23 MARZO 2020
Covid-19: il futuro delle relazioni internazionali
di Giovanni Castellaneta
Proviamo ad azzardare qualche analisi di scenario sulle conseguenze che la pandemia di Covid-19 lascerà sulle relazioni internazionali, a livello sia politico che economico, in un periodo intermedio tra BC (Before Corona) e AC (After Corona) come dice efficacemente Alan Friedman che aveva già ipotizzato un mondo senza ostacoli (The World is Flat) per qualsiasi flusso di persone, cose, informazioni ed epidemie.
È chiaro che l’Unione Europea si trova ad affrontare forse la sfida più grande della sua storia: una parte importante del proprio futuro dipenderà dalla risposta data dalle sue istituzioni e dal livello di coordinamento che gli Stati Membri saranno in grado di fornire.Le caratteristiche peculiari di questa sfida cruciale, e le prime risposte messe in camponegli ultimi giorni, consentono di effettuare alcune riflessioni iniziali.
Lo shock che l’Unione Europea sta vivendo in queste settimane – e che presumibilmente continuerà nei prossimi mesi – è paragonabile, seppur con le dovute proporzioni, a quanto vissuto dall’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Da quella tragica esperienza nacquero i germogli, poi sbocciati, del progetto di integrazione comunitaria. È anche possibile attendersi, in questo caso, una reazione positiva e sfruttare l’emergenza attuale come un’occasione per un nuovo slancio di questo progetto. Al di là delle ricadute economiche, non sottovalutiamo dunque il significato politico di questa vicenda.
A fronte di una Unione Europea che potrebbe ricompattarsi, la crisi attuale mette a nudola debolezza del Regno Unito che si trova da solo ad affrontare questa situazionedimostrando di non avere una strategia chiara. Sono passati meno di due mesi dall’uscitadi Londra dall’UE, ma fino ad ora la Brexit non sembra dare quei vantaggi sperati. In un’ottica costi- benefici, il “prezzo” da pagare per far parte del club europeo sembrainferiore ai benefici che si possono trarre dalla membership.
L’impatto della pandemia è diverso nell’Unione Europea rispetto alla Cina per caratteristiche demografiche ed economiche. È stato più semplice circoscrivere laprovincia di Wuhan, sia per quanto riguarda i contagi, sia per la trasmissione al sistema produttivo: questa crisi evidenzia il profondo grado di interconnessione tra gli Statieuropei lungo le supply chains del settore manifatturiero. È dunque evidente che similidinamiche non possono essere gestite se non in maniera coordinata e organica: quandotutto questo sarà finito, occorrerà riflettere sull’opportunità di aumentare il livello di integrazione includendo anche settori chiave come la Sanità nei livelli transazionali eriportando alcune produzioni di beni essenziali in ambito europeo, dopo averle negli ultimianni cedute al resto del mondo ed in particolare all’Asia.
A livello economico, tutti si aspettano un rimbalzo verso l’alto dopo il crollo inevitabileche si prospetta nelle prossime settimane. Sarebbe illusorio però attendersi una ripresa immediata e di entità proporzionale allo shock: aspettiamoci un periodo di incertezza e, dunque, una curva di risalita meno ripida. Vero è che la crisi attuale è determinata da un fatto congiunturale e non sistemico, dunque nel medio-lungo periodo la ripresa sarà più sostenuta; ma questa emergenza ha messo a nudo gli errori della classe dirigente nel trascurare investimenti in settori chiave come ricerca, salute, università, infrastrutture.
Alla luce di queste riflessioni, speriamo che si riesca ad interpretare tutto questo comeuna wake up call per impostare politiche lungimiranti, basate su importanti investimentipubblici da parte di uno Stato che torni ad essere “virtuoso”. Se così sarà, le opportunità per gli investitori privati non mancheranno e, anzi, questa vicenda potrebbe aiutare ilnostro sistema economico a velocizzare la transizione verso la digitalizzazione e la green economy. La pandemia attuale, e quelle che ciclicamente verranno, pongono poi quesiti sulla posizione dominante delle grandi multinazionali (Apple, Google, Alibaba, Huawei, etc.). Queste, infatti, si preoccuperanno di mantenere ed incrementare la società globaledi consumo sostenendo i settori dei servizi ed un quadro finanziario positivo nell’esclusiva ottica di profitto, di mantenimento e di miglioramento delle proprie posizioni worldwide.
Infine, è necessaria una riflessione sul ruolo della globalizzazione. Questa, da un lato, si rafforza in un mondo interdipendente, consentendo il libero flusso di opinioni, servizie, purtroppo, anche pandemie; dall’altro, si diluisce in una virtuale cacofonia perché indebolisce tutti gli attori statuali, inclusa la Cina e gli Stati Uniti che ne stanno uscendo entrambi indeboliti. Nel breve periodo, governi autoritari e nazionalisti potranno trarne vantaggio usando tutte le possibilità tecnologiche di controllo della popolazione (riconoscimento facciale, tracking di movimenti e di profili individuali) senza tuttaviaavere la forza, nel medio periodo, di contrastare le varie crisi sanitarie, ambientali edeconomiche, se non coalizzandosi tra di loro. Ecco perché dunque l’Unione Europeapotrebbe emergere alla distanza come esempio vincente, a patto che si uniscano le forze democratiche ed economiche e che si faccia un uso rispettoso delle tecnologie moderne.
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23 MARZO 2020
di Alessandro Corbino
Se un appello dobbiamo oggi fare non è – a mio sommesso modo di vedere – a “qualcuno”. A chi ci governa. A qualunque livello. L’appello necessario dobbiamo rivolgerlo a noi stessi. A coloro che quei governi legittimiamo. Con il nostro consenso (raramente). Con la nostra passività (ordinariamente).
Un momento come quello presente esige sicuramente compattezza e disciplina. Ed esige – non meno sicuramente – una guida “sicura” e ben “orientata”. La quale non può non essere oggi quella di coloro che il “caso” ha preposto alle cose. I governanti di questo momento non possono che essere coloro che hanno attuale investitura. E bene facciamo perciò ad invitarli a considerare la gravità del momento. Non è tempo per altro. Ma questo non significa anche che non dobbiamo – da subito – riflettere su uno stato di cose che va modificato.
L’esperienza della pandemia ha reso palese a tutti che le ragioni delle insufficienze dei nostri sistemi “liberal-democratici” occidentali (nelle diverse declinazioni: li riguardano tutti) sono legate alla cultura “giuridica” e dunque agli assetti di governo (intesi nel senso più generale) delle nostre società. Non siamo più in grado di decidere tempestivamente, efficacemente e democraticamente. Per la ragione semplicissima che chi deve decidere ritiene di dovere “dettare” e non invece – come non può non essere – “sintetizzare”. E dunque vive o di esitazioni (quando comprende che le attese sono variamente orientate) o di improvvisazioni (quando lo preme la necessità). Non devo ricordare a nessuno il succedersi piuttosto scomposto (al quale assistiamo, non solo in Italia) di provvedimenti di emergenza (ma anche di “dichiarazioni impegnative”, economiche e persino scientifiche) che si rivelano il giorno dopo (insisto: il giorno) già da rivedere.
Nell’emergenza è emersa – con drammatica evidenza – l’inesistenza della “politica”. I nostri sistemi vorrebbero esserne espressione. Probabilmente lo sono stati. Di certo, non lo sono più. E non per malvagia intenzione (o anche solo pervicace insipienza) di questo o quello. Non lo sono perché non vi è più alcuna corrispondenza tra i “modelli” che ci siamo dati (gli ordinamenti giuridici) e le “pratiche” che ne sono venute. I modelli (le nostre “costituzioni”) sono stati costruiti nell’illusione che essi potessero regolare la vita quotidiana delle nostre collettività per sempre (quasi diretti a disciplinare una realtà già “nota” e sostanzialmente “immobile”). E hanno dunque lasciato (com’era inevitabile che fosse) spazio ad una “pratica” degli stessi che se ne è resa (spesso) indipendente. Penso a ciò che è accaduto con la questione giustizia in Italia.
Abbiamo perduto di vista la relazione (insuperabile) tra “complessità” della realtà e conseguente necessità che la “decisione” – in un ordine “politico” (dunque di autogoverno) – sia il risultato di un “processo” collettivo. Deve avere come “premessa” le condizioni (anche e prima di tutto “culturali”: determinano la formazione del “cittadino”) che ne rendano possibile un diffuso “consenso”. Attraverso percorsi che possono (debbono) avere configurazione varia, ma che devono rendere (il più possibile) quel “risultato” individuo (l’atto generale di indirizzo o di amministrazione, la decisione “giudiziaria”) una determinazione che “compone” istanze diverse (che possono essere talora contrapposte, talora solo lontane nello spazio, talora influenzate dai diversi contesti, talora di differente urgenza, talora in relazione dialettica ulteriore). Il che non significa affatto guardare ad un defatigante e inconcludente interrogarsi continuo. Significa comprendere che la decisione “politica” non può, di principio, essere affidata a meccanismi di semplificazione. Li deve prevedere. Non li deve dunque né escludere, né esaltare. Li deve semplicemente “includere”. Deve essere possibile coniugare l’esigenza di efficienza e tempestività con la contemporanea necessaria attenzione al concorso dei “fattori” (molteplici e spesso originali) che incidono sulla configurazione della realtà. Capisco benissimo che dare espressione a una tale visione culturale sia facile solo da enunciare. Ma è la sfida con la quale ogni “politica” (ogni sistema di autogoverno) si è sempre dovuta misurare nella storia (al diverso e mutevole livello di difficoltà che essa propone). E dunque con l’ausilio degli strumenti (sempre più raffinati) che le tecniche nel tempo mettono a disposizione.
Scendo al concreto.
