei “fattori” (molteplici e spesso originali) che incidono sulla configurazione della realtà. Capisco benissimo che dare espressione a una tale visione culturale sia facile solo da enunciare. Ma è la sfida con la quale ogni “politica” (ogni sistema di autogoverno) si è sempre dovuta misurare nella storia (al diverso e mutevole livello di difficoltà che essa propone). E dunque con l’ausilio degli strumenti (sempre più raffinati) che le tecniche nel tempo mettono a disposizione. Scendo al concreto. Abbiamo maturato l’idea (di matrice illuministica) che la “legge” (il “disegno” delle cose: ne presuppone configurazione e ne detta disciplina) fosse sufficiente a regolare le nostre esistenze. Quando invece ciò che dà effettività alla realtà materiale non è la (pur indispensabile) “legge”, ma il “diritto”.  Non conta solo il “criterio” che guida l’osservazione delle cose. Conta (e molto) anche il “diritto”, il significato che dà alla legge colui che è chiamato a darvi attuazione.  Il “fatto” che egli “deve” disciplinare non sempre si ripresenta nella configurazione che ne è stata predefinita. E tuttavia  deve ricevere definizione. Come infatti accade. Ma questo non deve sottrare chi provvede al giudizio di opportunità che ne consegue. Un giudizio che non cambierà (non potrà) la decisione “specifica”. Ma che è indispensabile ad “orientare” quella futura.  Anche il “diritto” merita, in un ordinamento che voglia essere “politico” (di autogoverno), un’attenzione collettiva (nelle opportune forme) non minore di quella che riserviamo alla legge. Come i fatti che stanno stravolgendo le nostre vite sottolineano, la legge nasce dall’esperienza, ma disciplina ciò di cui non vi è stata ancora esperienza. Accade non solo quando gli eventi siano assolutamente nuovi (come quelli che stiamo vivendo). Accade sempre. Ogni “caso” sul quale decidere è sempre “individuo” e non riconducibile meccanicamente perciò all’astratto criterio (la legge) che ne orienta la soluzione (che l’amministratore/giudice) deve adottare. Ed esige dunque capacità di “attenzione” nel decidente. E capacità di osservazione in colui (il “cittadino”) che – direttamente o indirettamente – ne subisce le conseguenze. E dal cui “consenso” (di “governato”) discenderà il (necessario) giudizio “politico” (naturalmente, nelle complesse e varie modalità che ne rendono possibile la coniugazione di “generalità” e “competenze”). Dal quale dipenderà la rinnovata “legittimazione” o meno dei “governanti”, che è a fondamento di ogni metodo di autogoverno. Vengo all’appello presente. Anch’io credo che nessuno Stato europeo sia in grado da solo di reggere alle necessità del nostro tempo. Credo anche tuttavia che l’esperienza abbia dimostrato che dell’Unione Europea sia stata concepita un’identità “politica” del tutto impraticabile (o almeno incompatibile con una visione liberale). La “politica” è un metodo di governo che esige “concorso” (ciascuno deve potere incidere, come “cittadino” della polis, sulle scelte comuni) e “comunione di cultura” (una “storia” condivisa che faccia da sostegno ad un rinnovamento degli obbiettivi che nasca dall’esperienza e non dalla presunzione). I Paesi europei non hanno una storia condivisa. Hanno culture profondamente diverse (lingua, religione, tradizioni) che affondano le loro ragioni in percorsi spesso millenari (e dunque di grandissimo radicamento). Di comune hanno il patrimonio scientifico-tecnologico e la possibilità di avere convergenti interessi economici. Un fatto che però condividono con tutto il mondo e perciò insufficiente a generare “identità specifiche”. Elevati – come si è fatto negli ultimi decenni – a “bandiera” hanno solo l’effetto di marginalizzare i valori legati alle storie specifiche. Una evenienza che “spersonalizza” (e che non condivido). Per farmi comprendere meglio: promuove l’idea della “assimilazione” forzata dei diversi e non di una loro “integrazione” per spontanea convergenza. Favorisce nei fatti la sopraffazione delle minoranze, di quel pensiero “indipendente”, che io giudico essere invece il motore primo di ogni progresso “libero”. Le “minoranze” non possono ovviamente pretendere di indicare la linea. Ma senza rispetto delle minoranze vi sono solo regimi. Ne possono mancare camicie e stendardi. Ma non ne manca la sostanza. Chiudo dunque. A me sembra che un’Europa Unita sia una necessità “politica” e non morale. Risponde ad una ragione di utilità. E nelle condizioni storiche date essa può esserlo – a mio sommesso modo di vedere – in una direzione molto diversa da quella che l’ha connotata fin qui. Viva dunque l’Europa. Oggi perché senza quella “solidarietà” (economica e monetaria) che essa può assicurare in questi terribili momenti dovremmo affrontare (tutti, forti e meno forti) difficoltà forse oltre le nostre possibilità. Domani perché essa resta una necessità storica.  Ma secondo un ordine costituzionale e politico del tutto diverso da quello che abbiamo vissuto fin qui. Quale? Non so dire. Credo che solo una riflessione approfondita ed “aperta” (priva di modelli ma ricca di conoscenza storica) potrà aiutare. L’appello deve essere alle intelligenze. Deve sollecitarne l’impegno perché sappiano (coralmente e in un dialogo libero) accompagnarci verso una strada indispensabilmente nuova, come era evidente prima della pandemia. E come la pandemia può avere solo reso anche manifestamente indifferibile. Torna all'Appello  
1456. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Giovanni Castellaneta  
23 MARZO 2020 Covid-19: il futuro delle relazioni internazionali di Giovanni Castellaneta Proviamo ad azzardare qualche analisi di scenario sulle conseguenze che la pandemia di Covid-19 lascerà sulle relazioni internazionali, a livello sia politico che economico, in un periodo intermedio tra BC (Before Corona) e AC (After Corona) come dice efficacemente Alan Friedman che aveva già ipotizzato un mondo senza ostacoli (The World is Flat) per qualsiasi flusso di persone, cose, informazioni ed epidemie. È chiaro che l’Unione Europea si trova ad affrontare forse la sfida più grande della sua storia: una parte importante del proprio futuro dipenderà dalla risposta data dalle sue istituzioni e dal livello di coordinamento che gli Stati Membri saranno in grado di fornire.Le caratteristiche peculiari di questa sfida cruciale, e le prime risposte messe in camponegli ultimi giorni, consentono di effettuare alcune riflessioni iniziali. Lo shock che l’Unione Europea sta vivendo in queste