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1011. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Christian Cozzi  
30 MARZO 2020 Necessità di un nuovo volto europeo di Christian Cozzi Da sempre più tempo vediamo sorgere nuovi protagonisti nelle relazioni internazionali, protagonisti rappresentati dalle nuove potenze in via di sviluppo, che acquisiscono sempre più influenza e potere decisionale. Potere che senza dubbio sorge sia dalla loro potenza economica in incredibile crescita, sia dalla loro potenza militare strategica. Tutto questo però avviene a discapito delle potenze europee che da tempo si vedono si protagoniste, ma sempre meno influenti, sempre meno centrali. Tale fenomeno si manifesta, poiché spesso si ritrovano costrette ad intraprendere continui compromessi, senza mai forti prese di posizione. Io credo che siano tal volta queste posizioni a determinare l’influenza di una potenza rispetto ad un’altra, mentre vedo forse non solo io, ma anche le altre potenze mondiali che questi compromessi siano un importante segno di debolezza. Un cercare di arrampicarsi sugli specchi, un modo di poter continuare a restare al tavolo dei grandi protagonisti, senza pestare i piedi a nessuno. Proprio poiché sempre più deboli e soprattutto sempre più egoisti. Questo egoismo non è affatto un egoismo di tipo costruttivo ma anzi,quest’ultimo va spesso a colpire i propri collaboratori ed i più stretti alleati partecipi dell’unione. Questo egoismo senza dubbio è frutto dell’assenza di una nazionalità europea, un’identità nazionale ed una sempre maggiore presenza sovranista nei differenti parlamenti. Per tanto comprendiamo che dopo diversi decenni di unità europea, il popolo europeo non si sente affatto europeo ma anzi si sente tedesco, francese, italiano e via discorrendo. Tale fenomeno fa si che nel breve termine alcune tra queste nazioni e nazionalità ne trarranno vantaggio. Nel lungo termine invece come affermato precedentemente, sta trasportando sempre più ad un collasso della centralità e dell’influenza del vecchio continente. Per risolvere questo fenomeno non è solo necessario creare una salda identità europea ma anche creare una salda e riconosciuta istituzione centrale europea, che non sia solo come agli occhi di moltiappareun’unione data dalla moneta, ma che sia soprattutto un’unione culturale con il fine di centralizzare e costituire l’identità dell’ancora assente e sconosciuto cittadino europeo. Senza dubbio credo che sia necessario una lieve sottrazione del potere, agli stati nazionali che la compongono, così da poter eliminare sia le continue azioni di carattere egoistico, sia le continue competizioni condotte da quest’ultime a danno delle altre. Queste azioni portano ad una sempre più distante visione di comunità ed unità collettiva dove gli uni si dovrebbero sacrificare per gli altri, con un unico interesse collettivo che veda al centro la potenza e la forza di tutti; poiché la potenza di un singolo rappresenta la forza dell’intero collettivo. Attraverso l’uso di un completo assetto democratico e non con un assetto di tipo darwiniano che preveda l’affermarsi del più forte sul più debole, ma anzi la protezione del più forte sul più debole, rispetto a tutti i fenomeni esterni. Fenomeni che in questo caso possono essere i più differenti, uno degli esempi più calzati al riguardo può esser rappresentato dall’assenza della collettività europea nella risoluzionedell’epidemia COVID-19. Senza dubbio se vogliamo tener contodi uno dei tanti insegnamenti che la storia ci propone, come infallibile istruttrice delle nostre azioni, dovremmo tener conto l’esempio fornito dal collasso della lega Delio-Attica. Quest’ultima costituita da alcune delle più potenti πόλεις (pòleis) greche nel 470 a.C. Queste avevano l’obbiettivo di rendersi forti, influenti e senza dubbio ricche. Tra queste sorse il predominio della πόλιςateniese che dopo le differenti speculazioni, e le crescenti avidità del popolo ateniese, portarono all’impoverimento dell’intera Lega. Questa crescente debolezza portò le pòleis a soccombere presto rispetto al crescente potere delle altre potenze circostanti. Ovviamente questo collasso vista la lontana epoca fu soprattutto da un punto di vista militare, ad oggi tale collasso visti i nuovi protagonisti e le nuove influenze potrebbe essere senza dubbio riconducibile ad un carattere puramente economico. Ad ogni modo mi potrete dire tutto questo si è verificato quasi 2500 anni fa,dunque come è possibile un possibile riverificarsi di tali fatti? Bè posso semplicemente rispondere che si i tempi cambiano, le tecnologie cambiano e così i popoli e le idee; c’è però da tener conto che l’uomo rimane sempre lo stesso, e di conseguenza come ci insegna Vico la storia si ripete. Comprendendo tale insegnamento possiamo affermare che: ora più che maiè necessaria una reale coesione europea a fronte delle innumerevoli difficoltà che avvolgono il vecchio continente, il quale con ampia superbia crede ancora di essere il centro del mondo, ma che ormai non è altro che un tacito osservatore dei fatti. Torna all'Appello  
1012. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Evaristo Macci  
30 MARZO 2020 Cambiare tutto perché tutto cambi di Evaristo Macci In questo appello promosso dalla Link Campus University in cui fior d’intellettuali, professori e studenti, fanno delle proposte, muovono delle critiche, ragionano su l’Europa post-pandemica, ci dobbiamo chiedere se l’Unione Europea che abbiamo davanti è la concretizzazione di un sogno o se è una totale disillusione. L’auspicio condiviso dalle varie riflessioni è che si possa arrivare, tenendo conto degli errori commessi sia nel passato ma soprattutto in questo straordinario momento storico, a una rifondazione dell’Unione affrancata dai mali che ora l’affliggono. C’è un vizio di fondo che però rischia di vanificare le ore di riflessione e rendere inutili i fiumi di inchiostro che si stanno scrivendo su questo tema: gli attori ai quali vogliamo affidare questo faticoso compito di ricostruzione sono gli stessi consumati attori che oggi si rifiutano di recitare un testo condiviso da tutti e in una sola lingua comune; sono gli stessi che dopo cinque secoli stanno riproponendo una geografia dell’Europa divisa tra mondo cattolico e mondo protestante (a parte la cattolicissima ma poco misericordiosa Polonia); sono attori che hanno smesso di recitare e stanno mostrando il loro freddo volto. In questo preciso istante si sta combattendo una guerra mondiale non convenzionale, senza cannoni, ma con migliaia di caduti, il cui teatro si sposta rapidamente. Ma solo perché l’odore della morte non ha raggiunto, o forse non raggiungerà, chi lo sa, le latitudini del Nord Europa, i loro burocrati girano le spalle a chi ora ha bisogno e vogliono condannare quelle nazioni che sono state più sfortunate ad un periodo di depressione economica di cui nessuno conosce le dimensioni perché nessuno conosce l’immediato futuro di questa pandemia. Come faremo a sederci in futuro allo stesso tavolo? E se un domani una di queste nazioni dovesse avere bisogno di aiuto che dovremmo fare allora, girarci anche noi dall’altra parte? Non sarà forse giunto il momento di arrendersi? Non sarà questo il momento di chiudere questo capitolo storico, non per darla vinta ai sovrano-disfattisti di casa nostra o a quelle potenze che alla disgregazione dell’Europa ci stanno lavorando da tempo, ma solo perché è tempo ormai per una Neo-Europa? Davanti a questa tragedia non è la figura mitologica orgogliosa e bella di Europa quella che abbiamo davanti, ma è il cadavere di essa, un corpo ancora integro, quasi vitale, ma ormai senza respiro, senza sentimento. E allora anche per noi europeisti convinti, che abbiamo sempre difeso questo sogno anche in situazioni francamente indifendibili, è giunto il momento di gettare la spugna e finire di distruggere quello che resta, ma avendo ben a mente il nuovo grande progetto. Compito invero assai semplificato dal fatto che tutti gli errori da non ripetere sono già scritti nella Storia. E chi altri se non voi, intellettuali visionari, potete iniziare ad immaginare una nuova Unione, un’Unione di Stati empatici che condividano regole ferree valide per i vincoli economici ma anche per la gestione condivisa dei flussi migratori; capaci di occuparsi coralmente di ordine pubblico e antiterrorismo, ma anche capaci di immediato mutuo soccorso. Chi se non voi, esimi professori che state formando i nostri giovani cresciuti senza frontiere, e che in questo progetto dovrete anch’essi coinvolgere. Sono gli europeisti convinti che dovranno assumersi l’onore e l’onere di farlo: dare a questa Europa il colpo di grazia e farla risorgere dalle proprie ceneri. Cambiare tutto perché tutto cambi. Torna all'Appello  