Abbiamo maturato l’idea (di matrice illuministica) che la “legge” (il “disegno” delle cose: ne presuppone configurazione e ne detta disciplina) fosse sufficiente a regolare le nostre esistenze. Quando invece ciò che dà effettività alla realtà materiale non è la (pur indispensabile) “legge”, ma il “diritto”. Non conta solo il “criterio” che guida l’osservazione delle cose. Conta (e molto) anche il “diritto”, il significato che dà alla legge colui che è chiamato a darvi attuazione. Il “fatto” che egli “deve” disciplinare non sempre si ripresenta nella configurazione che ne è stata predefinita. E tuttavia deve ricevere definizione. Come infatti accade. Ma questo non deve sottrare chi provvede al giudizio di opportunità che ne consegue. Un giudizio che non cambierà (non potrà) la decisione “specifica”. Ma che è indispensabile ad “orientare” quella futura. Anche il “diritto” merita, in un ordinamento che voglia essere “politico” (di autogoverno), un’attenzione collettiva (nelle opportune forme) non minore di quella che riserviamo alla legge. Come i fatti che stanno stravolgendo le nostre vite sottolineano, la legge nasce dall’esperienza, ma disciplina ciò di cui non vi è stata ancora esperienza. Accade non solo quando gli eventi siano assolutamente nuovi (come quelli che stiamo vivendo). Accade sempre. Ogni “caso” sul quale decidere è sempre “individuo” e non riconducibile meccanicamente perciò all’astratto criterio (la legge) che ne orienta la soluzione (che l’amministratore/giudice) deve adottare. Ed esige dunque capacità di “attenzione” nel decidente. E capacità di osservazione in colui (il “cittadino”) che – direttamente o indirettamente – ne subisce le conseguenze. E dal cui “consenso” (di “governato”) discenderà il (necessario) giudizio “politico” (naturalmente, nelle complesse e varie modalità che ne rendono possibile la coniugazione di “generalità” e “competenze”). Dal quale dipenderà la rinnovata “legittimazione” o meno dei “governanti”, che è a fondamento di ogni metodo di autogoverno.
Vengo all’appello presente.
Anch’io credo che nessuno Stato europeo sia in grado da solo di reggere alle necessità del nostro tempo. Credo anche tuttavia che l’esperienza abbia dimostrato che dell’Unione Europea sia stata concepita un’identità “politica” del tutto impraticabile (o almeno incompatibile con una visione liberale). La “politica” è un metodo di governo che esige “concorso” (ciascuno deve potere incidere, come “cittadino” della polis, sulle scelte comuni) e “comunione di cultura” (una “storia” condivisa che faccia da sostegno ad un rinnovamento degli obbiettivi che nasca dall’esperienza e non dalla presunzione). I Paesi europei non hanno una storia condivisa. Hanno culture profondamente diverse (lingua, religione, tradizioni) che affondano le loro ragioni in percorsi spesso millenari (e dunque di grandissimo radicamento). Di comune hanno il patrimonio scientifico-tecnologico e la possibilità di avere convergenti interessi economici. Un fatto che però condividono con tutto il mondo e perciò insufficiente a generare “identità specifiche”. Elevati – come si è fatto negli ultimi decenni – a “bandiera” hanno solo l’effetto di marginalizzare i valori legati alle storie specifiche. Una evenienza che “spersonalizza” (e che non condivido). Per farmi comprendere meglio: promuove l’idea della “assimilazione” forzata dei diversi e non di una loro “integrazione” per spontanea convergenza. Favorisce nei fatti la sopraffazione delle minoranze, di quel pensiero “indipendente”, che io giudico essere invece il motore primo di ogni progresso “libero”. Le “minoranze” non possono ovviamente pretendere di indicare la linea. Ma senza rispetto delle minoranze vi sono solo regimi. Ne possono mancare camicie e stendardi. Ma non ne manca la sostanza. Chiudo dunque. A me sembra che un’Europa Unita sia una necessità “politica” e non morale. Risponde ad una ragione di utilità. E nelle condizioni storiche date essa può esserlo – a mio sommesso modo di vedere – in una direzione molto diversa da quella che l’ha connotata fin qui. Viva dunque l’Europa. Oggi perché senza quella “solidarietà” (economica e monetaria) che essa può assicurare in questi terribili momenti dovremmo affrontare (tutti, forti e meno forti) difficoltà forse oltre le nostre possibilità. Domani perché essa resta una necessità storica. Ma secondo un ordine costituzionale e politico del tutto diverso da quello che abbiamo vissuto fin qui. Quale? Non so dire. Credo che solo una riflessione approfondita ed “aperta” (priva di modelli ma ricca di conoscenza storica) potrà aiutare. L’appello deve essere alle intelligenze. Deve sollecitarne l’impegno perché sappiano (coralmente e in un dialogo libero) accompagnarci verso una strada indispensabilmente nuova, come era evidente prima della pandemia. E come la pandemia può avere solo reso anche manifestamente indifferibile.
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23 MARZO 2020
L’egoismo del singolo e l’egoismo degli Stati
di Francesco Macci
Dopo le prime misure restrittive del Governo che imponevano alla maggioranza degli italiani di rimanere a casa, si sono viste sui media molte immagini di persone che nei supermercati riempivano carrelli e auto fino all’inverosimile. Ebbene, in queste immagini traspariva uno stato d’animo proprio di tutto il genere umano: la PAURA, una comprensibile reazione istintiva. Ma se l’essere umano non razionalizza e imbriglia le sue reazioni istintive, queste facilmente danno luogo a comportamenti poco etici: il comportamento poco etico scatenato dalla paura è l’EGOISMO. Sono rari coloro che in questi momenti riescono a rimanere lucidi e coltivare il sentimento opposto all’egoismo: l’ALTRUISMO.
Si comprende meglio dopo questa premessa lo scandaloso blocco dell’export di mascherine da Francia e Germania verso l’Italia e la ragione per cui la richiesta di aiuto del Ministro Speranza al Consiglio dei Ministri Europei della Sanità sia andata a vuoto.
La reazione istintiva di paura e poi egoismo che abbiamo visto a livello individuale è stata la stessa che hanno avuto,a livello macroscopico, gli altri Paesi nei confronti dell’Italia. Fatto salvo, quando la questione è peggiorata per tutti, ripensarci.
Gli Stati non sono entità astratte ma sommatorie di persone con vizi e virtù proprie degli esseri umani e che, al netto di calcoli politici ed economici, sono influenzati, come tutti, da istinti e paure e che soprattutto, vivono sempre una dimensione individuale delle scelte.
Nei vari contributi a sostegno dell’iniziativa “L’Esistenza dell’Europa”, tutti fortemente condivisibili, vi sono elencate modalità e azioni specifiche che, partendo da questa crisi, possano portare ad una rifondazione dell’Europa. Ma io credo che ci debba essere un sentimento di base per far sì che queste proposte possano funzionare, ed è quello che spinge una persona a lasciare uno dei due ultimi pacchi di uova rimasti sullo scaffale a chi viene dopo di lei. È un moto empatico dell’animo, a tratti utopico, è l’altruismo.
Approfitto inoltre per far mio l’appello del Professor Marco Emanuele di costruzione di una rete internazionale, informale e libera, di intellettuali per l’Europa-in-comune,rivolgendomi però ai miei colleghi studenti universitari e medi, “nativi europei”, per dare vita ad un grande movimento europeo a sostegno dello stesso concetto e chiedendo supporto alle istituzioni universitarie e scolastiche dal cui coinvolgimento non possiamo prescindere per un progetto di così ampia portata.
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23 MARZO 2020
LETTERA APERTA
di Gaetano Tedeschi
Signori, Il grande senso dello Stato che ci accomuna, mi induce a esporvi mie riflessioni
Sono un semplice Ingegnere ancorchè abbia gestito grandi gruppi Industriali pubblici e privati, e come tale conservo una visione analitica dei problemi. Vogliate pertanto perdonarmi invasioni in campo politico,comunque da prendere come spunto.
Vorrei in un clima di sintesi partire dalle conclusioni a cui giungo portando sul tavolo politico i vari step e percorsi logici.
La globalizzazione (messa in evidenza nell’attuale emergenza)ci porta comunque a traguardare modelli di Unione tra Stati e per quanto ci riguarda Europa Il modello ci viene con semplicità mostrato proprio da questa esperienza dalla quale si esce (vedi Cina)solo con un sistema unitario in cui il default di una regione (in questo caso Italia e Spagna) è superabile se fanno parte di una nazione che accomuna popoli di culture e religioni affini. L’effetto moltiplicatore di diseguaglianze con certezza prevedibili nella situazione di emergenza ci induce a accelerare tale processo Va in tale chiave affrontato il tema dei rapporti economici e produttivi tra i grandi (Europa Russia Cina Usa) con nuovi criteri e strategie.Quelle attuali sono figlie di conflitti mondiali ormai lontani e successive guerre fredde, allo stato obsolete. Tali strategie pertanto vanno modificate con decisione e fermo impulso valutando gli elementi motori dello sviluppo. In particolare nella produzione di energia e delle sue fontivero motore di qualsiasi progresso industriale.Le società di Stato come ENI , che rivedere le proprie strategie fino ad oggi impostate su investimenti per concessione di estrazione puntando invece su sistemi energetici ecocompatibili Un ruolo determinante lo svolgeranno I grandi player, bancari e industriali, e soprattutto le società di Stato nel loro ruolo di essere trainanti di un sistema produttivo fatto di piccole e medie imprese, ad oggi viste solo come strumenti di un mercato speculativo, teso all’unico obiettivo degli utili e per lo Stato incalzato da obblighi di indici, dividendi.