settimane – e che presumibilmente continuerà nei prossimi mesi – è paragonabile, seppur con le dovute proporzioni, a quanto vissuto dall’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Da quella tragica esperienza nacquero i germogli, poi sbocciati, del progetto di integrazione comunitaria. È anche possibile attendersi, in questo caso, una reazione positiva e sfruttare l’emergenza attuale come un’occasione per un nuovo slancio di questo progetto. Al di là delle ricadute economiche, non sottovalutiamo dunque il significato politico di questa vicenda. A fronte di una Unione Europea che potrebbe ricompattarsi, la crisi attuale mette a nudola debolezza del Regno Unito che si trova da solo ad affrontare questa situazionedimostrando di non avere una strategia chiara. Sono passati meno di due mesi dall’uscitadi Londra dall’UE, ma fino ad ora la Brexit non sembra dare quei vantaggi sperati. In un’ottica costi- benefici, il “prezzo” da pagare per far parte del club europeo sembrainferiore ai benefici che si possono trarre dalla membership. L’impatto della pandemia è diverso nell’Unione Europea rispetto alla Cina per caratteristiche demografiche ed economiche. È stato più semplice circoscrivere laprovincia di Wuhan, sia per quanto riguarda i contagi, sia per la trasmissione al sistema produttivo: questa crisi evidenzia il profondo grado di interconnessione tra gli Statieuropei lungo le supply chains del settore manifatturiero. È dunque evidente che similidinamiche non possono essere gestite se non in maniera coordinata e organica: quandotutto questo sarà finito, occorrerà riflettere sull’opportunità di aumentare il livello di integrazione includendo anche settori chiave come la Sanità nei livelli transazionali eriportando alcune produzioni di beni essenziali in ambito europeo, dopo averle negli ultimianni cedute al resto del mondo ed in particolare all’Asia. A livello economico, tutti si aspettano un rimbalzo verso l’alto dopo il crollo inevitabileche si prospetta nelle prossime settimane. Sarebbe illusorio però attendersi una ripresa immediata e di entità proporzionale allo shock: aspettiamoci un periodo di incertezza e, dunque, una curva di risalita meno ripida. Vero è che la crisi attuale è determinata da un fatto congiunturale e non sistemico, dunque nel medio-lungo periodo la ripresa sarà più sostenuta; ma questa emergenza ha messo a nudo gli errori della classe dirigente nel trascurare investimenti in settori chiave come ricerca, salute, università, infrastrutture. Alla luce di queste riflessioni, speriamo che si riesca ad interpretare tutto questo comeuna wake up call per impostare politiche lungimiranti, basate su importanti investimentipubblici da parte di uno Stato che torni ad essere “virtuoso”. Se così sarà, le opportunità per gli investitori privati non mancheranno e, anzi, questa vicenda potrebbe aiutare ilnostro sistema economico a velocizzare la transizione verso la digitalizzazione e la green economy. La pandemia attuale, e quelle che ciclicamente verranno, pongono poi quesiti sulla posizione dominante delle grandi multinazionali (Apple, Google, Alibaba, Huawei, etc.). Queste, infatti, si preoccuperanno di mantenere ed incrementare la società globaledi consumo sostenendo i settori dei servizi ed un quadro finanziario positivo nell’esclusiva ottica di profitto, di mantenimento e di miglioramento delle proprie posizioni worldwide. Infine, è necessaria una riflessione sul ruolo della globalizzazione. Questa, da un lato, si rafforza in un mondo interdipendente, consentendo il libero flusso di opinioni, servizie, purtroppo, anche pandemie; dall’altro, si diluisce in una virtuale cacofonia perché indebolisce tutti gli attori statuali, inclusa la Cina e gli Stati Uniti che ne stanno uscendo entrambi indeboliti. Nel breve periodo, governi autoritari e nazionalisti potranno trarne vantaggio usando tutte le possibilità tecnologiche di controllo della popolazione (riconoscimento facciale, tracking di movimenti e di profili individuali) senza tuttaviaavere la forza, nel medio periodo, di contrastare le varie crisi sanitarie, ambientali edeconomiche, se non coalizzandosi tra di loro. Ecco perché dunque l’Unione Europeapotrebbe emergere alla distanza come esempio vincente, a patto che si uniscano le forze democratiche ed economiche e che si faccia un uso rispettoso delle tecnologie moderne. Torna all'Appello  
1457. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Pierluigi Maria Dell’Osso  
20 MARZO 2020 di Pierluigi Maria Dell’Osso Europa o non Europa: questo è il problema, senza mezzi termini, in tempi di nefasto contagio virale dilagante. L'Unione Europea, che è parte dell'Europa geografica, si trova di fronte a una di quelle prove storiche che temprano e rafforzano oppure uccidono. Nella seconda metà del secolo scorso, con il "patrocinio" dell'immane tragedia della guerra, dalla lungimiranza e e dall'alto intelletto di pochi, fra i quali illustri italiani, prese forma l'idea di inediti legami supernazionali: e ciò, in quella stessa area che era stata teatro di scontro titanico fra stati nazionali e di spargimento di sangue, quale mai s'era visto in passato in sì ristretto lasso temporale. Per secoli, del resto, la storia europea era stata scandita da odi inesausti, da contrapposizioni insuperate, da guerre feroci. E, dunque, la scommessa dei  progenitori dell'Unione Europea poteva apparire più un temerario volo intellettuale che una concreta prospettiva. La storia millenaria le si ergeva contro, le negava, quasi ontologicamante, vie, perfino speranze, di sviluppo. Eppure, l'idea di imporre alla storia una svolta più che epocale sopravvisse, raccolse crescenti consensi, riuscì a progredire, passo dopo passo, un traguardo dopo l'altro, superando ostacoli formidabili e scetticismi d'ogni ordine e grado. In un pugno di decenni, si trasformò da rete di legami commerciali, inizialmente settoriali, in mercato comune; poi, con un mirabile salto in avanti, in Comunità europea, in Unione europea. Innumerevoli sono stati i momenti di criticità, di ripensamento, di aperta ostilità, di egoismi nazionali paratisi sul difficile tragitto dell'Unione, ma il processo è andato avanti, la volontà di unione è stata superiore a quella di separazione. Le lamentazioni sui ritardi, sulle contraddizioni, sulle discrasie di vedute si sono levate ad ogni piè sospinto, dimenticando il punto di partenza: l'atroce scenario di macerie prodotto dalla seconda guerra mondiale. Non si può