1013. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Gaia Pandolfi  
30 MARZO 2020 Europa. Alla ricerca di un’anima comune di Gaia Pandolfi Europa. Una parola che riporta alla mia mente le parole della professoressa di Storia: quando si parlava della nascita della CECA e della CEE, dell’Atto Unico europeo, del Trattato di Maastricht e dell’Unione monetaria che, ricordo, fu l’ultimo capitolo affrontato. Riaffiorano i momenti delle lezioni universitarie, in particolare il corso di Storia dell’Integrazione europea: ore di approfondimento e confronto, antefatto di veementi dibattiti fra noi studenti sul senso dell’Unione ieri, oggi e domani, che proseguivano fin nei corridoi dell’Ateneo e, a volte, duravano per giorni. Con il passare degli anni, ho compreso come spesso l’Europa venga considerata una realtà astratta, incapace di far percepire il proprio valore se non agli addetti ai lavori. “L’Europa? Ah, ma è a Bruxelles”, sento spesso quando cerco di spiegare che l’Europa non è soltanto l’Interrail. E a nulla vale ricordare la Storia: l’Italia fra i padri fondatori; Alcide De Gasperi Presidente del Consiglio mediatore per la democrazia e la libertà del nostro Paese; il Manifesto di Ventotene come presupposto fondante di quell’ideologia europeista che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi auspicavano. L’Europa nella mente di molti, forse troppi, resta chiusa nei Palazzi di Bruxelles e Strasburgo, priva di quell’anima di cui oggi più che mai necessita. Parafrasando un grande statista, che di unioni fra stati nazionali se ne intendeva “abbiamo fatto l’Europa, ora dobbiamo fare gli europei” – avrebbe commentato il Conte Cavour. Ancora oggi l’Unione europea appare lontana, mentre la terribile pandemia da Covid-19 falcia impietosa il nostro continente, mietendo vittime fra le fasce più deboli della popolazione, i Grandi della terra (europea) faticano a trovare un accordo per arginare e contrastare le disastrose conseguenze che l’emergenza epidemiologica avrà inesorabilmente sulla nostra società. “Di fronte all'emergenza di COVID 19, l’Europa è chiamata a scelte radicali. Questa emergenza mette in pericolo l’esistenza della ‘nostra’ Europa. Insieme alla dimensione sanitaria di COVID 19 ci sono pesanti conseguenze sociali ed economiche da affrontare congiuntamente” Quanto dovremo aspettare prima che l’Europa, già minata dalla ferita ancora sanguinante della Brexit soltanto due anni fa, converga verso un punto comune? Quanto prima che i Capi di Governo raggiungano un’intesa per un nuovo Piano Marshall che possa risollevare se non ricostruire, una volta che la tempesta sanitaria sarà terminata, l’economia dell’Unione? Molto, purtroppo, se gli Stati europei anche quando serve il cuore, si chiudono in se stessi. In fondo, non sarebbe neppure così difficile ritrovarsi. “L’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune… Tale unione dovrà divenire un giorno o l’altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato, e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la Lega dei Popoli”. Scriveva nel suo Memoriale, già qualche secolo fa, un certo Napoleone Bonaparte. Torna all'Appello  
1014. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Piero Panzarino  
31 MARZO 2020 Il sogno europeo di Aldo Moro  di Pietro Panzarino Il giovane parlamentare Aldo Moro, che già si era fatto apprezzare durante la Costituente,  durante la prima Legilatura (1948-1953), in veste di sottosegretario agli Esteri aveva guardato con interesse alla scena internazionale ed europea. Nella seconda Legislatura, la mancata ratifica della CED (Comunità  Europea di Difesa),   spinse Moro a pubblicizzare la sua visione europeista in alcuni suoi passaggi dell’intervento durante la seduta del 29 settembre. “L'articolazione dell'alleanza atlantica in un nucleo europeo che ieri chiamavamo comunità europea di difesa e che domani chiameremo probabilmente in un altro modo, questa articolazione in un nucleo europeo dell'alleanza atlantica è un fatto di grande importanza, significa la voce dell'Europa, la autentica voce di questa civiltà europea occidentale che si esprime e si fa apparire nell'ambito della comunità di popoli liberi. È l'Europa che, superate le particolari divisioni, acquisisce una forza economica, una forza sociale, una forza politica ed anche una forza militare che permettono ad essa di dire una parola più autorevole di ben maggior peso nell'ambito del grande giuoco della politica mondiale.Sì che per noi italiani il problema della integrazione europea, il problema della creazione su basi d'intesa cordiale di un nucleo europeo dell'alleanza atlantica, resta un grande problema nazionale che noi dobbiamo contribuire a risolvere, una integrazione europea senza esclusione né della Germania né della Francia, entrambe indispensabili, e con la maggiore possibile partecipazione dell'Inghilterra”.  Il 23 ottobre 1954 venne istituita la UEO (Unione dell'Europa Occidentale) che sviluppava il trattato di Bruxelles del 1948, accogliendo anche l'Italia e Repubblica Federale Tedesca in una  organizzazione di mutua consultazione militare, a cui aderiva anche la Gran Bretagna. Nella seduta del 23 dicembre 1954 il capogruppo Moro così motivata il voto favorevole all'ordine del giorno Montini: "è allora un motivo di più, in questa situazione di carenza e di disagio che noi riteniamo provvisoria, per rinnovare un impegno comune per una intesa fra i popoli che è condizionata necessariamente al disarmo progressivo, che comporta il generale controllo di tutte le armi di guerra, fra cui, in prima  linea, vanno inserite le armi atomiche e termonucleari. Noi riteniamo che la drammatica realtà, cui noi siamo, di un mondo diviso e così potentemente armato da poter realizzare, nell'eventuale urto, la propria distruzione e la distruzione della civiltà, non debba farci perdere tempo nella ricerca di un’ intesa su quella base di dignità e di giustizia che noi abbiamo sempre perseguito e che rimane l'obiettivo fondamentale della nostra politica estera”. "Il presidente della Repubblica Antonio Segni affidò all'onorevole Aldo Moro l'11 novembre 1963 l'incarico di formare il nuovo governo. Il primo governo Moro giurò il 4 dicembre 1963... Moro intervenne alla Camera dei deputati il 12 dicembre 1963, mettendo subito in luce la novità parlamentare della svolta politica… In politica estera avrebbe consolidato la realtà verso l'alleanza atlantica e la solidarietà europea "1  Nelle linee programmatiche a Montecitorio Il Presidente Moro sottolineò:"La politica di solidarietà europea, che sarà perseguita nella forma dell'integrazione democratica, economica e politica, fuori di ogni particolarismo, offre al nostro paese uno spazio ed uno ambiente adatti per la sua espansione economica e per una significativa partecipazione alla politica internazionale in proporzione alle sue forze, alla sua