Tali conclusioni partono dalla seguentesintetica analisi
“La politica europea sta con difficoltà traguardando l‘urgenza di un modello sociale europeo capace di ricostruire i diritti universali che le politiche economiche neoliberiste hanno indebolito.”
e si completano attraverso la lettura di dati e con la proiezione degli stessi nello scenario di emergenza finanziaria/sociale che si scatenerà a breve a seguito delle necessarie (in quanto etiche) misure per arginare la pandemia del Coronavirus
EUROPA NELLA SITUAZIONE ATTUALE
un decennio di lunga e profonda crisi, l’impoverimento della classe media, l’invecchiamento della popolazione, la precarizzazione del lavoro e lo spettro della povertà che è avanzato in tutta Europa, specie in Paesi come il nostro caratterizzati da un sistema di protezione sociale inefficace. Vi sono poi state le scelte politiche europee neoliberiste più attente al rigore del pareggio dei bilanci degli Stati membri, alla competitività globale, che non ad assicurare condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti. Fattori concomitanti questi, che hanno di fatto ridotto l’accesso ai servizi pubblici aggravando ulteriormente le già precarie condizioni di milioni di persone. Viene, de facto, rimesso in discussione il principio dell’accesso universale a condizioni di vita dignitose per tutti i cittadini, mentre le distanze tra ricchi e poveri continuano ad acuirsi. Segno, quest’ultimo, dell’importante arretramento della politica in tema di giustizia sociale, di redistribuzione dei redditi e delle ricchezze, della sua rinuncia a fronteggiare dinamiche economiche di natura internazionale. Ne sono prova i dati Eurostat sui redditi degli individui che ci riconsegnano un’Europa diseguale con incrementi consistenti dell’indice di disuguaglianza economica
La scarsa efficacia delle politiche nazionali ed europee nel contrastare questo fenomeno fortemente correlato alla nuova stagione del capitalismo contemporaneo, il fincapitalismo , ha inevitabilmente impattato su un aumento dell’indicatore relativo alla popolazione a rischio di povertà monetaria. Tale indice definisce chi vive in famiglie con un reddito equivalente non superiore alla soglia di povertà è passato nel periodo 2010/2015 dal 16,5% al 17,3% (Eurostat 2017). È evidente l’urgenza di un recupero della centralità delle politiche pubbliche in ambito sociale per rispondere al disagio economico e sociale che non lascia immuni neanche coloro che un lavoro ce l’hanno, ma sono retribuiti in modo insufficiente o comunque non godono della stabilità necessaria per potersi considerare al riparo dal rischio povertà, .Dato questo ancora più preoccupante il trend di crescita dei– Lavoratori a rischio povertà in Europa valori tra il 6% (Finlandia) e 20% (Romania)| . Il quadro descritto da Eurostat, in un generale avanzamento del lavoro povero in Europa, pone l’Italia (anno 2016) tra i Paesi con il più alto tasso di lavoratori a rischio di povertà o esclusione sociale, preceduta solo da Spagna, Grecia e Romania Tali indici e relativi squilibri fanno ipotizzare “espulsioni” o peggio”autoesclusioni” Insomma, l’area degli “esclusi” o a rischio di espulsione si allarga senza più importanti resistenze, poiché “includere” non è funzionale allo sviluppo dell’economia finanziaria a differenza dell’economia materiale ,L’economia politica globale ci pone di fronte quindi ad un nuovo e allarmante problema: l’emergere della condizione di espulsione Nonostante l’urgenza di politiche pubbliche atte a frenare le disuguaglianze sociali ed economiche che stanno minando i valori di un’Europa più equa e inclusiva, si deve prendere atto del fallimento della Strategia Europa 2020, licenziata dalla Commissione europea nel pieno della crisi economica (2010) in quell’ambizioso obiettivo di ridurre di 20 milioni gli oltre 80 milioni di persone nell’UE (16,5% dell’intera popolazione nel 2008) che vivevano al di sotto della soglia di povertà è stato seppellito da una politica di austerità imposta a tutti gli Stati membri, di cui lo stesso Fondo monetario internazionale ne riconosce oggi i limiti. In poco tempo, di quel modello di sviluppo e dei suoi target è rimasta la mera evocazione, mentre la popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentata in Europa senza alcun freno, colpendo 119 milioni di persone (nonostante le prestazioni sociali) e attestandosi al 25% della popolazione totale. È pur vero che Europa 2020 mirava a risolvere alcuni dei problemi che avevano caratterizzato la strategia del decennio precedente (la cosiddetta Strategia di Lisbona) portando l’Europa verso un modello di prosperità, piuttosto che di austerità. Nel lodevole tentativo di realizzare una crescita bilanciata, la Strategia Europa 2020, inghiottita dalla crisi del debito sovrano, ha mostrato tutta la sua debolezza nel processo di implementazione, ma dato allarmante la sua visione viene riproposta nella stesura della successiva Agenda 2030
COSA CAMBIA CON L’ATTUALE EMERGENZA
Vorrei tralasciare le cause che ci hanno portato alle misure adottate, essendo meri esercizi e di analisi che vedranno la dialettica politica/scientifica, sulle quali si discuterà a lungo. Certamente in sintesi comunque riconducibili a una presa d’atto dell’insufficienza sanitaria a fronteggiare fenomeni ancorchè naturali, aprendo un vasto dibattito sia etico che strutturale/istituzionale.Mi soffermo invece su quelle che sono le conseguenze di tale emergenza.
L’effetto devastante è una accelerazione di problemi che non sono compatibili con il tempo di uscita da crisi finanziaria, ma che compromettono lo status di sopravvivenza generato da improvvisa povertà che produrrebbe scenari di distruzione di qualsiasi politica Europea o comunque di aggregazione , in virtù delle regole imposte dalla globalizzazione .Nulla a che vedere per gli effetti con il 29 o il 2003 e 2008
Il crollo del PIL stimato in circa il 4% al mese è un fattore con crescita esponenziale, nel senso che per effetto induttivo il secondo mese avrà un crollo del 8 e il terzo del 16%, fino a collassare nella soglia del 33%.
Riportando tale dato negli indici di povertà l Italia con una differenziazione massima nella crescita PIL rispetto a Germania di soli 1,2 punti ha mostrato una crescita del 3% all’anno di tale indice rispetto allo 0.3% della stessa Germania. Questo vuol dire che il L’indice di povertà si moltiplica 10 volte la differenziazione nella crescita di PIL.
Va da se che nel più ottimistico quadro di una differenzazione dovuta al periodo di emergenza vedrebbe l’Europa deflagrata da un big bang socioeconomico
EUROPA FUTURA post emergenza CORONAVIRUS
Sembra cinismo ma sono profondamente convinto che non lo sia. L’emergenza che ha sempre caratterizzato i cambiamenti mondiali, anche questa volta ci porge la possibilità di rinnovarci e superare con tempistiche eccezionali percorsi che se affrontati con confronto dialettico avrebbe allungato a dismisura
Non cè molto tempo per prendere decisioni, ma è chiaro che è il momento di richiamare ogni centro decisionale, ogni lobby internazionale, ogni struttura che possa incidere in tali scelte a proporre un modello di Europa davvero pronto a sostenere una cura e un programma di ricrescita comune.
La prima immediata decisione è la creazione di una vera banca centrale con le caratteristiche di autonomia dei governi correndo anche il rischio di una governance di tipo finanziario e non gia sociale, credo sia la terapia più semplice da mettere in atto. Forse una amara (in termini di democrazia) immediata medicina, che comunque avrebbe effetto di intubamento del malato (in fondo lo siamo Spagna e Italia in Primis) per dargli poi il tempo con il proprio corpo di reagire.
Superato il primo periodo la reazione di terapia sarà poi la creazione di un unico modello di Unione. Lo stesso che sia federativo odi altra natura farà parte di un dibattito politico da affrontare con scadenze certe e magari sottoposto a referendum europeo entro 12 mesi
La base dello stesso dovrà essere in ogni casofondata sullo sviluppo integrato Intelligente, sostenibile e Inclusivo che punta a una crescita sostenibile non solo in termini di PIL, ma anche in ambito sociale e ambientale.
MODELLI PRODUTTIVI E INDUSTRIALI CONSEGUENTI
Da qui anche i vari conseguenti modelli produttivi non più finalizzati alla generazione di meri guadagni premianti solo e sempre più gli effetti speculativi, che per loro natura , non possonoche favorire sleale concorrenza e corruzione.
Serve un cambio di percorso anche gestionale. I grandi gruppi soprattutto di controllo Pubblico saranno chiamati a favorire il trascinamento della piccola e media impresa, sollevando la stessa dai temi che ne impediscono lo sviluppo, cioè incapacità di mezzi finanziari e mancata possibilità di investimento in ricerca e sviluppo.
In campo Internazionale soprattutto per L’Energia , bisognerà essere pronti , a svincolarsi da politiche degli ultimi decenni basate solo su accaparramento delle risorse con acquisizioni di concessione o dei mercati e mettere in atto nuove strategie, puntando su innovazione tecnologica di cui i mercati attuali cmq si serviranno.Per i mercati emergenti in particolare Africano,attuando una nuova politica, non più colonialista ma fornitore di servizi e attrezzature tecnologicamente avanzate.saranno invece prodotti di riferimento per il loro sviluppo
Per questo servono anche uomini nuovi, che abbiano la conoscenza degli apparati nonché delle necessarie interazioni tra politica e strategia ,ma che non ne fanno parte e quindi liberi di seguire “nuove direttive”che la politica, mi auguro Europea , vorrà dare. Io ci sono.
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23 MARZO 2020
La paura ci dice che siamo uguali, ma che ci salveranno le differenze
di Ortensio Zecchino
Mai l’uomo si è trovato così uguale ad ogni altro, come in questa circostanza: uguaglianza nell’appartenenza alla specie umana. La morte, si dice, rende uguali e ‘La livella’ di Totò ce lo ricorda. Ma la morte induce solo un astratto pensiero di uguaglianza, perché è evento troppo singolare, che non si può condividere con chi ormai non c’è più. Vivere il tempo di un’epidemia globale ci fa invece sentire uniti tutti come anelli viventi della catena umana. Per sconfiggere il virus siamo costretti a isolarli materialmente, ma gli anelli restano ancor più uniti virtualmente e, aggiungerei, spiritualmente, come ben dimostra l’esperienza di questi giorni.
L’umanità nella sua storia ha vissuto tante epidemie. Le due più note e, forse, più gravi, la peste nera del 1348 e la spagnola del secolo scorso, pare che siano venute entrambe dalla Cina. Anche allora il virus viaggiava, se pur con minore velocità ma, dove arrivava, si diffondeva facilmente per le cattive condizioni igieniche, e non solo.
Ma allora ogni realtà viveva la ‘sua’ epidemia inconsapevole di quanto fosse accaduto o accadesse altrove.
Oggi siamo tutti nell’inedita condizione di vivere tutto in assoluta contemporaneità e condivisione. La pandemia mondiale ci rende tutti sempre più uguali e contigui perché le interconnessioni sono tali che ormai nessuna barriera può spezzarle e assicurare chiusure ermetiche. Tutto ciò deve indurci ad alcune considerazioni.