certo dare un'idea riduttiva del sofferto percorso, del divenire spesso impervio, della dialettica, non di rado caratterizzata da asperrime polemiche. M'è occorso, quale componente, per molti anni, della Rete Giudiziaria Europea,  di vivere i tempi delle interminabili discussioni su temi che urticavano la gelosa difesa delle sovranità nazionali. Non è stato facile giungere all'adozione del mandato di arresto europeo, delle squadre investigative comuni, di Eurojust e della stessa iniziale Rete Giudiziaria Europea. Pure, ci siamo arrivati e, paradossalmente, non pochi dei paesi apertamente scettici, quando non ostili, hanno poi utilizzato gli strumenti comuni, provvidamente e con grandi risultati. Senza alcuna supponenza, si può osservare come l'Italia sia stata in primo piano, in virtù della esperienza di cui era portatrice: contro la criminalità di stampo mafioso, il terrorismo brigatista, i gravi delitti economico-finanziari. L'assistenza giudiziaria endoeuropea è uno strumento, via via affinato, che va dimostrandosi sempre più imprescindibile, giacchè la grande criminalità organizzata ed i più complessi contenziosi civili non conoscono certo confini e frontiere. Ebbene, men che meno, li conoscono batteri, virus, epidemie. Ed ancora una volta l'Italia si trova in prima linea, nella battaglia che coinvolge l'Europa ed il mondo intero, i quali guardano alla nostra dolorosa esperienza, sempre più spesso mutuandone linee di condotta e strategie. E proprio questo è il punto. La guerra con l'inedito virus ingravescente non può essere vinta in solitario: tutte le evidenze conclamano l'esigenza di univocità di risposte e di solidarietà transnazionale. Ecco la tremenda congiuntura storica che ci si para innanzi, ben  di là dei confini nazionali. È in ciò stesso il senso delle parole che sono al principio di queste considerazioni. L'Unione Europea, che è tuttora in cammino, avendo davanti a sè un lungo percorso, non può, ora, indugiare né tollerare incertezze e divisioni. L'Europa, sorretta dall'unità d'intenti dei suoi paesi membri e dai relativi apporti convergenti, deve inderogabilmente mostrarsi all'altezza della saevitia temporum e dell'alto ubi consistam perseguito dai fondatori: deve essere centro fondamentale di resistenza e di riuscita, valore aggiunto straordinario allo sforzo dei singoli stati. La pandemia, come tutto ciò che natura origina,  ha avuto un inizio ed avrà una fine. Purtroppo, resteranno sul campo tante vittime incolpevoli. Il gravissimo rischio è che possa registrarsi fra tali vittime anche l'idea dell'Europa unita, la quale non ha scelta: o si dimostra strumento di forza e di forte capacità aggregatrice oppure perisce, lasciando la traccia di  un nobilissimo ideale, che, dopo un difficile, ma tenace, percorso di crescita, si sarà, alfine, rivelato, per l'insipienza colpevole degli umani, un'utopia. E chi scrive confida fermamente che ciò non accada. (19 marzo 2020) Torna all'Appello  
1458. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Alessandro Figus  
19 MARZO 2020 Unione europea, solo un club? di Alessandro Figus Che cos’è l’Unione Europea? Quali sono le sue prospettive? Intorno a queste domande naturali si possono articolare una pluralità di strade, si potrebbe rispondere che l'Unione Europea è oggi un gruppo di 28  Paesi i cui singoli governi nazionali operano insieme e che, dopo la Brexit, è sceso a 27. Per il futuro, è inutile fare previsioni. Qualcuno sostiene che l’Europa sia da vedersi come un “club” di Paesi che sono d’accordo a seguire determinate regole al fine dell’ottenimento di definiti benefici e che per far parte del club si debba pagare una tassa di iscrizione, cioè pagare delle tasse. L’incasso delle quote serve a regolamentare la vita dei membri del club, che non sono gli Stati, ma i cittadini europei, ma essere parte dell’Unione europea rafforza il potere mondiale di tutti loro sia dal punto di vista economico, finanziario nonché politico. Ma davvero l’Unione Europea è un club? Mi sembra semplicistico parlare in tali termini dell’Europa, eppure talvolta appare come tale, quando non si comprende cioè che la sfida per gli anni futuri non è quella del rafforzamento della sua struttura o quella che continuiamo a chiamare la strada verso l’integrazione europea, ma il consolidamento dell’idea di Europa - nazione. Per fare questo non vedo altra via che lasciare il percorso che identifica l’Europa come la somma dei 27 Stati membri per imboccare, attraverso le riforme nuove, politiche comunitarie imprescindibili per coinvolgere i cittadini in una polis europea realmente transnazionale fondata sui valori della solidarietà, della democrazia, dell’uguaglianza e, soprattutto, del rispetto dei diritti umani e politici. Il problema della partecipazione politica resta al centro dell’attenzione; gli sforzi del Parlamento europeo e della Commissione per organizzare delle vere campagne elettorali europee, fino ad oggi, non hanno rafforzato la partecipazione degli elettori. È sempre mancata la campagna elettorale comunitaria, incentrata su questioni e programmi comunitari e promossa da partiti europei. Le diverse concezioni politiche sono state poste invece da gruppi e partiti politici nazionali che hanno proposto campagne nazionali concentrate principalmente sui problemi nazionali e non su problemi transnazionali europei. Nei prossimi anni questa è la sfida che il Parlamento europeo dovrà affrontare; intorno alla partecipazione dovranno ruotare le campagne di sensibilizzazione dei cittadini e di informazione per far conoscere effettivamente il ruolo istituzionale dell’Europa;  sul piano politico il livello europeo dovrà completamente sostituirsi al livello nazionale con candidati e relative campagne elettorali inquadrate sui temi dell’Europa. Superare i regionalismi a favore di una politica europea deve diventare una priorità trasmettendo nei cittadini nuovi interessi, evidenziando la necessità di una individuazione in un voto europeo. Superare il processo culturale che si fonda sulla peculiarità di identificarsi nel territorio non vuol dire dimenticare i caratteri etnici, linguistici e storici, cioè culturali di quel popolo su quel territorio coincidente con un determinato Stato nazionale, ma significa piuttosto superare i soli obiettivi regionalistici e quindi nazionalistici per approdare ad una Unione europea che tenga conto di tutti i fattori regionalistici e che, sulla via della sua integrazione, si trasformi a pieno titolo nell’Europa