tradizione e cultura, al suo peso economico e sociale. Il governo si propone una azione coerente per superare le remore opposte, con iniziative estranee alla finalità dei trattati di Roma, alla creazione dell'unità democratica dell'Europa.". Eravamo nel 1963 e Aldo Moro aveva chiara la prospettiva del futuro dell’Europa! Il 14 maggio 1965 si svolse alla Camera un dibattito sulle interpellanze ed interrogazioni presentate da tutti i gruppi parlamentari su diversi aspetti della politica internazionale e, in particolare, sul  viaggio del Presidente del Consiglio Moro negli Stati Uniti. Questi alcuni passaggi significativi: "Le linee maestre della politica europeistica del Governo, quali sono state recentemente indicate anche a Strasburgo dal ministro degli affari esteri, sono quelle cui si ispira ormai da molti anni l'azione dell'Italia. Tale politica si sviluppa su due piani distinti, ma non separati. Il primo di essi riguarda la cooperazione a sei. Nella organizzazione di Bruxelles si trova infatti il fulcro dell'azione europeistica italiana; e il Governo intende continuare ad adoperarsi per una piena ed integrale realizzazione della lettera e dello spirito del trattato di Roma... Il secondo profilo concerne, anch'esso una costante della politica europeistica italiana: e cioè la esigenza che l'edificio comunitario conservi il carattere democratico ed aperto, e pertanto la capacità di includere, non appena possibile, anche altre democrazie europee”. A seguito delle dimissioni del II Governo Moro, datate 21 gennaio 1966, il 25 gennaio il Presidente della Repubblica conferì nuovamente l'incarico di formare il nuovo governo al Presidente del Consiglio uscente, Moro, che accettò secondo la prassi con riserva e diede vita al terzo Governo Moro.  Il 3 marzo 1966 Moro espose al Senato e alla Camera le dichiarazioni programmatiche del nuovo Governo. Moro in riferimento all'Europa sottolineò: "Per quanto riguarda l'Europa il Governo si propone di continuare la propria azione diretta ad assicurare la piena ripresa della attività comunitaria nel rispetto dei Trattati al fine di realizzare l'integrazione economica quale premessa dell'unità politica dell'Europa. Tale azione si svolgerà in tutte le sedi comunitarie, economiche e politiche, continuando ad interessare ad essa il Parlamento ed il Paese e portando avanti il progetto di elezione a suffragio universale di un Parlamento europeo”. Nella Legislatura successiva, Moro fu nominato Ministro degli Esteri e, in tale veste, intervenne il 21 e 22 ottobre 1969, per definire la posizione dell'Italia sui grandi problemi internazionali. Tra questi riferì sui più recenti sviluppi in campo europeistico. “C’è il problema del Parlamento europeo, c'è quello di una reale unità di indirizzo economico, c'è l'esigenza di dare all'Europa una sua voce, una sua influenza, un suo destino. Per molte di queste cose siamo appena ai primi passi, proprio mentre l’evolvere rapidissimo delle cose e dei rapporti nel mondo indica la meta sovranazionale come essenziale ad un assetto unitario, come garanzia di equilibrio del mondo”. Aldo Moro, da grande tessitore quale si dimostrò in tutta la sua esperienza parlamentare, continuava  a guardare con interesse allo sviluppo dell'Europa. Per concludere questa carrellata del pensiero moroteo ecco il suo intervento sull'elezione del Parlamento europeo a suffragio diretto, pronunciato nella seduta del 15 febbraio 1977 alla Camera dei Deputati.  Si discuteva il disegno di legge di approvazione ed esecuzione dell'atto relativo all'elezione a suffragio universale del parlamento europeo, firmato a Bruxelles il 20 settembre 1976.  Il cosiddetto "Atto 1976" stabiliva il principio dell'elezione diretta e il contenuto dello status di parlamentare europeo oltre a fissare alcune regole comuni di procedura elettorale. Venne approvato alla Camera il 17 febbraio e al Senato il 24 marzo e divenne Legge 6 aprile 1977, n. 150. "Abbiamo manifestato un larghissimo consenso intorno a questo atto e non vorrei, dicendo questo, dispiacere all'onorevole Pannella che ha tenuto a sottolineare che non vi è l'unanimità... Ciò non vuol dire, naturalmente, che tutti pensiamo le stesse cose, né che tutti concepiamo l'Europa allo stesso modo.  Questa del resto è stata sempre la posizione assunta dai Governi italiani, estremamente duttili, come era necessario ogniqualvolta si trattava di trovare una convergenza di vedute con altri paesi, sempre pronti ad accogliere le tappe intermedie, ma sempre fermi per dichiarare, valga quel che valga, che per noi la meta è lo Stato federale in Europa”. “I pensieri, i ragionamenti e le riflessioni di Moro, per favorire l'avvio di quella che lui aveva chiamato la terza fase, evidenziavano come motivo di fondo la speranza, da sempre coltivata che i risultati delle elezioni europee a suffragio diretto avrebbero aiutato l'Italia a uscire dalle difficoltà che stava vivendo in quella stagione” 2   (1) Pietro Panzarino, Il centro-sinistra di Aldo Moro (1958 - 1968), Marsilio Editore, 2014. (2) Pietro Panzarino, L’eredità politica di Aldo Moro Pensiero e azione di un uomo libero (1976-78) Marsio Editore, 2011. Torna all'Appello  
1015. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Andrea Campiotti  
2 APRILE 2020 La solidarietà europea al tempo del Covid-19 Di Andrea Campiotti In appena dieci anni, un periodo di tempo relativamente breve, le fragilità dell’assetto ordinamentale, politico ed economico dell’Unione europea sono venute drammaticamente alla luce. A questa situazione di debolezza istituzionale, politica ed economica hanno contribuito soprattutto tre avvenimenti che hanno messo a dura prova la stabilità delle Istituzioni europee, ponendo numerosi interrogativi sul futuro dell’integrazione eurounitaria. la crisi del debito sovrano, cheha compromesso la stabilità economica e finanziaria di alcuni Stati membri dell’Unione, generando forti tensioni tra gli Stati più indebitati, come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo, e quelli più rigoristi, come la Germania; la crisi migratoria,che ha conosciuto la sua fase più acuta in seguito alla c.d. “primavera araba” e al conseguente flusso massiccio di migranti provenienti dai Paesi del Medio Oriente (Siria) e dell’Africa settentrionale (Libia); la Brexit, ovvero il recesso ex 50 TUE[1]del Regno Unito dall’Unione europea richiesto a seguito dell’esito favorevole registrato al referendum del giugno 2016. Dopo aver notificato la propria volontà di recedere nel marzo 2017 e aver negoziato le condizioni con le Istituzioni europee per oltre due anni, il Regno Unito ha formalizzato il proprio recesso dall’Ue lo scorso 31 gennaio. Questi tre avvenimentihanno contribuito significativamente a mettere in crisi il progetto di integrazione europea. L’Unione, complice anche la resistenza di alcuni Stati membri, si è infatti dimostrata incapace di affrontare in modo comune la situazione di crisi e al ruolo che avrebbe dovuto esercitare hanno, il più delle volte, supplito i singoli Stati in modo più o meno coordinato. In queste settimane l’Unione europea si trova a dover gestire una crisi altrettanto profonda, che non ha origini politiche o economiche, sebbene le conseguenzesul piano politico, economico e anche sociale siano molto rilevanti.Si tratta della crisi sanitaria provocata dal Covid-19, il virus che ha colpito dapprima la Cina, in particolare la città di Wuhan (nella parte meridionale del Paese), e che si è poi rapidamente diffuso in Europa e nel resto del mondo. Questa epidemia, che ha ormai assunto le dimensioni di una pandemia, come ha sottolineato l’Organizzazione mondiale della sanità, ha costretto i governi nazionaliadadottare misure straordinarie per contenere il numero di contagi, che hanno comportato una graduale compressione delle nostre libertà individuali (e