Le esperienze passate, pur diversissime, possono insegnarci qualcosa. La terribile peste del 1348 – che ebbe una diffusione larga, ma non planetaria - trovò terreno facile in realtà afflitte, non solo da cattive condizioni igieniche, ma ancor più da una grave carestia causata dall’instaurarsi, agli inizi del secolo, di quella che è ormai definita ‘piccola era glaciale’. Questa condizione fece sì che, dove penetrata, l’epidemia si diffondesse con irrefrenabile velocità e virulenza. Nel mondo ‘interconnesso’ di oggi, se dovessero realizzarsi condizioni climatiche avverse (e la prospettiva non è solo fantascientifica) l’insorgenza di pandemie, oggi inevitabilmente planetarie, potrebbe insidiare l’esistenza stessa dell’umanità, come non avveniva nel mondo ‘sconnesso’ di un tempo.
E questa considerazione, banalmente evidente – ma, almeno in apparenza, ignorata dall’obnubilamento di popoli e governanti – dovrebbe da sola bastare a farci capire che le singole, piccole realtà nazionali sono impari rispetto alle sfide globali, di fronte alle quali, ineluttabilmente e implacabilmente, saremo posti con sempre maggiore frequenza.
Un’ultima considerazione, in tema di uguaglianza, s’impone guardando alle vicende di questi giorni. Le nostre democrazie sono entrate in affanno perché i loro meccanismi sembrano non reggere di fronte alle pressanti esigenze, molto indotte dalla rete, di più alti livelli di uguaglianza. Queste esigenze sono sempre state presenti e vive nella storia dell’umanità. La modernità per soddisfarle è approdata prima al modello di Stato liberale e, più recentemente a quello di Stato sociale, che ha reso più sostanziale l’uguaglianza, aprendo la stagione dei diritti sociali. Oggi anche questo assetto è diventato precario, senza che all’orizzonte se ne intravedano nuovi e più adeguati. Ma la pandemia una cosa sta mostrando: la pericolosa inconsistenza di talune scorciatoie, come quelle offerte dalle teorizzazioni populiste dell’uno = uno. Assolutizzando il concetto di uguaglianza, queste teorizzazioni hanno preteso di decretare un indifferenziato livellamento, in sé negatore d’ogni diversità, anche di quelle fondate sulle competenze, in politica, a torto ritenuta mestiere improvvisabile, e finanche nella scienza, anch’essa regno di un auspicato ugualitarismo, in cui ogni voce dovrebbe avere pari diritto di cittadinanza, tanto che si è preteso di far passare ‘antivaccinismo’ e ‘vaccinismo’ come posizioni ‘ugualmente’ legittime.
Uno = uno è verità indiscutibile dal punto di vista del valore dignità, ma non è principio adottabile nell’organizzazione delle nostre società complesse, dove ognuno per rendere un valido servigio a tutti deve avere competenze acquisite nella progressione di esperienze e di studi: in politica, nelle scienze, nelle attività produttive, nelle professioni (come faremmo senza personale sanitario all’altezza delle sfide che stiamo vivendo? E potremo mai vincere il virus senza affidarci alle elites della ricerca biomedica?).
Verità, queste, che, mutatis mutandis, la saggezza antica aveva condensato nel cosiddetto Apologo di Menenio Agrippa.
(pubblicato su Il Riformista in data 20 marzo 2020)
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23 MARZO 2020
Connecting Polis Europa
di Paolo Zanenga
1- I poli di connessione della prima Europa
Nell’anno 529 hanno luogo due eventi che segnano la storia: Giustiniano chiude dopo nove secoli di vita la Scuola di Atene, fondata da Platone nel 387 a.C., creando una significativa cesura, se non una fine, nella storia della filosofia classica. Vengono anche ritirati i testi di 36 generazioni di filosofi. Più nessuna opera rimane in circolazione, lasciandone sopravvivere solo una piccola parte grazie alla tradizione indiretta di personaggi come Agostino, Boezio, e altri (1).
Nello stesso anno, Benedetto da Norcia fonda il monastero di Montecassino. I due episodi non sono collegati, ma la loro sincronicità invita alla riflessione.Daun lato un’autocrazia interrompe dall’alto del suo potere un percorso culturale durato secoli; dall’altro, iniziative molto più umili, partendo da una visione ben diversa del mondo e dei suoi “loci”, inizianodal basso a tessere una nuova tela (quella del monachesimo occidentale) che, anche favorendo una rinnovata, lenta metabolizzazione della cultura classica nella società altomedioevale, ricostruisce nei secoli successivi la base della cultura e dell’economia dell’Europa, la stessa Europa che conosciamo oggi.
Credo che il messaggio che ci viene da un tempo così lontano suggerisca alcuni paralleli con la situazione contemporanea.
Il monachesimo nasce e si sviluppa in Occidente come un tipico fenomeno di resilienza. La crisi dell’Impero d’Occidente, le migrazioni di popoli che non condividevano la tradizione culturale greco-romana, la consistente riduzione demografica e l’abbandono di città e terre coltivate, delineano una crisi di grandi dimensioni, i cui prodromi risalivano amolto tempo prima. In questo panorama, i movimenti monastici si distinguono per la loro attenzione alla cultura e al lavoro.
Il miracolo dell’Alto Medioevo, di cui i monasteri sono stati a lungo i principali protagonisti in un ambiente difficile e spesso ostile, è stata l’incubazione e la genesi di una cultura, quella europea occidentale, che specie dopo l’anno Mille ha sviluppato una dinamica formidabile.Un miracolo anche perché si partiva da una situazione di naufragio materiale e istituzionale senza precedenti; tuttavia, si seppe portare a sintesi armonica imponenti risorse culturali del passato in forme nuove.
Decisivaquindi nella formazione della prima Europa è stata la dimensione di rete: la distribuzione e i collegamenti tra punti di riferimento come i monasteri, ha portato alla formazione di sistemi straordinariamente fertili, capaci di sviluppo sia per auto-riproduzione, sia per evoluzione trasformativa indotta dalle continue (anche se rare e lente per i nostri standard) contaminazioni reciproche. Il loro sviluppo ha portato alla prima forma di identità e di coscienza comune europea, e ha favorito lo sviluppo successivo di altre reti: le leghe di città, le università, gli ordini cavallereschi, le fiere commerciali, e più tardi la finanza.
In questa prima Europa i poli territoriali, pur intensamente identitari, non sono chiusi, la logica dei confini non è prevalente, e non lo sono neppure le differenze linguistiche. Se osserviamo lo sviluppo di un grande movimento culturale come l’architettura romanica, noteremo che la sua diffusione si collega alle grandi vie di pellegrinaggio, come le vie francigene, dirette a Roma, o il cammino di Compostela. La geografia dell’uomo medioevale non è territoriale ma polare, ed è in questo quadro che il senso di communitas emerge e disegna uno spazio che oggi definiamo europeo.A fronte di una produzione economica prevalentemente legata alla terra, così come la maggior parte della popolazione, emerge una “rete neurale” che inventa le proprie sinapsi, destinate a rappresentare dei riferimenti fondanti per la costruzione della cultura europea successiva: oltre ai monasteri, le scuole cattedrali, le commende, i fondachi, le “città libere” (liberi comuni, Freie Städte,bonnes villes...).
La sovrapposizione a queste reti di nuove entità, caratterizzate da un controllo territoriale più forte e definito, caratterizza la formazione delle istituzioni pre-moderne e moderne.
2- L’emersione della modernità e la fine delle “prime reti”
È interessante cogliere come questa formazione si articoli in processi interconnessi e tali da sostenersi mutuamente: religiosi, politici, economici, culturali, giuridici. La trama comune consiste in una diversa Weltanschauung, che gradatamente prende corpo. Il carattere di questa trasformazione, utilizzando un concetto che appartiene alla contemporaneità, è: riduzionismo, cioè capire, teorizzare, giudicare, governare, partendo dalla separazione del sistema mondo e dall’isolamento di “oggetti”.
Mi sembra che si possano definire tre fasi principali con cui questa Weltanschauung dei moderni emerge e cresce, più una quarta, tuttora in corso, in cui si incrina.
La prima fase parte da alcune discontinuità avvenute già nel pieno medioevo (XI e XII secolo), che sfociano in una grande trasformazione nel periodo critico1250-1350. È la fase che accompagna l’Europa verso quello che Huizinga ha chiamato “autunno del medioevo”.Nella fase espansivadel periodo 1000-1200, le proprietà feudali erano in simbiosi con i nodi delle reti in crescita, che erano funzionali allo stesso sfruttamento e valorizzazionedei fondi. Dopo il fallimento del grande esperimento visionario di Federico II, e con l’insorgere di una crisi di risorse dovuta forse a una crescita demograficain spazi ormai saturati, con la comparsa di carestie frequenti, si esaspera la volontà di controllo di chi detiene posizioni di potere, generando conflitti e separazioni che sboccano in nuove forme istituzionali, nelle quali il territorio non è più solo una proprietà, ma un riferimento di potere politico (signorie in Italia, domaine royale in Francia). Questo fenomeno, combinato con l’ereditarietà delle proprietà feudali, spinge alla modifica,e spesso alla frammentazione, di identità territoriali formatesi in secoli di evoluzione regionale locale. Contemporaneamente, il conflitto tra papato e impero delegittima proprio le istituzioni che dovevano essere fonte di legittimazione.
La frammentazione della ”rete europea” non ne incrementa la diversità culturale, ma in genere la diminuisce, perché vi corrisponde una volontà di omologazione interna ai nuovi domini: minoranze religiose e linguistiche vivono una prima fase di repressione, e a volte di genocidio; caso tipico è l’area occitana, in cui la crociata contro gli Albigesi non rappresenta solo una forma di repressione religiosa e sociale, ma blocca lo sviluppo di una cultura all’epoca moltopromettente. Le strutture reticolari sono poste sotto controllo o annullate: i monasteri perdono potere, importanti ordini cavallereschi, come i templari, sono soppressi; la stessa cattività avignonese del papato testimonia l’emergere di un proto-stato come quello francese. Il potere territoriale tende a organizzarsi per colmare i “vuoti”, perciò impone il suo controllo su aree primagovernate secondo antiche consuetudini. A volte questo non riesce: il patto del Rütli, che simboleggia la nascita della prima Confederazione Svizzera, ne rappresenta l’episodio più noto.