delle regioni. Questo è l’unico progetto politico realizzabile concretamente in tempi brevi e che si contrappone ancor oggi all’ “Europa delle Patrie” di De Gaulle e all’ “Europa degli Stati” che, ancora recentemente, si è riproposta all’attenzione dell’opinione pubblica europea; sono strade, queste ultime, oggi poco perseguibili, soprattutto per quella punta di utopia che non può contraddistinguere la “pragmaticità” operativa di una Europa che non ha tempo di credere in ideali di fatto irrealizzabili. Sul piano politico, e del rafforzamento in genere del suo sistema, si ha come conseguenza l’esigenza della nascita di un nuovo sistema elettorale comunitario con partiti che si propongono al solo livello europeo, con liste di candidati europei scelti sulla base della legittimità democratica e che si confrontino in un dibattito politico che affronti le differenti questioni europee. L’Unione europea non può più essere la sola somma dei partiti e candidati nazionali, lo spazio geografico dovrà coincidere con lo spazio politico. Solo così l’Unione Europea diverrà un vero attore a livello mondiale concretizzandosi l’effettiva integrazione europea. Ecco perché durante la nuova legislatura, il Parlamento dovrà occuparsi anche di questo, tentando di elaborare le riforme del sistema elettorale del Parlamento europeo. Auspico fortemente che ci si preoccupi di elaborare un nuovo sistema elettorale per le prossime elezioni europee. Non si può certo dimenticare che l’Unione Europea è stata concepita dai membri fondatori come un ente ad attuazione progressiva, cioè una comunità organizzata specificatamente nel settore economico, che fosse in grado di realizzare a mano a mano una concreta unione tra popoli europei, al fine di raggiungere il miglioramento non soltanto economico, ma anche sociale e politico. In questo contesto si inquadra il sistema elettorale che deve avere uniformità, senza trascurare i valori essenziali della vita politica degli Stati membri, al fine di difendere la rappresentatività del Parlamento dai calcoli politici all’interno di esso. Il cambiamento della legge elettorale presuppone comunque anche un adeguamento istituzionale del l’Assemblea che andrebbe vista non più come soggetto composto di rappresentati dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità, ma piuttosto come Parlamento della nazione-Europa, formata dai rappresentanti dei cittadini europei, espressione dunque del popolo europeo. In Europa in cui crescono le identità regionali e dove sono ancora forti gli aspetti nazionalistici, l’identità europea resta purtroppo ancora debole, molto più debole di tutte le identità nazionali dei cittadini europei. È proprio grazie ai regionalismi che si rafforzano le identità regionali all’interno dei singoli Stati nazionali rafforzando l’Europa federale. Partendo da queste condizioni ambientali la riforma federalista dell’Unione europea si concretizza e fornisce la ricetta per raggiungere l’identità europea, pur mantenendo - nell’ambito di una struttura evidentemente sovranazionale - tradizioni e identità culturali legate al territorio. Penso, come esempio, alla realizzazione di infrastrutture vitali come il quinto corridoio europeo Lione-Torino-Trieste-Kiev, simbolo di un’Europa trans europea, di un’Europa delle regioni che pensa allo sviluppo locale guardando a comuni macro strategie. Appare evidente, in conclusione, che la costruzione di un Parlamento concretamente europeo passa attraverso la crescita di poteri e che non vi potrà essere trasferimento di sovranità se si dovesse eludere il principio democratico basato sui valori della solidarietà, della democrazia, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, giuridicamente correlati al consolidarsi dei suoi poteri, luogo di equilibri istituzionali. Alessandro FIGUS Cattedra di Diritto dell’Unione Europea, Link Campus University Pro Rettore per la relazioni Internazionali e la Integrazione europea dell’Istituto Internazionale di Management, Moldova Pro Rettore all’Internazionalizzazione della Università di Stato del Nord Kazakhstan Torna all'Appello  
1459. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Marco Emanuele  
18 MARZO 2020 In virus veritas. Per una Europa-in-comune di Marco Emanuele (18 marzo 2020) Come di fronte a ogni virus che si rispetti, i confini fisici si sciolgono come neve al sole. Eppure la nostra idea di confine, di ciò che traccia una chiarissima separazione tra noi e gli altri, tra gli amici e i nemici, tra la civiltà e la barbarie, tra la purezza e l’impurità, è ancora lì a farla da padrona. Illusi che alzando i confini vinciamo la paura e guadagniamo in sicurezza, L’Europa rischia di essere solo una sommatoria di trincee. Eppure abbiamo lottato tanto, creduto nell’Europa come possibilità transnazionale di ripensamento di democrazie rappresentative, e nazionali, in evidente crisi de-generativa. Ancora oggi, lo diciamo con amarezza, è con noi l’annoso problema di collettivi umani che non si sentono rappresentati, che faticano a sentirsi comunità. Perché, diciamolo chiaramente, nella politica che conosciamo abbiamo lasciato troppo poco spazio al sentimento, a quel “mistero istituente” che abbiamo sacrificato sull’altare di un realismo senza respiro storico. Ed eccoci qua, società dedite alla esasperazione dell’immunitas verso un nemico molto spesso immaginato (i migranti) o invisibile ma molto reale (il virus). Ben considerando la pratica dell’immunizzarsi come un qualcosa che ci appartiene nel difenderci, scopriamo – attraverso il virus di turno – la nostra verità profonda. In virus veritas. Siamo impauriti, smarriti, incapaci di cogliere le possibilità in una incertezza che, volentieri, viviamo come insicurezza. Un passo alla volta. È chiaro che, per uscire dal virus, occorre che i tutti Paesi europei si uniformino nell’adottare le misure che stiamo vivendo in Italia. Il virus, infatti, non ha preferenze di nazionalità: attacca indistintamente. Ciò che non vorremmo, invece, è che il distanziamento sociale, necessario in questa fase, diventasse, nell’Europa del dopo-virus, una pratica di vita, che si cogliesse l’occasione per ribadire l’ “ognuno a casa propria”. Di fronte alle sfide planetarie, infatti, non vale più l’idea di “piccole Patrie” come zattere nell’oceano della storia. L’appello libero che abbiamo sottoscritto, “Per l’esistenza dell’Europa”, chiama in causa ciascuno di noi. I decisori politici, i rappresentanti delle Istituzioni, i diplomatici, gli economisti, gli scienziati,  gli imprenditori, i comunicatori ma, soprattutto, noi intellettuali.  