fondamentali) senza precedenti. Nonostante la drammaticità della situazione che stiamo vivendo, la solidarietà sembra non ispirarel’azione dell’Unione europea e quella degli Stati membri.Lo dimostrano chiaramente i contrasti permanenti tra i paesieuropei nell’approvvigionamento del materiale sanitario. Si pensi, ad esempio, a quanto è accaduto nei giorni scorsi in Polonia e in Repubblica Ceca, dove sono state sequestrate da parte delle autorità locali partite di mascherine dirette in Italia. La mancanza di solidarietà e, più in generale, l’assenza di una strategia comune a livello europeo si è poi dimostrata nell’ultimo Consiglio europeo del 26 marzo, ove di fronte alla richiesta di Italia e Spagna, i paesi che stanno pagando il prezzo più alto in termini di contagi e di morti, di trovare un’intesa sulla sospensione temporanea del Patto di Stabilità e sull’impiego dei c.d. “coronabond”, altri paesi, tra i quali la Germania e i Paesi Bassi, si sono opposti. Proprio a causa della loro opposizione non è si è potuta raggiungere l’unanimità richiesta dai trattati per approvare queste importanti misure. Eppure, il principio di solidarietà ricorre con frequenza nei testi costituzionali, nelle dichiarazioni universali e nelle convenzioni internazionali dei diritti dell’uomo. Le costituzioni e le altre carte fondamentali dei diritti codificano le “tavole dei valori”, ovvero individuano una serie di principi a fondamento degli ordinamenti giuridici, provvedendo altresì a enunciare veri e propri “cataloghi” dei diritti e delle libertà fondamentali spettanti a ciascuno di noi. Ciò avviene dalla nascita del costituzionalismo moderno, convenzionalmente individuata nell’approvazione da parte della prima Assemblea nazionale francese della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. Essa è, infatti, considerata la prima carta costituzionale della storia moderna, antesignana e fonte di ispirazione per le successive costituzioni e dichiarazioni universali dei diritti. La solidarietà, come principio, deriva dalla “fraternité”, che completa la triade “Liberté,Égalité, Fraternité”, fondamento valoriale alla base della Dichiarazione e della cultura costituzionale europea. Ancora oggi, tra i principi fondamentali del nostro ordinamento, oltreché di quello dell’Unione europea, si colloca proprio la solidarietà. La nostra Costituzione richiama il principio della solidarietà in numerose sue disposizioni, a volte espressamente (art. 2), altre volte implicitamente (in particolare, agli artt. 3, 4, 31, 34, 37, 38). Il principio di solidarietà è poi fortemente presente nel diritto dell’Unione europea. In particolare, esso titola il III Libro dellaCarta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 27-38)del 2000, che, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), ha acquisito pari dignità giuridica dei trattati ai sensi dell’art. 6 TUE. La solidarietà compare inoltre sotto forma di clausola all’art. 222 TFUE[2]. In particolare, quest’ultima disposizione, contenuta del Titolo VII del Trattato, stabilisce al suo primo paragrafo: «L’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo. L'Unione mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri, per: a) - prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati membri; - proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico; - prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di attacco terroristico; b) prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di calamità naturale o provocata dall'uomo». Dalla disposizione si evince che le cause che determinano il ricorso (eventuale) alla clausola di solidarietà ex art. 222 TFUE, che impone agli Stati membri dell’Unione europea di agire «in uno spirito di solidarietà» e con tutti i mezzi possibili, compresi quelli militari, sono due: la minaccia terroristica e le calamità di tipo naturale o provocate dall’uomo. Alla luce delle fragilità emerse a causa di questapandemia, l’Unione e gli Stati membri valutino l’ipotesi di riconsiderare il principio di solidarietà iscritto nei Trattati. Ridefiniscanol’art. 222 TFUE (di cui sopra), inserendo, tra le cause che possono determinarne il ricorso, anche quella che stiamo oggi vivendo, ossia quella di una crisi sanitaria. Si ricostruisca un’Unione europea più coesa e solidale, capace di far fronte alle grandi sfide che ancora l’attendono, riconsiderandoil principio di solidarietà, che pure trova precisa collocazione all’interno dei trattati e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha valore primario al pari dei primi (art. 6 TUE). Come ha saggiamente ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso alla Nazione lo scorso 27 marzo, date le drammatiche condizioni in cui versa l’Europa e la necessaria urgenza di adottare iniziative comuni, “la solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione, ma è anche nel comune interesse”. Note: [1] Trattato sull’Unione europea. [2] Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Torna all'Appello  
1016. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Favorita Barra  
14 APRILE 2020 Non vi è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al nomos. Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate. Carl Schmitt, Terra e mare, 1942  Di Favorita Barra  Il veloce diffondersi a livello globale del Coronavirus ha dissodato i già precari equilibri della vita; risulta dirompente l’urto con la fragilità della condizione umana.  La contaminazione di gran parte della popolazione mondiale non conosce barriere. Mentre il virus si propaga, gli Stati si chiudono nei loro confini. Il contagio, come è noto, comporta che gli uomini si isolino l’uno dall’altro. La prospettiva di vita e la vita stessa si condensano nella distanza dall’altro1.  Il microcosmo delle relazioni tra gli individui trova un duplicato nei rapporti interstatuali.  Più specificamente, in ambito europeo, la gestione della crisi sanitaria ed economica prodotta dallo scatenarsi dell’epidemia non si è articolata su di un fronte comune e la trattativa relativa alle misure necessarie da adottare per affrontare l’emergenza appare un’impresa gravosa.  È necessario rilevare che da sempre i corpi politici hanno messo in atto una pratica costante di immunizzazione delle minacce provenienti dall’evento non sussumibile in una previsione.  Il percorso verso la ricostituzione di un equilibrio perennemente in bilico si è manifestato storicamente attraverso differenti dinamiche, le quali hanno cercato di garantire l’esistenza e la conservazione identitaria, dapprima dei sistemi embrionali e, successivamente, delle società sempre più complesse. Come Roberto Esposito ha osservato, risiede in questo procedimento il “perno di rotazione simbolico e materiale” di ogni sistema sociale2.  In tale ottica, la situazione attuale ci invita a riflettere, partendo proprio dalla gestione della crisi a livello europeo, sull’esistenza di un’anima politica dell’Europa, retta da uno spirito di solidarietà e fratellanza tra gli Stati.  Il recente dibattito sugli Eurobond darebbe, viceversa, una fotografia dell’Unione Europea, come un insieme di “piccole patrie” portatrici di egoismi nazionalistici.  Di forte attualità sono le parole che, alla fine delle prima guerra mondiale, Hans Kelsen ha scritto in un saggio dedicato al “pacifismo giuridico”: «compito infinito del giurista che voglia realizzare la civitas maxima è quello di smantellare la categoria della sovranità degli Stati»3.  Del resto solo il superamento del concetto di Stato-Nazione può condurre a ripensare l’Europa in chiave di inedito. E l’inedito consiste nel porre limiti alle politiche di austerità a beneficio del pareggio di bilancio e alla continua opposizione tra paesi creditori e paesi debitori.  