L’accelerazione dello sviluppo dell’economia monetaria (coniazione del primo fiorino d’oro a Firenze nel 1252) contribuisce a rendere più estesi e complessi i rapporti finanziari; il parallelo sviluppo di pratiche speculative e dell’usura solleva l’interesse e la valutazione dei contemporanei, primo tra tutti Tommaso d’Aquino.
La necessità di controllo verticale investe anche la cultura: dapprima diminuisceil sincretismo e la creatività mitopoietica del mondo cristiano altomedioevale (testimoniato dalle rappresentazioni fantastiche del romanico e dalla letteratura epica), frenati dalla “sobrietà” di cistercensi e domenicani, dall’altro è sempre più frequente nell’autorità religiosa la preoccupazione di stabilire dogmi, di fare distinzioni tra ciò che va bene e ciò che è eresia. Il conseguente inaridimento della cultura dei chierici apre la strada a una cultura laica, che ricostruisce una propria mappa del mondo in chiave più soggettiva, e in certo modo fonda la modernità.
La violenta riduzione demografica causata dalla Peste nera a metà del ‘300 chiude questa fase, e apre uno scenario in cui le innovazioni dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, porteranno a definire lo spazio del territorio moderno e a metterlo a disposizione dei nuovi poteri emergenti: la delicata Gemeinschaft medioevale si dissolve nel culto del detentore del potere politico, ben rappresentato dal Principe di Machiavelli.
La seconda fase formativa della modernità è quella “classica”: parte alla fine del ‘400, con l’apertura delle rotte oceaniche e la diffusione della stampa, che creano la prima globalizzazione, e anche la prima omologazione; si concluderà con Westfalia (1648). È un nuovo ordine in lotta con il passato e con il futuro: si bruciano le streghe, portatrici di una sopravvissuta cultura pagana, e si brucia Giordano Bruno, che con straordinaria capacità visionaria anticipa un’idea di universo vicina alla nostra. La signoria si sostituisce a papato e impero e si autoproclama stato. Alla pace di Augusta (1555) si decide che “cuius regio, eius religio”. La stessa chiesa romana si è da tempo configurata come una signoria e poi come uno stato, e l’impero è diventato una confederazione di principati germanici.
Riforma e Controriforma, primi prodotti della Galassia Gutenberg, generano dei fondamentalismi, rivoluzionari verso il passato, reazionari verso il nuovo, intrinsecamente conflittuali, che sboccherannoin quel periodo turbolento e terribile chiamato Guerra dei Trent’anni, iniziato come guerra di religione e finito come guerra tra stati. La pace di Westfalia fonda la statualità moderna, che nasce anche come spazio di normalizzazione del conflitto religioso.Richelieu può creare il nuovo modello di stato assoluto, dopo che Cartesio col Discorso sul metodo (1637) aveva descritto il contesto cognitivo su cui poteva poggiare, e prima che la pubblicazione del Leviatano diHobbes (1651) gli conferisse un telaio concettuale.
La terza fase inizia con la Rivoluzione Francese e termina con le guerre mondiali del ‘900. Lo stato di Westfalia è ormai abbastanza consolidato da poter eliminare la sua testa, il suo “primo stato”, la fonte da cui è nato, l’aristocrazia, ancor prima che fosse reso obsoleto dalla Rivoluzione Industriale. Dai “tre stati”, si passa definitivamente a una concezione integrale dello “stato”. Si elimina con l’aristocrazia anche una classe europea internazionale, trasversale ai singoli stati, una rete la cui mancanza rende la conflittualità tra le nazionisempre più radicale, fino al macello della Prima Guerra Mondiale e alla catastrofe della Seconda.
Dopo che Cartesio aveva separato il soggetto dall’oggetto, Kant definisce la conoscenza possibile come conoscenza di oggetti. Ne seguono derive interpretativeche portano all’espulsione dal dominio del “reale” di tutto ciò che non è “oggetto”. La filosofia, la scienza, il diritto dell’800 e del primo ‘900 diventano discipline “positive”, così come le nuove scienze sociali: economia, sociologia, antropologia, psicologia, estetica vanno a formare un contorno rispetto al nocciolo delle scienze naturali, la cui positività era – oggi diremmo a torto - data per scontata (2). In particolare l’economia positiva ritiene di poter definire dell’uomo (homo oeconomicus) siai comportamenti (razionali), sia i bisogni (in parte definiti “di base”) e gli interessi, secondo un misto di materialismo e di istanze etiche di cui possiamo trovare le tracce già nella prima di queste tre fasi, per esempio negli scritti dell’Aquinate. L’economia nasce come economia di scarsità: questo ne condiziona i criteri e i concetti, e influenza enormemente la politica. Lo stato, nato nel Medioevo come spazio di potere spesso violento e predatorio, pur continuando anche nei tempi moderni a basarsi sul controllo della violenza legittima, assurge a garante dei diritti e dell’etica.
Si compie in questa fase anche il passaggio dal latino, fattore culturale unificantefin dall’antichità, alle lingue nazionali: nell’800 e soprattutto nel ‘900, le lingue moderne diventano un carattere costitutivo e fondante degli stati nazione, sono quindi imposte inun processo che sopprime le lingue minoritarie ed esaspera i nazionalismi, anche attraverso vere e proprie costruzioni politiche e propagandistiche artificiose, come i vari Kulturkampf. La cultura raffinata e cosmopolita del ‘700 è sostituita da programmi di istruzione popolare spesso artefatti, manipolati e omologati, funzionali al potere degli stati e propedeutici a forme di democraziache scivolano facilmente nei totalitarismi.
Nonostante tutto questo, la cultura alta in Europa continuò a rimaneresempre unarete internazionale molto efficace. Gli scienziati, e soprattutto gli artisti, continuarono a costituire comunità in continua contaminazione, in grado di creare sia movimenti intellettuali, stili, estetiche, siaeventi più popolari e coinvolgenti,come le esposizioni internazionali e le manifestazioni sportive. Queste reti sono sempre rimastenon solo trasversali rispetto ai diversi stati, manon hanno mai smesso di recuperare fonti del passato per rilanciare nel futuro nuove prospettive. Chi oggi pensa assurdamente che l’Europa non esista, dovrebbe ricordare che le discipline scientifiche e sociali studiate oggi in tutte le accademie del mondo sono nate in Europa, e spesso, per esempio l’antropologia, in dichiarata contrapposizione tra l’Europa e il resto del mondo. L’identità europea forse può sfuggire agli europei nostri contemporanei, ma è molto chiara negli altri continenti, dove viene tuttora fruita – e anche subita.
III. La crisi dell’”Europa moderna” e l’emersione delle nuove reti
Mentre dopo la Guerra dei Trent’anni l’Europa conservò la leadership globale da poco conquistata, dopo la Seconda Guerra Mondialel’aveva persa, anche se rimaneva parte importante di un “mondo occidentale” la cui centralità era passata al Nord America. Il ridimensionamento dell’importanza dei singoli stati europei è cosa nota. Ciò che vale evidenziare è che il mondo nel frattempo tornava a essere un mondo di reti, più che un mondo di stati territoriali. Il ruolo degli Stati Uniti come polarità dominante nelle reti globali è, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, prevalente sul fatto di essere anche un grande paese, di dimensioni continentali.
Le reti principali dell’era contemporanea sono quella finanziaria e quella tecnologica, soprattutto quest’ultima, che costituisce sempre piùl’indispensabile infrastruttura della prima. Vi erano 7,3 miliardi di dispositivi connessi nel 2015 (3), ma il loro numero aumenterà di diversi ordini di grandezza con l’Internet delle Cose. Questo porta a generare flussi enormi e crescenti di dati (big data), che vanno a costituire l’ossatura sia della conoscenza fruibile, sia dei patrimoni finanziari. La tecnologia è pervasiva, dunque non è più territoriale, per la prima volta nella storia. La produzione non è più localizzata, e quindi anche i meccanismi fiscali in grado di sostenere il ruolo sociale degli stati territoriali sono ridotti a una condizione precaria e conflittuale.
Questo nuovo scenario emerge da un complesso sviluppo scientifico e culturale, che dai primi del ‘900 ha svoltato radicalmente, rispetto alla Weltanschauung positivista. Le rivoluzioni scientifiche, la revisione profonda dell’idea di matematica, gli sviluppi nelle scienze della cognizione e della vita, accompagnati da un’evoluzione della tecnologia che ci fornisce nuovi occhi e nuovi sensi rispetto alla realtà, hanno creato uno scarto larghissimo rispetto alle premesse filosofiche costitutive degli stati moderni, che sono più che incrinate. Questo scarto si è creato tra le scienze naturali e la tecnologia da un lato, non più deterministiche e non più legate all’idea di legge naturale, e discipline come l’economia e il diritto dall’altro, rimaste ancorate a un’idea positivista del reale, e ancora -ovviamente - basilari nell’orientare l’azione e il senso stesso degli stati.
Prendere coscienza di questo scarto è una grande e grave responsabilità delle classi dirigenti della nostra epoca. Oggi infatti il potere legislativo e normativo opera all’interno di un nomos non più legittimato dalla sfera scientifica, filosofica e culturale, se non attraverso rappresentanze formali ormai culturalmente quasi sterili. Viene in mente Platone, e la sua idea del governo dei filosofi. Il vero compito del governo (giuridico, politico, economico) sembra consistere nel saper riconoscere la realtà di un nomos che svanisce e di un nomos che sorge; compito evidentemente di filosofi.
L’incapacità del diritto positivo di uscire dal suo bozzolo è riconducibile sia a una colpevole rinuncia a una rinnovata consapevolezza del reale e a una sua nuova mappatura; sia a un’effettiva situazione di vertigine quando principi entrati nella cultura comune, come il carattere “erga omnes” della legge, contrasta con una nuova visione che fa a meno di dimensioni come l’”oggettivo” e l’”universale”. Ci può essere un “erga omnes” non totalizzante? Questa è la grande sfida della contemporaneità.
Simili considerazioni valgono per altre dimensioni dell’ordinamento: oltre che per il diritto, sicuramente per l’economia.
L’altezza della sfida non deve indurre a rifugiarsi in vuote generalizzazioni normative, che si moltiplicano in modo vano se devono rispondere a sistemi di maggior complessità: sembra il caso nel passaggio del sistema giuridico e legislativo dal livello nazionale (già straordinariamente farraginoso) al livello europeo. Se a una maggior complessità si risponde con una maggior complicazione, vuol dire che stiamo affrontando la complessità con modelli inadeguati, che ci sprofondano nel labirinto di Borges.