Se consideriamo il virus, fenomeno planetario, come un punto di svolta, ne viene che vi è la responsabilità di immaginare un “dopo” che è già nell’ “ora”. Ogni voce si sente meglio se entra in dialogo con ogni altra e se, nell’elaborare contenuti e visioni, esce dall’autoreferenzialità e con-divide il “comune”. Per questa ragione, immergendoci nel dopo, val bene rivolgere un appello nell’appello. Si colga questa occasione per costituire una rete internazionale, informale e libera, di intellettuali per l’Europa-in-comune; va dato un segnale chiaro e forte da parte degli intellettuali che intendano, con gli uomini di buona volontà, assumersi il carico di costruire il futuro-nel-presente, aderendo all’idea mirabilmente espressa da Panikkar di “tempiternità”: è la nostra grande storia a essere messa in gioco come potenzialità che vorremmo diventasse possibilità. Per fare questo è necessario aprirci a sguardi davvero e profondamente progettuali. Noi intellettuali possiamo lavorare insieme per far nuovamente respirare il realismo. Domandiamoci: di cosa ha bisogno l’Europa ? Non basta più dire che la bellezza e la cultura salveranno il mondo, quasi che la loro sola esistenza costituisse una giustificazione alla inazione. La bellezza e la cultura devono uscire dai libri e dai musei per alimentare decisioni strategiche comuni in una Europa la cui realtà (solo) intergovernativa non è né sufficiente né inevitabile. L’Europa ha bisogno, anzitutto, di ritrovare la sua anima. Chi scrive è allievo intellettuale di un Maestro che, da partigiano, ha combattuto per la libertà. Questo, insieme a molte altre cose che altri potranno sottolineare, basta per dire che chi firma questa riflessione intende rappresentare un tassello di un mosaico di responsabilità che va progressivamente allargato: la libertà non si costruisce chiudendosi in casa, al sicuro ma vive nell’oltre del livello di immunizzazione necessario. La libertà è un rischio e l’Europa deve correre il rischio di essere un soggetto strategico nella storia planetaria. Il ruolo degli intellettuali e degli accademici può farsi storico in un’alleanza con i rappresentanti politici, delle istituzioni, dell’impresa e della scienza. Collocandoci noi sul piano di immaginare il principio di un’anima europea coesa perché con-divisa, vanno ripensati una serie di punti. Come si può costruire un’Europa davvero comune dal punto di vista istituzionale ? Qui non è solo questione degli Stati (peraltro, l’idea stessa di Stato-nazione presenta evidenti limiti strutturali e forse è venuto il tempo di una sua problematizzazione) ma di immaginare anche nuove forme di rapporti tra il centro del potere europeo e i centri territoriali (le città, le regioni) in una logica complessa, non più solo top-down. Le tecnologie dell’innovazione giocano un ruolo crescente, soprattutto in questa fase critica, per aiutare a trovare soluzioni sempre migliori per garantire il benessere dei cittadini. Se l’Europa deve avere un suo ruolo nella “guerra fredda” in atto a livello planetario per il controllo delle tecnologie dell’innovazione, attraverso queste ultime si possono migliorare possibilità di con-divisione critica del progetto europeo verso forme di cittadinanza più consapevoli e, come si diceva prima, per aiutare l’Europa a diventare progressivamente, dal punto di vista istituzionale, una “casa comune”. A queste idee, naturalmente, vanno associati i grandi progetti strategici, e pluriennali, che il livello europeo richiede nei campi della politica estera e della diplomazia, della fiscalità, del mercato del lavoro, della difesa, dell’intelligence, delle infrastrutture. Mai dimenticando, in conclusione, che l’Europa può reggere solo a condizione che la coesione e la resilienza dei singoli contesti nazionali siano inquadrate in più ampie resilienza e coesione transnazionali. Nell’essere realisti, con chi ci sta. Torna all'Appello  
1460. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Gianfranco Leonetti e Umberto Triulzi  
2 APRILE 2020 Ipotesi di politiche economiche nazionali ed europee di condivisione dei fattori rischio di Gianfranco Leonetti e Umberto Triulzi  1.Introduzione Partendo dalla situazione di emergenza in cui si trova l’Italia a seguito della diffusione di Covid-19, formuliamo alcune proposte di politiche economiche da attivare nel brevissimo, breve-medio e lungo periodo per contribuire a riprendere il sentiero (smarrito da tempo) della crescita. La strategia non prevede un prima e un dopo, ma un programma unico di interventi finalizzato al conseguimento di due obiettivi: il primo, l’avvio in tempi brevi di interventi volti a fornire la liquidità necessaria alle famiglie, alle imprese, ai lavoratori, ai professionisti autonomi, per affrontare la situazione di emergenza e il lockdown di molte attività economiche e di sevizi ai cittadini e alle imprese; il secondo, il reperimento delle risorse necessarie alla ripresa della crescita (finance for growth) e l’indicazione di un percorso che ci conduca a un vasto piano di investimenti di medio-lungo periodo. L’orizzonte è di consentire alle imprese che operano nei settori delle infrastrutture materiali ed immateriali, della ricerca e sviluppo, dell’energia, dell’ambiente, della sanità, del manifatturiero e dei trasporti e dei servizi connessi alle nuove tecnologie di comunicazione, del turismo e dell’Housing sociale di disporre, terminata la fase dell’emergenza, di risorse finanziarie da destinare alla riqualificazione del capitale umano, al rafforzamento delle capacità produttive e allo sviluppo di nuovi modelli organizzativi, anche auspicando la partecipazione sociale dei lavoratori alle scelte delle imprese. La premessa necessaria, per dare sostenibilità alla proposta di politiche economiche qui avanzate, è che la guerra sanitaria in atto per il dilagare dell’emergenza sia vinta in un arco di tempo di breve-brevissimo periodo (nell’ipotesi più ottimistica fatta dal governo entro il mese di luglio, in quella più pessimistica entro la fine dell’anno 2020). Qualora, infatti, la situazione sanitaria dovesse prolungarsi in tempi più lunghi o addirittura aggravarsi, e non solo nel contesto italiano ma a livello europeo e globale, il quadro macroeconomico e sociale di riferimento delle politiche pubbliche verrebbe a cambiare in modo radicale, ed in questo caso le politiche qui esposte dovrebbero