Eppure non si fa altro che collocare lo spazio politico europeo in un orizzonte concettuale già noto, vincolato alle categorie della tradizione costituzionale degli Stati-Nazione.  Tuttavia nel momento in cui l’emergenza non fa altro che marcare nuovamente le distanze e le divisioni tra gli Stati, si fa acceso il dibattito sulla necessità di promuovere una “Costituzione della Terra”, un patto a garanzia del rispetto dei diritti fondamentali, dei beni comuni e della vita di ogni individuo4. D’altronde se i diritti fondamentali costituiscono, da un lato “limiti” del potere, dall’altro,  vincolano ad azioni condivise, ispirate ai principi di solidarietà e fratellanza.  Emblematiche sono le parole di Jürgen Habermas nell’affermare che solo la solidarietà può liberarci dall’odio che scorre tra paesi creditori e debitori dell’Unione e che, neanche la recente catastrofe sanitaria ed economica sembra riuscire a scalfire5.  La solidarietà è un principio, che appartiene alla dimensione costituzionale, ma è anche un processo. Essa esige, per verso, un ambiente abilitante, inteso come condizioni e strumenti istituzionali diretti all’attuazione di pratiche solidali, per l’altro, che gli Stati, nonché le persone che li rappresentano abbandonino egoismo ed individualismo.  È palese la contraddizione in cui l’Unione Europea si incaglia nel momento in cui esclude dal suo quadro istituzionale la Carta dei diritti fondamentali, che ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Si rileva una scissione tra ciò che è affermato nei Trattati  e quel che appare un rifiuto istituzionale di assumere decisioni, che promanano da prospettive solidali.  Sul punto è rilevante menzionare l’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, che al fine di garantire un livello elevato di protezione della salute umana», sancisce: «gli Stati membri coordinano tra loro, in collegamento con la Commissione, le rispettive politiche» e altresì che: «il Parlamento europeo e il Consiglio possono anche adottare misure per proteggere la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera».  In aggiunta a ciò, l’art. 222, intitolato «clausole di solidarietà», stabilisce che «l’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di una calamità naturale».  Pertanto, affinché tale principio alimenti effettivamente le scelte di politica europea, si auspica che l’Unione Europea lo prenda sul serio, e lo liberi dal sequestro della logica dell’austerità.  Come Stefano Rodotà ha evidenziato nello scritto “Solidarietà. Un’utopia necessaria”: «Nessuno può essere condannato alla solitudine e all’abbandono senza che questo determini una perdita radicale di legittimità delle istituzioni pubbliche, con effetti evidenti sulla possibilità stessa di continuare a classificare un sistema tra quelli democratici6».  La situazione attuale può essere il punto di partenza per un cambiamento di vedute.  Una realtà, svuotata dalla capacità di spingere lo sguardo oltre i tragici avvenimenti del presente e l’impotenza di assumere decisioni orientate al bene dell’intera comunità europea, è ingannevole.  In tale ottica, l’utopia è un invito a far sì che un futuro politico diverso possa invadere il presente.  L’utopia è capacità di visione.  1 Così come rilevato da: E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981. 2 R. Esposito, Immunitas, Torino, Einaudi, 2002, p. 4. 3 H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, trad.it A. Carrino, Milano, Giuffrè, 1989, p. 468. 4 L’avvento di un costituzionalismo globale è auspicato da: L. Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, in Il Manifesto, Roma, Il Nuovo Manifesto- Società Cooperativa, 9 aprile 2020; sul dibattito relativo alla Costituzione europea, E. Resta, Il diritto fraterno, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 48-60. 5 J. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, trad. it. L. Ceppa, Laterza, Roma-Bari, 2013.h 6 S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Bari, 2014, p.114.   Torna all'Appello  
1017. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Conversazione con il filosofo Massimo Cacciari  
15 APRILE 2020 Per l’Europa non ci saranno più esami di riparazione Conversazione con il filosofo Massimo Cacciari di Andrea Monda da L'Osservatorio Romano Bene ha fatto il Papa a concentrarsi nel messaggio Urbi et Orbi di Pasqua sulla situazione dell’Europa, a incitare l’Unione europea a ritrovare il sano spirito delle origini, ma il problema sembra proprio essere la sordità delle istituzioni politiche. Così esprime le sue preoccupazioni Massimo Cacciari, una voce che non poteva mancare nel nostro Laboratorio sul “Dopo la pandemia”. Si parla spesso del mondo che verrà fuori dall’emergenza sanitaria, perché sarà diverso, ma innanzitutto, quale lezione secondo lei possiamo apprendere da questa crisi? Sono diverse le lezioni che potremmo imparare da questa esperienza a livello internazionale, a livello nazionale e a livello locale. Prima di tutto questa pandemia insegna che ci sono delle cause all’origine di queste gravissime situazioni di altissimo rischio, cause che sono state denunciate da anni e alle quali nessuno ha mai messo mano. Penso a tutta la filiera agroalimentare o alla situazione ambientale, ovviamente si tratta di cause concatenate che insieme determinano l’altissimo tasso di rischio di pandemia. Non dimentichiamoci della sars, dell’ebola e di altri casi analoghi precedenti, e di tanti altri segnali che negli ultimi decenni avremmo dovuto raccogliere. Ora siamo in piena emergenza sanitaria ed è chiaro che dovremmo andare in una direzione che renda possibile la creazione di intese tra i diversi paesi colpiti, con strategie condivise. Non dico di creare “la repubblica mondiale” o “il governo planetario”, ma dico che tra i diversi stati su questioni come quelle finanziarie, dell’immigrazione o sulle grandi questioni di politica estera si dovrebbero rafforzare le intese a livello diplomatico e soprattutto politico. Se questo non dovesse verificarsi allora saremmo come oggi, a vivere tutto come “emergenza”, quando invece non si tratta di emergenze ma di elementi fisiologici, figli del processo di globalizzazione. Il movimento dei popoli, le crisi finanziarie, i disastri ambientali, le pandemie sono tutti fenomeni fisiologici per i quali si deve essere pronti. Estote parati, siate pronti come dice il Vangelo, questo vale per ogni uomo ma anche per i diversi paesi che invece sono stati tutti colti di sorpresa. Questo vale soprattutto per l’Italia, giusto? Direi soprattutto per l’Italia. Non si può continuare con una gestione solo emergenziale per cui tutto va in tilt a partire dalle strutture sanitarie e ospedaliere. Non si può addossare la colpa a un destino cinico e baro per il fatto che, ad esempio, noi abbiamo tre volte in meno i posti di rianimazione che in Germania o in Francia, questo non è colpa del fato ma di scelte politiche; né è colpa del destino se la struttura regionalistica ogni volta che c’è una crisi va in tilt (per un terremoto, per le epidemie, per le frane...) per cui scoppia sempre un conflitto insanabile tra poteri centrali e regioni, eppure tutti sanno benissimo che il nostro paese è ad altissimo rischio sismico o di inondazioni. Forse allora si dovrebbe mettere mano, per tempo, a un riassetto istituzionale per coordinare poteri centrali e amministrazioni locali. Ma la sensazione è che si continui ad andare a colpi di interventi emergenziali, con nulla di preparato, di organizzato, di programmato. Altro esempio: è noto che in Italia ci siano nove milioni di poveri di cui tre milioni in condizioni di povertà assoluta. Allora interveniamo per garantire un reddito di sopravvivenza ma ad oggi ancora non è stato erogato; il punto è dunque che esistono ancora tutte quelle strettoie amministrative, lacci e lacciuoli burocratici. Quando vogliamo capire che una riforma della burocrazia