Questa inadeguatezza lascia campo libero a una polemica secolare tra una cultura basata sullo sradicamento della norma e sul formalismo astratto, contrapposta a una concezione vetero-europea che trova la propria specificità nel radicamento originario sul suolo, omogeneità concreta di una comunità che mette al lavoro la terra contro l'omogeneizzazione astratta del dominio dei mercati e delle industrie (4). È un contrasto in grande evidenza nell’Europa attuale, un residuo non risolto dai conflitti del ‘900, e non risolto, anzi colpevolmente strumentalizzato, dalla politica contemporanea: un conflitto che occorre superare al più presto, proprio come quattro secoli fa superammo le guerre di religione.
È urgente porre al centro non solo una nuova “mappatura” del reale - da cui desumere nuovi valori, diventare coscienti di nuovi patrimoni, stabilire nuovi riferimenti su cui si possa riconoscere una società europea - ma anche una capacità di “mappatura permanente”, di continua destrutturazione e ricostruzione, che sola può garantire i valori primari e fondativi della vita rispetto ai diversi Gestell, alle diverse gabbie, antiche e nuovissime, continue promesse di infelicità e di morte.
Un ordine che coniuga armonia e libertà, il cosmo dei classici, non nasce già definito, ma è il frutto di una continua e libera ricerca, di una scholè, attraverso cui scoprire le tracce di bellezza, che forniscono la trama a tessuti in estensione (5). È il modello dei processi cognitivi e vitali.
3- Una nuova scholèper l’Europa
Scholè, otium in latino, denota quello spazio della vita e delle attività umane libero da costrizioni e contingenze, svincolato dalla necessità e dal quotidiano, alimentato dall’energia dell’Eros e diretto da una nous libera da scopi predeterminati. È definita dal suo contrario (ascholia, negotium), richiamato fin dai tempi omerici nel mito di Sisifo, uomo che usa la sua mente come strumento di guadagno e vantaggio personale, e che finisce col vivere condannato a fatiche eterne, prive di ogni dimensione “erotica”, intellettuale o morale. Le forze che riducono Sisifo in schiavitù tendono continuamente, anche oggi, a comandare l’ingegno umano e a strumentalizzare le passioni umane. Disse Aristotele che le repubbliche incapaci di vivere una vita di scholè sono destinate al collasso (6).
Una vita di scholè ci protegge dunque dalle molteplici trappole che insidiano la nostra libertà, trappole in primo luogo culturali, epistemiche, dovute all’incapacità di rapportarsi col reale che nasce dall’ascholia.
Per questo al centro di ogni polis, anche di “Polis Europa”, dovrebbe esserci una scholè, un luogo di rigenerazione continua della conoscenza, di aggiornamento delle mappe, di ricostruzione dei modelli e delle narrazioni, di raccolta delle sensazioni e dei sentimenti generati dai viventi, di rielaborazione delle eredità del passato, di ordinamento armonico, in una parola di creazione dell’essere.
È molto difficile convincere chi è coinvolto in un flusso che avvolge tutto il suo presente all’epochè, alla sospensione. È difficile convincere il criceto a scendere dalla sua ruota, salvo che la ruota non s’incagli.
Oggi possiamo osservare come una grande ruota si stia incagliando, e stia palesando l’insensatezza dei modelli e delle narrazioni dominanti. Alla crisi dei modelli economici classici, non più in grado di remunerare capitale e lavoro, anzi non più in grado nemmeno di generare impieghi plausibili di capitale e tanto meno di generare occupazione, corrisponde una progressiva incapacità degli stati di assolvere le proprie funzioni sociali e giuridiche, col rischio di scivolare verso una crisi istituzionale di portata epocale.
È sicuramente possibile uscire da questo rischio, perché la crisi non è di risorse, non è di mancanza di alternative, ma puramente epistemica e culturale. Nuovi modelli, che sono grandiosi e promettenti,A fronte di questa situazione, stanno già emergendo ma richiedono un nuovo nomos, in nome di un superiore livello di civiltà e responsabilità. Lasciare solo all’intelligenza della tecnologia questo compito (la tecnologia evolve come una mente collettiva, non è governata ma governa, non è uno strumento ma un paesaggio, è lo snodo tra i mondi individuali e il “mondo”) (7) potrebbe condannarci di nuovo al destino di Sisifo.
Di fronte al nuovo paesaggio tecnologico, possiamo avere diversi comportamenti:
- illudersi di strumentalizzarlo ed esserne stritolati, in una deriva ancor meno sostenibile di quella industriale
- rigenerare cultura, valori e saperi a un livello anche più alto rispetto al passato.
Questa seconda è la via della scholè-otium, la prima è quella del negotium.
Una scholè per Polis Europa dovrebbe costituire una nuova porta cognitiva, un cammino di educazione nuovo e senza tempo, un ponte tra gli immensi patrimoni sedimentati nel nostro continente e l’era incombente dei paradigmi mutanti, con la sua complessità e le sue molteplici promesse di “inaspettato”.
4- Horizon 2020 (e oltre)
Come potrebbe profilarsi un nuovo nomos europeo, che ovviamente potrebbe costituire un modello di interesse globale?Possiamo già rilevare alcune tracce di cui tener conto.
Un tema evidente è quello dei confini, del limes. Fattore fondante degli stati territoriali, la loro abolizione fisica col trattato di Schengen, rimane una conquista forse piccola, ma positiva dell’Unione Europea. Rimangono come delimitazione delle attività sociali ed economiche su cui si esercita la giurisdizione dei vari stati, anche questa in parte sostituita da quella europea, e comunque in prospettiva affievolita nella sua importanza dal declino delle economie basate su beni tangibili e produzioni localizzate: finanza e tecnologia ignorano questi confini. Altro discorso è quello del confine esterno, del limes, mai come oggi paragonabile al limes dell’Impero Romano, e oggi come allora fonte di inefficacia, di costi, di crisi, di frustrazione. L’Europa non ha mai vissuto questo come un problema fino a che è rimasta in espansione. Dai tempi delle espansioni commerciali, mercantiliste, coloniali, il limes non esisteva, quello che contava era un sistema in espansione, una polarità egemone al centro di reti molteplici. Ci si accorge del limes quando ormai si è sotto assedio.
L’inversione di questa situazione è possibile se l’Europa torna a essere un polo di creazione dinamica di conoscenza, uno hub di sistemi complessi. Non è possibile ricostituire rapidamente un sistema di potere perduto, e probabilmente non sarebbe neanche augurabile. È però possibile, come al tempo dei primi monasteri, ricreare dei poli che si distinguano non per dimensioni, ma per eccellenza qualitativa, libertà e capacità di sperimentare il nuovo. Occorre creare un’identità non dipendente da confini.
Un altro tema interessante è l’evoluzione del concetto di cittadinanza. Forse un europeo del XXI secolo merita qualcosa in più della semplice cittadinanza. La traccia da seguire è quella dell’appartenenza multipla, della contaminazione tra identità molteplici, del riconoscimento a ogni persona di una sfera che si estende oltre la sua fisicità, che gli offre possibilità di scelta nel costruire se stesso, in quanto elemento costitutivo e costruttivo di reti, e non “soggetto” a un sistema, statuale o di altro tipo.
Terzo tema, importantissimo per l’Europa, è quello della diversità. E viene subito in mente la questione della lingua. I poteri verticali hanno sempre utilizzato l’omologazione linguistica come strumento di potere. Richelieu ha creato l’Academie Francaise già nel 1635, prima di Westfalia, e ha consolidato la lingua francese come un patrimonio nazionale, ma anche come un fattore di unità e identità dello stato.Il prezzo pagato è stato la perdita progressiva delle lingue regionali, poi parzialmente recuperate da movimenti successivi, sia nella fase romantica, sia nella contemporaneità.
In un mondo che si costituisce come polarità nelle reti, la diversità è una ricchezza inestimabile. Le lingue europee, nella loro diversità e nella loro profondità storica, offrono a questa parte del mondo un grande vantaggio. Chi pensa che l’Europa non esista perché non ha una lingua comune, ha un’idea bassa della società e delle persone. L’esempio del Tirolo è tipico di una regione con una forte identità, comprendendo al suo interno tre lingue maggiori (tedesco, italiano, ladino), e altre minori (mocheno, alemannico). La Svizzera è un altro grande esempio.Lingue diverse significano modi di pensiero diversi, e quindi disponibilità di approcci multipli all’esplorazione del reale.
Ovviamente è fondamentale la disponibilità di lingue franche, trasversali, come oggi sicuramente è l’inglese (o meglio il globbish, il global english). L’acquisizione fin dall’infanzia di strumenti linguistici multipli acuisce il potenziale intellettuale e culturale della persona, e favorisce la multi-appartenenza. Uno standard europeo ragionevole potrebbe includere la conoscenza di almeno altre due lingue, oltre alla propria lingua madre e all’inglese.
L’idea di Polis Europa poggia quindi sulla capitalizzazione della diversità attraverso la creazione di luoghi di collegamento, di ponti, tra universi differenti, in cui fondare officine, “atelier”, di creazione di conoscenza. Il concetto fondamentale è il riconoscimento della conoscenza situata nelle reti, fluida, in continuo cambiamento e creativa di nuova conoscenza attraverso processi di contaminazione; è un concetto alternativo a quello di conoscenza universale, quasi statica, impacchettabile e trasferibile, come avviene nell’istruzione che conosciamo e pratichiamo nelle scuole e nelle aziende. Nel mondo dei paradigmi mutanti delineato dalle tecnologie pervasive, i dati, le informazioni, sono una risorsa abbondante, anzi soverchiante rispetto a ogni tentativo di contenerla e trasferirla. Il processo valoriale è quindi proprio quello della scholè, centrato sull’esplorazione e la creazione: le missioni di scuola, impresa e territorio, separati funzionalmente e istituzionalmente nella modernità, tornano a convergere in un sistema complesso armonico, “bello” e generativo.
Poli di questo tipo, a cominciare dalle regioni e dalle città più consapevoli, possono creare una rete, uno spazio interattivo e generativo, che caratterizza Polis Europa, ne capitalizza il patrimonio di diversità e rende alla cultura il suo valore strategico: non attività marginale tra le altre, ma telaio e motore dello sviluppo civile ed economico.