essere riviste in direzioni ed intensità oggi difficilmente prevedibili. Una seconda premessa è da collegare alla seguente considerazione. L’Italia e tutti gli Stati membri dell’UE sono oggi interessati da una crisi senza precedenti e con effetti di impatto sui sistemi economici che tenderanno ad aggravarsi con l’estensione delle misure di lockdown avviate a livello nazionale e che, evidentemente, non possono essere affrontate con interventi ordinari as usual. Occorre pensare a strategie di medio-lungo periodo e a riforme che siano condivise e che diano fiducia a tutti gli operatori economici e ai singoli cittadini. Non è, infatti, immaginabile proporre iniziative che possono riguardare solo pochi settori, sia su scala nazionale o europea, e non è solo la sanità che, alla luce di quanto sta accadendo nel nostro sistema ed in altri sistemi europei vicini al collasso, è da riformare e riprogrammare per fare fronte alle esigenze di prevenzione e difesa della salute pubblica. Anche i modelli economici e finanziari che hanno caratterizzato ed influito sulle dinamiche dei processi produttivi e di scambio a livello globale vanno profondamente riformati, partendo dalla rivalutazione e dal rafforzamento della presenza dello stato-imprenditore nella erogazione dei servizi da valorizzare perché di pubblico interesse (sanità, istruzione, infrastrutture e servizi strategici), e da modelli di business finanziario costruiti su una più ampia partecipazione del capitale pubblico e privato nell’approvvigionamento delle risorse finanziarie necessarie ad assicurare la realizzazione del piano industriale e di investimenti per la ripresa della crescita. Ben più complessa la riflessione sull’Unione Europea, costruita come Europa dei diritti, del libero mercato e della circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali, con un percorso in itinere di Unione bancaria, di Unione dei capitali e di Unione energetica, ma distantissima dall’avviare politiche fiscali e di bilancio comuni volte a consentire interventi di emergenza nei confronti degli Stati maggiormente colpiti dalla crisi sanitaria ed economica. I terribili momenti che viviamo devono spingere l’Europa a fare molto di più della sospensione momentanea delle regole di bilancio dell’eurozona, compreso il fiscal compact, o della sospensione (se pure limitata) del regime di aiuti, ma indurre i Paesi membri dell’Unione Europea a immaginare un bilancio pre-federale, l’introduzione semplice ma rivoluzionaria di un intervento pubblico nelle economie europee. Servirebbe una spinta verso un processo di unificazione politica europea, che porterebbe a valorizzare non solo l’Europa economica, ma l’Europa sociale e solidale, come luogo dei “Patres”, uniti nelle nostre specifiche e ineludibili diversità. 2. Il contesto italiano e il mood europeo: ipotesi di risk-spreading policies Questa guerra, che vede in prima linea uomini e donne, medici ed infermieri, addetti alle pulizie e operatori delle utility, operai, semplici cittadini e professionisti si vincerà solo accorciando i tempi, e avendo a disposizione la liquidità necessaria. Il fermo di molte attività produttive e commerciali in atto nel nostro paese, a cui occorre aggiungere nei prossimi mesi la chiusura di molte imprese trade oriented che non potranno esportare o rifornirsi sui mercati internazionali in conseguenza di misure analoghe avviate dai nostri partner commerciali, impongono di attivare misure straordinarie per fornire la liquidità di cui hanno bisogno le famiglie, i lavoratori e le imprese per superare la fase dell’emergenza. La natura della crisi economica e la recessione nella quale ci troviamo non hanno molti precedenti in letteratura. Le conseguenze indotte da uno shock dal lato della domanda (contrazione dei consumi) unitamente ad uno shock dal lato dell’offerta (contrazione della produzione), potrebbero scatenare una eventuale e non auspicabile instabilità finanziaria e innescare un deleveraging globale. Sicuramente i danni maggiori saranno avvertiti dai paesi che più dipendono, come il nostro, dagli scambi commerciali internazionali, dai paesi che non sapranno evitare i fallimenti delle proprie imprese, ancor più se di piccole dimensioni, o mantenere la base occupazionale proteggendo il reddito e il valore del lavoro autonomo dei commercianti e dei professionisti, e quindi non in grado di proteggere il loro sistema previdenziale. Gli effetti che la crisi avrà sull’inflazione sono sicuramente in una prima fase deflattivi, ma gli impatti successivi saranno da valutare con attenzione perché dipenderanno da chi, tra i paesi colpiti, saprà più rapidamente riavviare i motori della crescita. In assenza di collaborazione e di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri dell’UE è anche possibile immaginare il diffondersi di focolai inflattivi in Europa. La buona notizia, ci auguriamo, è quella di uscire prima di altri paesi dal lockdown e quindi iniziare a ripartire. Relativamente al fabbisogno di liquidità, per sopperire al crollo dei ricavi e delle entrate tributarie ed extra tributarie, per erogare misure di sostegno e per sopperire al fabbisogno ordinario dello Stato (spese correnti, spese per interessi sul debito, spese in conto capitale, rimborso prestiti), formuliamo una ipotesi oscillante tra i 70-80 miliardi di euro al mese. La presenza di un piano anti-spread Omt (Outright monetary transaction) per l'acquisto di titoli di Stato a sostegno dell'economia dell'Eurozona sterilizzerebbe lo spread italiano, non influenzando negativamente e ulteriormente il servizio del debito pubblico, e quindi i ratio patrimoniali degli istituti di credito. Gli interessi a servizio del debito dell’Italia erano calcolati per l’esercizio 2020 in circa 80 miliardi di euro, con un avanzo primario previsto di oltre 66 miliardi di euro. Sia l’ammontare del debito che gli interessi connessi, saranno da ricalcolare e, sicuramente, non potrà essere considerato attendibile il dato dell’avanzo primario programmato. Immaginando che l’emergenza possa terminare in pochi mesi, come tutti noi ci auguriamo, si tratta di dovere reperire liquidità, per il periodo aprile-luglio (è l’ipotesi più ottimistica), tra i 280 e i 320 miliardi di euro, e una extra liquidità per l’uscita dalla crisi (interventi di garanzia al credito, sostegno al credito, tutela delle aziende strategiche, defiscalizzazioni per il rafforzamento del capitale delle imprese, interventi nelle filiere produttive più collegate