non è più procrastinabile? Eppure non se ne sente parlare... L’Europa uscirà senz’altro diversa da questa crisi. Il Papa nel suo messaggio Urbi et Orbi ha dedicato molto spazio all’Europa e ha fatto riferimento allo spirito della fine della guerra, a quel mettere da parte le rivalità per ricostruire insieme con spirito solidale l’Europa. Oggi più che mai. L’Europa da un certo punto di vista è ancora un’astrazione. O i governi europei trovano di fronte a questa emergenza che li coinvolge tutti una linea comune, una strategia efficace che dimostri di aver imparato la lezione, o la situazione potrebbe solo precipitare. La lezione che scaturisce non solo dalla pandemia ma prima ancora dalla vicenda della Grecia, dalla questione dell’immigrazione, dal fallimento di una politica estera condivisa. Ci sarebbero quindi le speranze di potersi riprendere dalla crisi e di poter procedere nella via dell’Unione europea, consapevoli però che non ci sono più esami di riparazione. Se si fallisce ora, la deriva dei nazionalismi diventerà una valanga inarrestabile. È necessario che i leader europeisti (o sedicenti tali) sappiano che l’Europa è al bivio decisivo: o riparte bene con un grande piano Marshall europeo, gli eurobond e via discorrendo o si fallisce. Un anno fa lei ha rilasciato un’intervista all’Osservatore Romano e disse che l’Italia e l’Europa erano vecchie, decrepite, ed entrambe avevano bisogno di un “fertilizzante”, e da non credente, indicava nella presenza della Chiesa e della spiritualità cristiana quel fertilizzante; oggi l’Europa sembra, anche fisicamente, in agonia, quale può essere allora la responsabilità dei cristiani? Senza la cristianità non può esserci nemmeno l’idea di Europa. Ovviamente nella consapevolezza che l’essere cristiano si può definire in vari modi e anche in modi tra di loro confliggenti, ma senza questo riferimento non si va da nessuna parte, tantomeno ora in cui i valori sono necessari e urgenti, uso questa espressione quasi in senso materiale, cioè quello che deve essere messo in campo per uscire da questa situazione. Ebbene, di quali valori stiamo parlando se non quelli della solidarietà, dell’amore del prossimo? È ora di farla finita con la filopsichia, l’amore della propria anima, devono entrare in campo questi valori con tutta la loro concretezza altrimenti non usciamo da questa situazione, ogni paese crollerà con il culto del proprio ombelico fino a sprofondare. E allora diventa importante la presenza della Chiesa, con le sue immagini, i suoi gesti così fortemente simbolici. Pensiamo in concreto al gesto del Papa che in questi giorni va in Piazza San Pietro, vuota, per pregare, benedire, gesti potenti che hanno un enorme valore, gesti di estrema drammaticità che sottolineano quello che dicevo prima: siamo di fronte a un bivio e questo vale anche per la Chiesa. Siamo tutti di fronte a quella piazza vuota, una piazza che non si può riempire come prima, non si può pensare più di riempirla come si faceva prima, con i turisti, con chi si va a fare la passeggiatina, no, sarebbe una tragica illusione. Per la Chiesa come per l’Europa o nascono dei “cives” europei veri, cittadini di questa benedetta terra, impegnati, responsabili oppure l’Europa, e quella piazza, resteranno vuote. Il predicatore della Casa Pontificia padre Cantalamessa nella predica del Venerdì santo ha detto che non si può tornare a vivere come Lazzaro, che torna dalla morte alla stessa vita di prima, e poi morirà di nuovo, ma si deve risorgere come Gesù, per la vita piena, eterna. Esattamente: non si può riempire la piazza come prima con l’illusione di ripristinare lo status quo ante. Dalla crisi si esce con una nuova volontà comune europea, che magari riprenda un’idea d’Europa che non si è mai concretizzata, si deve ripartire con quello spirito di riforma interna e di maggiore collaborazione e cooperazione internazionale. Qualche giorno fa gli italiani hanno applaudito gli albanesi che vengono in soccorso e si sono indignati contro i paesi nordici che non lo fanno, ma il punto forse è che non si può chiedere l’aiuto degli altri per rimanere identici a quello che eravamo, perché prima la situazione non era virtuosa. Possiamo chiedere aiuto ma per cambiare, non per rimanere uguali. Sono perfettamente d’accordo; una delle cose più odiose è questo piagnisteo nei confronti dell’Europa che ha responsabilità immense (e possiamo parlarne anche peggio dei più severi critici dell’Europa), ma tu devi dire finalmente cosa vuoi fare tu. Anche perché non è l’Europa che ti ha costretto ad aumentare costantemente il debito in questi ultimi 25 anni, non è l’Europa che ti ha costretto a non fare le riforme istituzionali. Quindi tu devi dire cosa vuoi fare e non fare il bambino che dice “chiedo alla mamma, al papà” e poi ti lamenti se il papà e la mamma non ti danno i quattrini. Ci sono tanti problemi, e bisogna quindi uscire da questa crisi con delle politiche di convergenza europea sul piano fiscale e sul piano sociale. Pensiamo al problema dell’immigrazione che va assolutamente affrontato anche se ora al momento tace ma potrebbe esplodere in ogni momento. Facciamo quindi un discorso serio sulle colpe dell’Europa ma prima di tutto facciamo un discorso serio a casa nostra. Ma non sento molti che intraprendono questo discorso, che si chiedono su come noi italiani intendiamo affrontare il dopo emergenza sanitaria quando si tratterà di fare i conti. Su queste pagine l’economista Stefano Zamagni ha detto che si deve affrontare con spirito critico il neoliberismo, l’assetto economico dominante di cui la crisi ha svelato tutte le contraddizioni. Da una parte è chiaro, soprattutto in momenti di crisi, che politiche neoliberiste non consentono politiche di welfare, politiche sociali. Allarghiamo però l’orizzonte e usciamo dall’Europa e dagli Usa e pensiamo a ciò che sta emergendo in vista del dopo crisi, ai nuovi equilibri internazionali. Il modello neoliberista è in crisi, da tempo, pensiamo alla crisi finanziaria di una dozzina di anni fa, ma verso quale modello si sta procedendo? Quale modello si sta predisponendo per il dopo? Non mi sembra che sia un ritorno a un modello socialdemocratico. Mi sembra piuttosto un modello che emerge nei grandi spazi imperiali in cui abbiamo un’assoluta simbiosi tra politica e capitalismo, penso ad alcune aree geografiche in particolare. Non si tratta certo del liberismo degli anni ’80, il liberismo dei Reagan o della Thatcher che era basato sul capitalismo liberato dai lacci e lacciuoli statali, ora invece tutti i capitalisti del mondo si stanno accorgendo che hanno bisogno di protezione e di governo, come ha dimostrato la grande crisi finanziaria. Emerge quindi in queste aree un modello basato sul connubio strettissimo tra mercato e classe dirigente che porta a un modello industriale monopolistico dove capitale e politica sono connessi e non puoi più distinguerli. Questo è il grande modello che sta vincendo e oggi anche estendendo un po’ dappertutto, per cui criticare il neoliberismo è giusto ma fuori tempo, perché oggi abbiamo a che fare con un modello nuovo di capitalismo che avanza, diverso, che è per giunta connesso con una funzione inevitabilmente autoritaria che mette in crisi profonda ogni assetto che voglia dirsi democratico. È una tendenza che soffia un po’ dappertutto, con il legislatore e i parlamenti un po’ dappertutto che contano sempre meno, anche qui in Italia, mi sembra evidente. Non è un buon segnale, indica che queste sono le grandi tendenze nel mondo contemporaneo, che dovrebbero risvegliare un sussulto di chi ha a cuore la democrazia prima che la situazione degeneri definitivamente. La missione dei democratici oggi dovrebbe essere questa, anche se all’orizzonte non vedo molto in giro, ma è proprio qui in Europa che dobbiamo cercare, e l’aiuto della parola della