Questo nuovo modello di Europa non chiede di essere misurato, ma si propone come generatore di nuove misure, come modello per il mondo.
5- Una proposta per prossimi approfondimenti
Gli stati hanno fatto la storia dell’Europa, almeno dal 1648 fino al 1945. Poi sono emerse reti più potenti, più efficaci, più generative. Gli stati europei hanno pensato allora, come tutto il pensiero dominante indicava, che il problema fosse di scala, quantitativa. USA e URSS erano più grandi degli stati europei, e quindi l’Europa doveva unirsi per diventare un grande stato. Le problematiche erano complesse, perché un processo di unione è sempre una perdita di potere, o almeno di compromissione del proprio modello con quello di altri. Ricordiamo che l’opposizione di De Gaulle all’ingresso del Regno Unito in Europa era legata a vari fattori, tra cui la concezione diversa dello stato sociale. Allora il pensiero positivo trionfava ancora, l’idea di sistema complesso era nelle menti e sui tavoli di un’intelligenza che influiva poco o niente sulla politica, ancora ferma alle ideologie. L’Unione Europea è nata e si è sviluppata in una logica additiva, non moltiplicativa, generativa. A ogni passo in avanti corrisponde da parte di qualcuno qualche passo indietro, il concetto di negoziato finisce per focalizzarsi sui dettagli e perdere la visione strategica. Un’unione tra enti generati da una cultura di separazione rende tutto straordinariamente lento e complicato, e produce istituzionicomplicate, in cui la preoccupazione da parte di singoli stati, specialmente i maggiori, di perdere il controllo, è molto evidente.
Nella storia del pensiero occidentale, alla visione deterministica e riduzionista ha fatto da contrappunto, in tutti i tempi, una sensibilità più inclusiva e aperta, manifestata da molti pensatori. Il pensiero di Nicola Cusano, lontano nel tempo ma vicinissimo nello spirito, ricordato e illustrato in questa conferenza, rappresenta questa corrente, spesso costretta a diventare sotterranea, ma oggi emergente in un nuovo Zeitgeist. Ci suggerisce un approccio diverso, forse non alternativo a quello percorso finora, ma certamente diverso è più fertile. L’Europa non è una somma di stati, ma – diremmo con termini contemporanei – un sistema emergente, un ecosistema, in cui la diversità delle sue componenti, delle nationescome dice Cusano, interagisce in modo generativo. Questo è stato anche il carattere delle “polis” che nella storia d’Europa hanno creato i modelli che caratterizzano una cultura fondamentalmente unitaria.
Oggi, nel nuovo spazio delle reti, le città e le regioni d’Europa possono costruire con la loro storia, la loro identità, il loro talento, le loro reti, la “Polis Europa” e dotarla del suo patrimonio naturale.Le euroregioni in formazione oggi sono embrioni di questo carattere complesso e interattivo della Polis Europa: si costituiscono giustamente su considerazioni di carattere naturale e geografico, ma anche storico e culturale. Nella nuova dimensione dei paradigmi mutanti, non solo la concezione dello spazio, ma anche quella del tempo si modifica: ogni regione è quello che è, ma anche quello che è stata in ogni tempo, perché ogni momento della sua storia accresce il suo patrimonio, non solo la sua condizione presente.
La formazione delle euroregioni risente però del carattere di territorio definito per motivi amministrativi delle sue componenti regionali o subregionali, e questo è un limite. Sarebbe interessante definire le euro regioni come poli senza confini rigidi, e con possibilità di attrazione e integrazione di partner secondo logiche multiple, non solo territoriali, ma anche di altro tipo.
Il passaggio dal concetto di identità territoriale al concetto di identità polare apre ulteriori possibilità. Potremmo definire come poli della Polis Europa non solo territori identitari, ma anche città, strade, campi di studio, scuole e movimenti d’arte, infrastrutture chiave, sistemi imprenditoriali, parchi naturali, centri scientifici, e creare stratificazioni multiple di spazi, di significati, di valori, di concentrazioni di capitale. Un sistema complesso non si definisce come somma di parti e parte di sovrasistemi, ma come “emergente”: quindi pari dignità e identità per una città e per la regione di cui fa parte geograficamente, senza sovraordinamenti, sostituiti da multiappartenenze, e così via per tutti gli altri poli. Ogni polo è portatore di una conoscenza situata, ha una storia, ha un sistema di relazioni, ha un potenziale patrimoniale, e contaminandosi di continuo con gli altri, produce nuova conoscenza, si struttura come piattaforma, come storia, come patrimonio, offre a “poli di regia”la possibilità di identificare nuovi attori, mappare relazioni, facilitare interrelazioni e sviluppi, e curare l’integrità, l’efficacia e la misura dell’ordine complessivo.
Potrebbe essere il punto di partenza di un nuovo mondo.
Note
Paolo Zanenga, Le reti tra antichità e medioevo, tra modernità e postmodernità, in Cronache goletane, 393 9492981 Immanuel Wallerstein, Comprendere il mondo – Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo (Asterios, 2013), 97-116. Mobile World Congress 2016, at mobileworldcongress.com Giulio Itzcovich, Il Nomos della terra e la polemica con il positivismo giuridico: Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, at http://www.juragentium.org/topics/thil/it/itzcovic.htm Serge Salat, Cities and Forms: on Sustainable Urbanism (Hermann, 2011) Kostas Kalimtzis, Aristotle on Schole and Nous as a Way of Life, at http://www.ihnpan.waw.pl/wp-content/uploads/2014/10/3_kalimtzis.pdf William Brian Arthur, La natura della tecnologia – Che cos’è e come evolve (Codice 2011), 183-193.
Preparato originariamente per POLIS EUROPA
Castel Tirolo, 22-23 aprile 2016
Torna all'Appello
24 MARZO 2020
di Antonino Giannone
Scenario
Nella storia dell’Uomo le grandi organizzazioni degli Stati, alle diverse latitudini, hanno utilizzato decine di migliaia di esseri umani come servo-unità. Esempi nella storia di mega-macchine sociali sono stati: la costruzione delle piramidi dell'antico Egitto, costruite da decine di migliaia di uomini per diverse generazioni; nel Novecento, l'esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell'Urss; nel tempo della globalizzazione è il finanz-capitalismo che è considerato come la macchina sociale che ha superato tutte le precedenti, compresa quella del capitalismo industriale. È evidente, a tutti, l’estensione planetaria del finanz-capitalismo e la sua capillare penetrazione in tutti i sottosistemi sociali, in tutti gli strati della società, della natura e della persona. Non possiamo non ammettere che il finanz-capitalismo abbia come motore non più la produzione di merci, ma il sistema finanziario stesso. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro, in un crescendo patologico che ci appare sempre più fuori controllo. Tutto ciò è accaduto come naturale conseguenza dell’abolizione della Legge Steagall Glass Act (1997- Bill Clinton), che ha sovvertito definitivamente il principio del N.O.MA. (Non Overlapping Magisteria). Questo principio, da secoli, riconosceva il predominio della Politica nel fissare gli obiettivi, mentre l’Economia e la Finanza erano gli strumenti per raggiungerli e l’Etica era il terzo pilastro per garantire l’equilibrio del sistema. La situazione con la globalizzazione si è capovolta e la Finanza domina il sistema, la Politica è succube e l’Etica è debolissima se non assente!
Unione Europea ai tempi del Coronavirus
In questo scenario c’è la crisi dell’Unione Europea rispetto ai principi della sua costituzione voluta da tre grandi statisti Cristiani: Adenauer- De Gasperi – Schuman. La pandemia del Coronavirus ha messo ancor più a nudo le contraddizioni nei rapporti tra i partners europei che non sono agli occhi di tutti paritetici e fondati sul rispetto reciproco. Abbiamo assistito ad atteggiamenti arroganti e irridenti nei confronti dell’Italia, sino al punto di ipotizzare che noi italiani stessimo esagerando con la chiusura della Lombardia per sottrarci ai nostri impegni lavorativi…. Abbiamo subito, per l’improvvida Signora Lagarde, capo della BCE, ad una caduta della borsa di oltre 17 punti in una sola seduta con perdite per molte decine di miliardi di euro..... Inoltre “pareggio di bilancio”, “fiscal compact” e MES (Meccanismo Europeo Stabilità) evidenziano, ormai, che non ci sono principi etici e tutela del bene comune alla base di questi sistemi e procedure che invece stanno modificando e modificheranno profondamente i principi e le fondamenta costituzionali delle Democrazie degli Stati europei.
Se i rapporti tra i partners europei non sono paritetici e fondati sul rispetto reciproco, l'Unione Europea finisce con l'essere un'espressione vuota.
Il coronavirus ha soltanto accentuato per tutti, anche per i più resistenti, la crisi delle istituzioni europee. In pratica, il coronavirusha creato i presupposti perché il dopo sarà completamente diverso dal prima. A mio avviso, pur se con differenti presupposti culturali, questa crisi dell’UE è stata “gridata” con toni e metodi che non condividiamo, da politici di destra, sovranisti e populisti; ma non è che per questo siamo indotti ad una conclusione che ci faccia condividere queste scelte di partiti politici. Certamente siamo arrivati a un punto fermo per tutti: ripensare l’Unione Europea quella dei Popoli e non delle Banche, ripensare l’Europa di tutti i Paesi con pari dignità, ripensare l’Europa senza un asse di guida preferenziale Franco-Tedesco che ha perso la sua leadership e credibilità nella Governance, ripensare l’Europa che ha addirittura “relativizzato” gli Anziani, come scarto della Società, perché sono da considerare come un peso economico per il loro elevato costo sociale. Una visione che certamente è respinta da chiunque condivida principi di umanesimo, di rispetto della dignità della persona, principi di umanesimo cristiano. Dunque, ripartiamo in tutti i Paesi dell’Europa, Insieme tra tutte le generazioni, a ripensare all’Unione Europea, riscrivendo una nuova carta di valori etici, realmente condivisi e perché no anche di valori cristiani, non rifiutando a priori di riconoscere l’origine giudaico-cristiana delle nostre comuni radici, come invece abbiamo fatto fino ad ora. Con coraggio e umiltà, virtù etiche, mettiamo al centro delle scelte politiche la persona con la sua dignità e il suo sviluppo integrale. Ridiamo Speranza e Futuro ai giovani italiani perché possano realizzare un nuovo Rinascimento nell’era digitale.