agli scambi commerciali internazionali, interventi nei territori maggiormente penalizzati, misure e piano strategico di rilancio del paese, istituzione di soggetti pubblici di partecipazione) è quantificabile in almeno altri 100 miliardi di euro, da utilizzare nei mesi successivi. Una liquidità imponente da reperire a debito, o attraverso linee di credito, o emissione di debito sovrano, o accordi internazionali di supporto. Reperire liquidità nell’Eurozona ricorrendo al MES, senza modifiche delle regole previste, non avrebbe che delle condizionalità parziali e molto rigorose per l’Italia, oggi definite dall’art.12 del Trattato istitutivo. Reperirla attraverso l’emissione di Stability bond senza condizionalità è la strada auspicabile, perché non aprirebbe ad un percorso di mutualizzazione dei debiti, ma rafforzerebbe l’unificazione politica europea, oggi fortemente avversata da molti Stati europei, privi di una visione strategica ed ingabbiati in regole e trattati di difficile riscrittura. I valori messi in campo in quota parte per i 19 paesi Membri dell’Eurozona potrebbero non essere sufficienti e, comunque, in assenza di modifiche alle regole di funzionamento dell’Unione Europea e dei Trattati istitutivi, l’Europa rischia di arrivare tardi o di non arrivare affatto rispetto alle nostre necessità e a quelle del sistema delle imprese. Auspichiamo maggiore consapevolezza e responsabilità nelle Istituzioni europee per le difficoltà che stiamo vivendo, anche se il mood non ci pare essere quello auspicato nella convinzione che l’assenza di un progetto europeo di condivisione di risk sharing, minerà qualsiasi disegno futuro di Europa solidale, anche dal punto di vista delle politiche monetarie, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’eurozona, mentre sarebbe opportuno da subito lavorare ad un piano congiunto europeo per l’emergenza e per programmare le necessità future. Partendo quindi da ciò che ci unisce e non ci divide crediamo che l’Europa debba arrivare velocemente ad adottare modelli di risk-spreading policies, per attenuare l’impatto derivante da shock macroeconomici, anche ricorrendo a strumenti di debito. Un primo possibile strumento europeo di Risk sharing europeo può essere rappresentato dal Piano di investimenti per l’Europa Sostenibile (Sustainable Europe Investment Plan), proposto nell'ambito del “Green New Deal” e presentato a dicembre del 2019 dalla Presidente della Commissione Europea Ursula don Der Leyen. Nel piano che prevede di mobilitare investimenti pubblici e privati per almeno 1000 Miliardi di euro confluiscono risorse finanziarie provenienti da fondi UE che coprirebbero circa la metà del bugdet, da co-finanziamenti nazionali, a cui si aggiungono 279 miliardi mobilitati da investEu, con il coinvolgimento della Banca europea degli investimenti e delle National Promotion Banks and Institutions, ovvero le CDP dei singoli stati membri dell’UE. Negli obiettivi della neutralità climatica, a queste risorse si andrebbero ad aggiungere un co-finanziamento nazionale per altri 114 miliardi, oltre i ricavi del mercato europeo delle emissioni (circa 25 miliardi di euro). Nella programmazione finanziaria europea 2021-2027, per sostenere la transizione delle economie dei paesi membri verso la neutralità climatica, è previsto inoltre un “Meccanismo per una transizione giusta”, che dovrebbe mobilitare altri 145 Miliardi di euro nel decennio. Riteniamo che basterebbe prevedere di moltiplicare il piano di investimenti esistente per giungere ad un piano Europeo per la transizione energetica e per la realizzazione di un New Green Deal per un valore di oltre 5000 miliardi di euro in 10 anni e per modificare alcuni elementi costitutivi del piano fino ad ora immaginato per trasformarlo in una Risk-spreading policy. Occorre aumentare la partecipazione dell’Unione Europea dai previsti 250 miliardi di euro del budget EU fino a 1500 miliardi, da  finanziare con l’emissione di Stability Bond emessi dal Fondo Europeo degli Investimenti, sotto l’egida della Banca europea degli investimenti e con la garanzia delle Istituzioni europee, a cui unire la partecipazione degli intermediari finanziari e di credito europei. Ovviamente prevedendo l’inclusione di una regola verde per la quale gli investimenti degli Stati membri a favore della sostenibilità e per il contrasto ai cambiamenti climatici saranno esclusi dai calcoli del deficit di bilancio e i fondi strutturali vedano, per la prossima programmazione, elisa la partecipazione del cofinanziamento degli Stati e delle Regioni. Avere a disposizione di tutta l’area euro un piano di una tale portata in una visione condivisa per la transizione verde e lo sviluppo, indicherebbe una prospettiva futura di crescita e di creazione di valore per l’intera Unione Europea. Un nuovo e vero New Green Deal i cui beneficiari non sarebbero solo gli attori dell’energia e le utility, ma i settori dei mezzi di trasporto, dell’edilizia, della chimica, dei metalli, dell’elettronica ed elettrotecnica, oltre all’informatica e innanzitutto gli enti locali. Inoltre, uno strumento di Risk sharing, tra gli strumenti finanziari già presenti nel panorama europeo, è sicuramente l’ELTIF, che necessiterebbe subito di una modificazione del regolamento istitutivo, per ampliare le attività di investimento ammissibili (anche in società con maggiore capitalizzazione) e con la previsione non eventuale, ma certa, della partecipazione della BEI negli strumenti di Long-Term Investment. A questi primi esempi da attivare devono seguire rapidamente altre Risk-spreading policies. 