Chiesa potrebbe servire. Una parola che suona un po’ inquietante oggi è “identità”, con la sua ambiguità. Secondo lei c’è bisogno di più identità o di meno identità? Di più senz’altro. Noi esseri umani passiamo tutta la vita a cercare di conoscere noi stessi, di saperne di più, di capirci. Il che significa ragionare sul proprio passato per vedere che cosa di questo passato sia intervenuto nel formare il proprio carattere e per interrogarci, chiederci cosa speriamo, quale è il senso, lo scopo della vita. Cerchi di mettere a fuoco la tua identità ma poi scopri che questa ricerca non può svolgersi in termini solipsistici ma si svolge all’interno di un dialogo, di un colloquio con gli altri, all’interno di relazioni. Il momento del rapporto e quindi del riconoscimento dell’altro è fondamentale, quindi direi che oggi abbiamo bisogno di sempre più identità ma che deve essere intesa come ricerca da fare insieme, pensiamo alla propria identità ma anche all’identità delle comunità e quindi anche dell’Europa. Se si rimette in moto questa ricerca il problema dell’Europa si risolve, altrimenti si mettono in moto dei “meccanismi identitari” che sono un’altra cosa, sono la degenerazione, il sintomo che con l’identità abbiamo dei problemi. In questi meccanismi identitari viene rovesciata la logica, non si cerca più l’identità ma la si considera in modo astratto, come dato acquisito, non come ricerca da effettuare attraverso il dialogo con l’altro, con la diversità; accade quindi che ogni diversità diventa “nemico”. Una ricerca comune attraverso il dialogo verso un orizzonte che non è mai stabile, fisso, astratto: è così che deve configurarsi l’Europa come organismo vivente che si adatta ai diversi incontri, alle diverse situazioni. Perché l’identità non è un essere ma un dovere essere, uno scopo che puoi svolgere soltanto nel rapporto all’interno di un collettivo, di una comunità. E invece abbiamo avuto l’esplosione negli ultimi anni dei cosiddetti sovranismi... Questi fenomeni nascono proprio dall’aver trascurato la dimensione delle identità e avere abbandonato molte persone a questo smarrimento, aver dato così linfa a questi meccanismi autoritari che sono la scorciatoia rispetto alla faticosa ricerca dell’identità. Dal punto di vista politico i nazionalismi sono nient’altro che il prodotto degli errori, dei fallimenti delle politiche unitarie realizzate. Se fai una sciagurata politica di annessione di stati dentro l’Europa senza nessuna cura di quella situazione storica particolare commetti un errore politico che non può non avere gravi conseguenze. Il caso della Grecia è il più macroscopico. Tutti i popoli europei hanno visto come è stato trattato non il governo (che non meritava molto) ma il popolo greco. Prima di allora in Europa c’era soltanto la Le Pen in Francia che aveva un piccolo peso a livello elettorale, ora siamo giunti al punto che i nazionalismi minacciano di prendere la maggioranza del Parlamento europeo, rischio che abbiamo corso dopo la pessima gestione della crisi finanziaria e dell’immigrazione, due fatti che dicono il fallimento dell’Unione europea. Eppure al tempo stesso oggi l’Europa non può permettersi di fallire perché altrimenti il mondo che verrà fuori da questa crisi della pandemia sarà in mano ai grandi imperi, con quali conseguenze è presto per dirlo. Torna all'Appello  
1018. L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Giovanni Ghiselli  
22 APRILE 2020 di Giovanni Ghiselli L’Europa per seguitare a esistere culturalmente e politicamente deve continuare a fondarsi sulla propria base umanistica. “L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi piu in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli piu recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor piu l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"1. Lo studio dei classici serve ad accrescere la nostra umanità Perche studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli"2. Non è questa la nostra risposta. Se è vero che il classico non si asservisce alla volgarità delle mode, infatti non passa mai di moda, è pure certo che la sua forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il greco e il latino servono alle relazioni umane, quindi all’umanità e alla civiltà: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico. Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce. Sa anche pensare piu e meglio di chi non li conosce3. Sa volere bene e amare più e meglio di chi non li conosce. Studiando e comprendendo il greco e il latino si diventa più umanisti e più umani. Voglio anticipare qui esempi che fanno vedere con chiarezza la coincidenza e l’identificazione di umanesimo con amore per l’umanità. Vediamone alcune espressioni L’umanesimo è prima di tutto amore dell’umanità. L' Antigone di Sofocle dichiara il suo amore per l'umanità dicendo a Creonte :" ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), io non sono nata per condividere l’odio ma l’amore. Teseo risponde "e[xoid j ajnh;r w[n"(Edipo a Colono, v.567), so di essere un uomo a Edipo che gli ha chiesto perché accolga e aiuti lui che è il più disgtraziato e malfamato degli uomini. E' una dichiarazione di quella filanqrwpiva che si diffonderà in età ellenistica e diventerà l'humanitas latina. Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo è quella arcinota di Terenzio:" :"Homo sum: humani nil a me alienum puto"4. Nell'Eneide di Virgilio, Didone incoraggia i Troiani, giunti naufraghi sulle coste, della Libia ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e  diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati:"non ignara mali miseris succurrere disco "(I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola :"E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"5. Marco Aurelio, imperatore (161-180 d. C.) e filosofo, scrive “: noi siamo nati per darci aiuto reciproco (pro;" sunergivan), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin" (Ricordi , II, 1). La cultura classica sa opporre degli argini all’irrazionale quando questo dilaga e minaccia di stravolgere la civiltà. E' quello che Thomas Mann fa dire a Serenus Zeitblom nel Doctor Faustus (1947) : "non posso far a meno di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia antica e un senso vivamente amoroso della bellezza e della dignità razionale dell'uomo (...) dalla cattedra ho spiegato molte volte agli scolari del mio liceo come la civiltà consista veramente nell'inserire con devozione, con spirito ordinatore e, vorrei dire, con intento propiziatore, i mostri della notte nel culto degli dei"6. In La montagna incantata (Der Zauberberg del 1924) il protagonista Hans Castorp interviene in una discussione tra i suoi mentori Settembrini e Naphta dicendo che la scienza medica si occupa dell’essere umano, è umanistica, come giurisprudenza, teologia e arti liberali, poi le discipline del trivio grammatica, dialettica, retorica e quelle del quadrivio, aritmetica, geometria, musica, astronomia.. “Sono tutte discipline umanistiche e quando vogliamo studiarle dobbiamo imparare prima di tutto le lingue antiche, fondamentali per un approfondimento formale. Io sono un realista e un tecnico ma è una regola eccellente porre a fondamento di ogni professione umanistica l’elemento formale, l’idea della bella forma che conferisce un sovrappiù di nobiltà, di cortesia.” ( Cap. V, Humaniora, p. 381). Tra Humanismus e Umanesimo “ soprattutto affine è la volontà di far rivivere l’opera classica, la sua eterna vitalità (Umano troppo umano, II, 408), in lotta contro l’assenza di forma, di misura7, il Mablose semibarbaro contemporaneo. (…) E’ essenziale comprendere come l’incolmabile differenza filosofica tra le due prospettive abbia pure un fondamento filologico. Esse però intendono in una chiave opposta la tragedia (…) Per l’Humanismus la tragedia entra ‘armoniosamente’ nell’idea classica di paidea; il suo è il Dioniso della polis, pacificato nell’ambito della comunità, la quale sembra averne dimenticato la tremenda minaccia o illudersi di averla per sempre superata.. Un Dioniso che Platone (…) ha guarito da ogni spaesante dismisura”8. Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime. Lo afferma Socrate nel Fedone :" euj ga;r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene (…) ottimo Critone che il non parlare bene non è solo un errore, una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime. Non saper parlare significa incapacità in ogni campo e soggezione rispetto a chiunque sappia farlo. Non poter parlare con capacità persuasiva vuole dire , tra l’altro, non essere in grado di contrapporsi ai truffatori astuti, ai demagoghi e, oggi, alla pubblicità. Pindaro nella Nemea VIII ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso" (v. 24), sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole7. Non c'è altro tempio della Persuasione che la parola, dice Euripide, personaggio delle Rane di Aristofane che cita un verso del tragediografo: "oujk e[sti Peiqou'" iJero;n a[llo plh;n lovgo" "9. Chi non possiede la parola in grado di persuadere non di rado ricorre alla violenza. Pasolini aveva capito che la povertà del linguaggio è una forma di impotenza che prelude alla violenza: "Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l'ombra orrenda della croce uncinata"10 Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola" Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper parlare in mondo preciso e conciso. Per raggiungere questo scopo ci vuole ricchezza, vastità e proprietà di lingua. Non è possibile parlare né scrivere bene, con proprietà e concisione, senza conoscere le lingue e le letterature classiche. “Quanto una lingua è piu ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto e piu ristretta, tanto piu le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprieta di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Leopardi, Zibaldone, 1822). Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un fraseggiare di brevità e di forza”, traducendo “i giambi di Seneca” (Vita, 4, 2). Quintiliano: “densus et brevis et semper instans sibi Thucidides (Institutio oratoria, X, 73). Succede del resto, sebbene di rado, che la quantità anche molto grande non infici la qualità. Questa del resto necessita comunque della conoscenza dei classici. Sentiamo un famoso confronto tra Shakespeare e Sofocle: “Effetto della quantità. Il più gran paradosso della storia della poesia è che uno possa essere, in tutto ciò che forma la grandezza dei poeti antichi , un barbaro, cioè difettoso e deforme dalla testa ai piedi, e rimanere tuttavia il più grande poeta. Così è infatti per Shakespeare, che, paragonato con Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto oro, ma oro anche lavorato nel modo piu nobile, tale da far quasi dimenticare il suo valore come metallo. Ma la quantità, nei suoi massimi potenziamenti, agisce come qualità. Ciò torna a vantaggio di Shakespeare"12. Non dimentichiamo però che Shakespeare se era “un barbaro che era non privo di ingegno”13 leggeva tuttavia gli autori latini e Plutarco tradotto dal Thomas North. “La poesia fonda la sua potenza sulla compressione. Poeta in tedesco si dice Dichter, colui che rende le cose dicht (spesse, dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità, la complessità, il senso e l’importanza”14. Come l’immagine onirica, la parola del poeta è costituita da una condensazione. La conoscenza dei classici è conferisce il sicuro possesso della parola che è utile in tutti i campi, da quello liturgico a quello erotico: "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas ", bello non era, ma era bravo a parlare, Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria (II, 123 - 124). Kierkegaard cita questi due versi nel Diario del seduttore (7 giugno). Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum qui duret, et adstrue formae: /solus ad extremos permanet ille rogos. /Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars amatoria II, vv. 119 - 122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue15. Bologna 22 marzo 2020. Giovanni Ghiselli 1 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, 299. 2 Il greco e il latino, la religione e la matematica “Erano-e l’insegnante lo faceva notare spesso-del tutto inutili apparentemente ai fini degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali, perche sviluppano la facolta di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero chiaro, sobrio edefficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del 1906), p. 24. 3 Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776-1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “piu volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro si nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3). 5 E. Morin, La testa ben fatta, p. 49. 6 T. Mann, Doctor Faustus, capitolo 2 7 Cfr- Orazio:"est modus in rebus, sunt certi denique fines,/quos ultra citraque nequit consistere rectum " (Satire , I, 1, vv. 106-107), c'è una misura nelle cose, ci sono limiti definiti 8 M. Cacciari, La mente inquieta, saggio su l’Umanesimo, caitolo primo Humanismus o Umanesimo?, p. 12) 9 Rane, v. 1391. Euripide, in gara con Eschilo, cita e pone sulla bilancia questo verso della sua Antigone , per noi quasi tutta perduta (fr. 170). Il peso maggiore però è del verso di Eschilo (fr. 279) al centro del quale si trova Qavnato~ (Rane, v. 1392). Dioniso, che fa da giudice, infatti dice che la morte è baruvtaton kakovn (1394), il guaio più pesante; Peiqw; de; kou`fovn ejsti kai; noun` oujk e[cwn (v. 1396), la Persuasione invece è leggera e senza pensiero. Snell difende Euripide dagli attacchi di Aristofane utilizzando una nota tratta dal Diario di Goethe che alcuni mesi prima della morte scriveva:"Non finisco di meravigliarmi come l'elite dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane. (...) Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?" B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Aristofane e l’estetica, capitolo settimo, p. 189.. 10 Scritti corsari, p. 187. 11 Lettera a una professoressa , p. 95. 12 " Nietzsche, Umano, troppo umano II, Parte prima. Opinioni e sentenze diverse, 162 13 Manzoni, I promessi sposi, cap. VII 14 Hilman, La forza del carattere, p. 70. 15 Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo trascurare le altre. Torna all'Appello  
1019. I DIALOGHI DI POLIS. Che futuro ha questa Europa?  
Quando 24 Febbraio 2020 Dove Università degli Studi Link Campus University - Antica Biblioteca - Via del Casale di San Pio V, 44 – Roma Orario ore 16:30 – PARTECIPANO – Piero De Luca Deputato Partito Democratico Stefano Fassina Deputato Liberi e Uguali Giovanbattista Fazzolari Senatore Fratelli d’Italia Dino Giarrusso Europarlamentare Movimento 5 Stelle Antonio Maria Rinaldi Europarlamentare Lega Cristina Rossello Deputato Forza Italia – MODERA – Angelo Polimeno Bottai Vicedirettore Tg1, presidente di EURECA Accrediti Scarica la locandina Per informazioni: segreteriapolis@unilink.it  
1020. Lectio Magistralis di Maurizio Molinari. Il giornalismo al tempo della terza repubblica. Fatti nazionali e internazionali  
Quando 19 Febbraio 2020 Dove Università degli Studi Link Campus University - Antica Biblioteca - Via del Casale di San Pio V, 44 – Roma Orario ore 09:30 Lectio Magistralis Il giornalismo al tempo della terza repubblica. Fatti nazionali e internazionali Maurizio Molinari Direttore de “La Stampa” – MODERA – Marco Antonellis Giornalista La partecipazione all’evento è aperta a tutti. Scarica la locandina Per informazioni: segreteriapostgraduate@unilink.it  
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