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25 MARZO 2020
Lo scatto che manca all'unione
di Michele Valensise
Oltre al dolore per le migliaia di vittime e agli incalcolabili effetti della recessione economica, il coronavirus rischia di lasciare dietro di sé un'Europa in macerie. Una buona notizia per chi persegue quell'obiettivo, più o meno dichiaratamente; una prospettiva allarmante per quanti credono che, pur tra debolezze e ritardi, il progetto europeo sia essenziale, nell'interesse dei Paesi membri e dell'Unione.
E' naturale che nell'attuale congiuntura le attese siano rivolte a Bruxelles, per un approccio comune alla sfida epocale in corso e per misure rapide ed efficaci.
L'Europa ne sta prendendo consapevolezza, ma troppo lentamente e con molte incertezze. La video-conferenze dei leader Ue di martedì pomeriggio ha prodotto qualche intesa, per il controllo delle frontiere esterne dell'Unione,il mantenimento della libertà di circolazione intra-Ue delle merci, l'urgente approvvigionamento congiunto di mascherine e respiratori. Tuttavia, l'esito della riunione è stato di ordinaria amministrazione. E'mancato, nonostante i tempi eccezionali che viviamo, un colpo d'ala capace di far sentire l'Europa vicina e partecipe. Alle critiche degli euro-scettici e dei dubbiosi di complemento si affianca la delusione di chi, consapevole del potenziale dell'Ue, deve riconoscerne la modestia dei risultati.
L'Italia ha fatto la sua parte con impegno. Ha portato l'esperienza di giornate durissime, decisioni rigorose, medici e infermieri in prima linea. Non è poco. A questo punto però è fondamentale che l'Europa risponda in concreto e rapidamente alla richiesta di solidarietà. Giuseppe Conte ha opportunamente insistito sulla necessità di titoli europei "coronavirus" e di garanzie a sostegno delle economie dei Paesi Ue più colpiti. Oltre alla Commissione, sulla stessa linea si è espressa solo la Francia, che pure qualcuno da noi accusa di oscure trame ai danni dell'Italia. Tiepida e iperprudente Angela Merkel, mentre altri rigoristi respingevano l'idea senza troppi convenevoli. La strada è in salita.
Senonché resta l'urgenza di provvedimenti, con le opportune modalità tecniche, che l'Europa non deve procrastinare. Dieci anni fa le tergiversazioni e le pastoie decisionali dell'Ue nell'intervento di stabilizzazione finanziaria in Grecia fecero lievitare enormemente per tutti il costo del risanamento. Occorre evitare l'errore di allora, tanto più che oggi le dimensioni della crisi fanno paura e impongono di ristabilire quanto prima la fiducia negli e tra gli Stati oltre che sui mercati.
Non bastano procedure e strumenti ordinari. Ci vorrebbero gesti decisi, di forte empatia. Nel 1970 a Varsavia, senza curarsi della contrarietà anche di alcuni amici, Willy Brandt cadde in ginocchio in silenzio davanti al monumento alle vittime del nazismo. Oggi in Europa nessun leader è in grado di emularlo con un messaggio così contundente e convincente. Né Macron isolato anche se evoca "la guerra" alla pandemia, né Merkel prigioniera dei tatticismi e refrattaria a scatti di audacia anche se vicina al tramonto, né altri miopi e svogliati. Eppure dovrebbero sapere che per l'Ue questa è forse l'ultima possibilità per risorgere, con consapevolezza e lungimiranza, nell'interesse comune.
(da La Stampa, 19 marzo 2020)
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26 MARZO 2020
Pensieri su una Europa in divenire
di Marita Langella
In questo momento storico in cui un nemico subdolo e invisibile, che non conosce confini, etnie e nazionalità, sembra minare le prerogative fondanti delle nostre esistenze, l’Unione Europea si trova in visibile affanno.
Ma è proprio in momenti in cui spinte centrifughe richiedono un’attenta lettura, che quanto più le divisioni sono preponderanti, che tanto più ci si appella al bisogno di unità.
La globalizzazione professata, cifra fondante della modernità, non può che suggerire un vivere comune che non soccomba ai sentimenti disgreganti.
I Padri del progetto fondativo dell’ Europa, De Gasperi, Schuman, Adenauer, erano uomini mossi da visioni alte su cui fondare il processo comunitario, una concezione antropocentrica, in cui l’uomo non si limitava a essere un individuo ma, in primis, una persona.
Risulta quanto mai moderno il pensiero di Platone il quale scriveva che solo la cura dell’anima e della dignità umana, impronta di Dio, può guidare un sentire comune e rispettare il volto di ogni popolo. In nome di una identità che non significa esclusione ma viatico per una sana integrazione sostenuta da una parola “comunicante”.
E, invece, nel quadro occidentale intriso di individualismo esasperato, esaltazione di una razionalità assolutizzata e impoverente, l’uomo è diventato mero individuo svuotato del “rango” di persona. Le società umane si disgregano allontanandosi da una condivisione di scelte e destini, per scomporsi in tanti piccoli punti. Fuorviati da una libertà insensata che nega la persona.
Al centro della riflessione non può che esserci l’uomo, da cui ripartire per riflessioni lungimiranti. Essere europei non può che significare apertura verso gli altri, partendo dall’unicità delle nostre storie e radici fondanti. Soggettività dialoganti in grado di trovare nel conflitto una spinta costruttiva verso la communitas.
Il rischio è quello di rimanere stretti in un perimetro geografico, senza valorizzare l’elemento spirituale e culturale. È invece dal rilancio di una soggettività dei popoli che il particolare può relazionarsi all’universale con consapevolezza, anelando a scenari dinamici e virtuosi.
Solo in questa ottica, forse, si può tornare ad affrontare questioni mai superate, come le diseguaglianze, le ingiustizie, le violenze, le violazioni dei diritti umani, l’instabilità e gli squilibri di un sistema finanziario sclerotizzato su logiche avulse dai bisogni reali. Per non parlare dei conflitti etnici, culturali, sociali e religiosi, eredità di un mondo bipolare post - bellico che riaffiorano carichi di quell’ideologia totalizzante e spietata.
Mentre la storia ci insegna che solo gli uomini che sanno guardare oltre il muro hanno il potere di abbatterlo.
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26 MARZO 2020
Dalla crisi dei valori alla democrazia partecipativa
di Francesco Paolo Barbato
Lo stato di emergenza , i sentimenti intrecciati di angoscia, impotenza e paura scaturiti dalla rapida e tragica diffusione del COVID-19 e dei suoi effetti, turbano ognuno di noi e, conseguentemente, ci obbligano a profonde ed importanti riflessioni. La situazione drammatica che l’Italia e il mondo sono chiamati ad affrontare oggi costituisce senza dubbio un fenomeno che evidenzia e mette in luce la debolezza dell’uomo di fronte ad avvenimenti come questo ma, come ogni altra esperienza umana, positiva o negativa che sia, offre un’occasione imperdibile di grande crescita e miglioramento dell’uomo e delle Istituzioni che lo governano . Ogni momento di difficoltà , ogni manifestazione tangibile del male, ogni qualvolta che l’uomo vede la propria esistenza minacciata da fattori esterni, che ne sconvolgono l’equilibrio, consentono di considerare la realtà come un imprevedibile divenire . Tentare di approfittare di queste situazioni che la natura ci impone per ripensare a noi stessi e a ciò che ci circonda sembra quindi necessario. La crescita e l’analisi autocritica che ogni cittadino, ogni Stato e ogni tipo di organizzazione sovrannazionale devono portare avanti nel futuro post-virus, investono tutti i settori della politica, ovvero della vita di tutti noi. In questa ottica, quindi, le Istituzioni Europee e non, le democrazie e i loro rappresentati , i cittadini tutti dovrebbero adottare e attuare una politica efficiente di preoccupazione, ma non nel senso allarmistico del termine, quanto nel senso di occuparsene prima. Senza dubbio, emergenze come COVID-19 si affronterebbero in un modo più significativo e con misure certamente più valide se quest’ultime fossero già parte costituente di un sistema. La fragilità del mondo sanitario e la mancanza di un’educazione alla prevenzione da parte delle Istituzioni non fanno altro che amplificare le conseguenze già gravi di epidemie come questa e, allo stesso tempo, rallentano quel complicato processo che dovrebbe portare al superamento di tale circostanza. In un clima di assoluta incertezza, però, emergono in modo preponderante aspetti della società, della “comunità”, che , invece , ne sottolineano e ne fanno apprezzare le grandi certezze. Il sentimento comune di coesione , collaborazione ,di sacrificio e appunto di “comune”, lascia intravedere la vera natura dell’essere umano , dell’essere cittadino, che i Padri fondatori dell’ Europa intendevano trasmettere anche all’ “essere Europeo “. Tutto ciò rappresenta una delle principali difese da qualsiasi malattia. Se, però, i valori di partecipazione, solidarietà, uguaglianza e responsabilità civile non sono costantemente alimentati e non vengono continuamente mantenuti, ecco che tale difesa risulta purtroppo inadeguata al momento di dover fronteggiare un attacco del genere . E il fatto che gli uomini e le Istituzioni riescano ad apprezzare lo stato di communitas, cioè la possibilità, tutt’altro che scontata, di poter collaborare per raggiungere un grado di maturazione soddisfacente, solo e unicamente quando la natura delle cose impone di stare lontani, non costituisce una virtù, bensì un grave difetto. Tale limite è facilmente ricollegabile e attribuibile al contesto europeo, che vede le sue componenti ragionare in modo individualistico nell’ordinarietà ed, invece, assumere un atteggiamento di apertura e solidale esclusivamente in periodi tragici. La portata di un fenomeno planetario come il virus, quindi, agirà da spartiacque tra un’evidente crisi dei valori tradizionali, un preoccupante declino dei processi democratici e una ripresa di quei valori che consentono alla democrazia e ai democratici di sopravvivere e di definirsi tali. Proprio in questi contesti, quindi, può essere sradicata quella ormai cronica diffidenza che vive nel rapporto cittadini-Istituzioni per avviare processi democratici sempre più tendenti alla partecipazione.
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