3. Una risposta di tutti a sostegno del nostro futuro La strada indicata rafforzerà la credibilità dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri ma non impatta sulle necessità di liquidità, e pertanto va accompagnata da altre iniziative urgenti. Sovente quando la realtà si presenta nella sua durezza, si cercano delle scappatoie e la tentazione di trovare dei salvatori della patria rischia di prevalere e di indurre a errori irreparabili. La forza del nostro paese è di avere costruito relazioni euro atlantiche solide, di essere il luogo del dialogo nel Mediterraneo, aperto ad Est come la nostra storia millenaria ci racconta. Ma quando si parla di debito, non si parla solo di rapporti e di relazioni, bensì di sovranità, e chi detiene il debito di uno Stato ne limita la sovranità. Qualsiasi tentativo di accordi unilaterali di sostegno al nostro debito sovrano sono da attenzionare, un monito chiaro per i policy maker, ricordandoci un antico adagio, che recita con chiarezza “il formaggio gratis, si trova solo nelle trappole per topi”. Le operazioni di Emergency Liquidity Assistance svolte dalla Banca di Italia, per tramite del sistema europeo delle banche centrali, costituiscono uno strumento straordinario per finanziare le istituzioni bancarie in crisi di liquidità e per assicurare condizioni ordinate sul mercato. Ma i bisogni di liquidità necessari a supportare le impellenti politiche fiscali sono di dimensioni ingenti. Occorrono linee di liquidità ben superiori agli 11 miliardi di euro che la Commissione Europea non richiederà all’Italia per il mancato utilizzo delle risorse dei fondi strutturali assegnati nella programmazione 2014-2020, o eventuali sterizilizzazioni o estensione di utilizzo di altri fondi strutturali. Intanto, avanziamo la proposta di richiedere alla Commissione Europea il permesso di utilizzare per almeno 12 mesi le risorse del Fondo sociale europeo anche in politiche passive, e non attive, per fornire ulteriori strumenti di sostegno al reddito. Il ricorso all’emissione di ulteriore debito, senza un paracadute europeo, deve essere attentamente valutato per evitare che il paese perda l’investment grade delle principali Agenzie di Rating e la fiducia dei mercati, con una attenta politica di Emergency Liquidity Assistance della  Banca d’Italia e, a nostro parere, con la partecipazione dei risparmiatori italiani. L’emissione di titoli del debito pubblico nell’ordine di 10-20 punti di Pil (178/356 miliardi di euro), come recentemente proposto anche da autorevoli economisti, è immaginabili solo in presenza due condizioni: - un collocamento riservato e interamente sottoscritto dai risparmiatori e dalle famiglie italiane - un piano di investimenti credibile per la ricostruzione, il rilancio e la semplificazione del paese. Proponiamo l’emissione di un primo BTP “Crescita Italia” indicizzato all’inflazione europea riservato solo ai detentori del capitale paziente italiano, in particolare i fondi negoziali chiusi, i fondi negoziali aperti, i fondi preesistenti e le Fondazioni bancarie. I titoli di Stato forniranno agli investitori una protezione contro l’aumento del livello dei prezzi e cedole pagate semestralmente, avranno una durata temporale tra i 15 e i 30 anni, per non confliggere con i criteri prudenziali indicati dai Regulators e avranno per i primi dodici mesi la sterilizzazione delle cedole. Un piccolo sacrificio per contribuire al rilancio dell’economia italiana, a cui seguirà una seconda collocazione rivolta direttamente ai risparmiatori italiani, detentori di una massa di liquidità pari ad almeno 1400 miliardi di euro, e alle famiglie italiane la cui ricchezza finanziaria è oltre 8 volte il Pil nazionale. Il titolo di Stato non avrà capital gain per tutta la sua durata. Grazie al meccanismo di indicizzazione utilizzato, alla scadenza verrebbe attivata una grande operazione di fixed-income nella quale si riconosce ai possessori il recupero della perdita del potere di acquisto realizzatasi nel corso della vita del titolo, ma contestualmente viene avviata una grande opera di sostegno al paese, con l’abbattimento per 12 mesi del servizio all’extra debito, chiamando gli attori previdenziali, assicurativi e i cittadini a finanziare un piano di fiducia e di coesione per la stabilità finanziaria del paese. Ma anche chiamando le parti sociali e le parti datoriali unite nello spirito della bilateralità a contribuire al rilancio del sistema economico nazionale. Accanto a questo intervento di liquidità, auspichiamo, come già proposto da alcune personalità politiche, che si attivi un luogo di supporto bipartisan alle scelte strategiche ed economiche del Governo, per realizzare una proposta per il lavoro e un piano credibile di rilancio della nostra economia. La complessità delle scelte da effettuare nel nostro paese richiede di trovare un solido accordo di governance tra i partiti al governo e i partiti all’opposizione, sotto l’egida del Capo dello Stato, che rappresenta l’unità nazionale. Proponiamo l’istituzione di una Commissione strategica per il lavoro e per le imprese, come già avvenuto in passato per motivi differenti e in momenti diversi della storia repubblicana, presso la Presidenza della Repubblica Italiana. Non si uscirà dalla recessione e dalla trappola della bassa crescita e, quindi del debito, se non attraverso la partecipazione e la collaborazione delle componenti più rappresentative dell’economia e della società italiana. Perché questa iniziativa abbia successo è importante che siano condivisi gli obiettivi che si intendono raggiungere e il ruolo che ogni istituzione partecipante potrà assumere. Lo Stato deve essere l’attore principale della proposta e deve intervenire con strumenti nuovi, dei quali si sarebbe già potuto dotare in precedenza. E se rassicura il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), il nuovo programma di acquisto per l’emergenza pandemica varato dalla BCE che riforma la regola aurea dei limiti di acquisto per emittente, con la specificazione che gli oneri del sovraindebitamento ricadranno sui conti pubblici dei singoli stati Membri, dell’Italia in particolare, e solo in parte sull’Europa. I decisori italiani si presentino ai partner europei e ai mercati con un credibile piano di rilancio e con un cambio di strategia nelle politiche di stabilizzazione del debito. Saranno allora ascoltati e avranno la forza per chiedere di cambiare le regole europee e per liberarci dalla trappola del debito. Il valore del lavoro e la tenacia degli italiani aspettano solo di essere indirizzati da una classe dirigente credibile per affrontare le sfide in campo energetico, per la promozione delle tecnologie abilitanti e dei cambiamenti climatici, per la tutela del patrimonio culturale e artistico, per il rilancio di un turismo unico al mondo, per lo sviluppo della sostenibilità ambientale e per l’eliminazione delle nuove povertà, per l’avvio di un piano di housing sociale e per la realizzazione di infrastrutture strategiche e innovative che ci ripongano al centro del Mediterraneo e dell’Europa. Non solo una richiesta per interventi di emergenza, ma una proposta accompagnata da un piano nazionale ed europeo per fare ripartire un paese fermo nella crescita da troppi anni e che intende onorare, come sempre ha fatto, i propri impegni. Torna all'Appello  
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