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L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Alessandro Corbino

23 MARZO 2020

di Alessandro Corbino

Se un appello dobbiamo oggi fare non è – a mio sommesso modo di vedere – a “qualcuno”. A chi ci governa. A qualunque livello. L’appello necessario dobbiamo rivolgerlo a noi stessi. A coloro che quei governi legittimiamo. Con il nostro consenso (raramente). Con la nostra passività (ordinariamente).

Un momento come quello presente esige sicuramente compattezza e disciplina. Ed esige – non meno sicuramente – una guida “sicura” e ben “orientata”. La quale non può non essere oggi quella di coloro che il “caso” ha preposto alle cose. I governanti di questo momento non possono che essere coloro che hanno attuale investitura. E bene facciamo perciò ad invitarli a considerare la gravità del momento. Non è tempo per altro. Ma questo non significa anche che non dobbiamo – da subito – riflettere su uno stato di cose che va modificato.

L’esperienza della pandemia ha reso palese a tutti che le ragioni delle insufficienze dei nostri sistemi “liberal-democratici” occidentali (nelle diverse declinazioni: li riguardano tutti) sono legate alla cultura “giuridica” e dunque agli assetti di governo (intesi nel senso più generale) delle nostre società. Non siamo più in grado di decidere tempestivamente, efficacemente e democraticamente.  Per la ragione semplicissima che chi deve decidere ritiene di dovere “dettare” e non invece – come non può non essere – “sintetizzare”. E dunque vive o di esitazioni (quando comprende che le attese sono variamente orientate) o di improvvisazioni (quando lo preme la necessità). Non devo ricordare a nessuno il succedersi piuttosto scomposto (al quale assistiamo, non solo in Italia) di provvedimenti di emergenza (ma anche di “dichiarazioni impegnative”, economiche e persino scientifiche) che si rivelano il giorno dopo (insisto: il giorno) già da rivedere.

Nell’emergenza è emersa – con drammatica evidenza – l’inesistenza della “politica”. I nostri sistemi vorrebbero esserne espressione. Probabilmente lo sono stati. Di certo, non lo sono più. E non per malvagia intenzione (o anche solo pervicace insipienza) di questo o quello. Non lo sono perché non vi è più alcuna corrispondenza tra i “modelli” che ci siamo dati (gli ordinamenti giuridici) e le “pratiche” che ne sono venute. I modelli (le nostre “costituzioni”) sono stati costruiti nell’illusione che essi potessero regolare la vita quotidiana delle nostre collettività per sempre (quasi diretti a disciplinare una realtà già “nota” e sostanzialmente “immobile”). E hanno dunque lasciato (com’era inevitabile che fosse) spazio ad una “pratica” degli stessi che se ne è resa (spesso) indipendente. Penso a ciò che è accaduto con la questione giustizia in Italia.

Abbiamo perduto di vista la relazione (insuperabile) tra “complessità” della realtà e conseguente necessità che la “decisione” – in un ordine “politico” (dunque di autogoverno) – sia il risultato di un “processo” collettivo. Deve avere come “premessa” le condizioni (anche e prima di tutto “culturali”: determinano la formazione del “cittadino”) che ne rendano possibile un diffuso “consenso”. Attraverso percorsi che possono (debbono) avere configurazione varia, ma che devono rendere (il più possibile) quel “risultato” individuo (l’atto generale di indirizzo o di amministrazione, la decisione “giudiziaria”) una determinazione che “compone” istanze diverse (che possono essere talora contrapposte, talora solo lontane nello spazio, talora influenzate dai diversi contesti, talora di differente urgenza, talora in relazione dialettica ulteriore). Il che non significa affatto guardare ad un defatigante e inconcludente interrogarsi continuo. Significa comprendere che la decisione “politica” non può, di principio, essere affidata a meccanismi di semplificazione. Li deve prevedere. Non li deve dunque né escludere, né esaltare. Li deve semplicemente “includere”. Deve essere possibile coniugare l’esigenza di efficienza e tempestività con la contemporanea necessaria attenzione al concorso dei “fattori” (molteplici e spesso originali) che incidono sulla configurazione della realtà. Capisco benissimo che dare espressione a una tale visione culturale sia facile solo da enunciare. Ma è la sfida con la quale ogni “politica” (ogni sistema di autogoverno) si è sempre dovuta misurare nella storia (al diverso e mutevole livello di difficoltà che essa propone). E dunque con l’ausilio degli strumenti (sempre più raffinati) che le tecniche nel tempo mettono a disposizione.

Scendo al concreto.

Abbiamo maturato l’idea (di matrice illuministica) che la “legge” (il “disegno” delle cose: ne presuppone configurazione e ne detta disciplina) fosse sufficiente a regolare le nostre esistenze. Quando invece ciò che dà effettività alla realtà materiale non è la (pur indispensabile) “legge”, ma il “diritto”.  Non conta solo il “criterio” che guida l’osservazione delle cose. Conta (e molto) anche il “diritto”, il significato che dà alla legge colui che è chiamato a darvi attuazione.  Il “fatto” che egli “deve” disciplinare non sempre si ripresenta nella configurazione che ne è stata predefinita. E tuttavia  deve ricevere definizione. Come infatti accade. Ma questo non deve sottrare chi provvede al giudizio di opportunità che ne consegue. Un giudizio che non cambierà (non potrà) la decisione “specifica”. Ma che è indispensabile ad “orientare” quella futura.  Anche il “diritto” merita, in un ordinamento che voglia essere “politico” (di autogoverno), un’attenzione collettiva (nelle opportune forme) non minore di quella che riserviamo alla legge. Come i fatti che stanno stravolgendo le nostre vite sottolineano, la legge nasce dall’esperienza, ma disciplina ciò di cui non vi è stata ancora esperienza. Accade non solo quando gli eventi siano assolutamente nuovi (come quelli che stiamo vivendo). Accade sempre. Ogni “caso” sul quale decidere è sempre “individuo” e non riconducibile meccanicamente perciò all’astratto criterio (la legge) che ne orienta la soluzione (che l’amministratore/giudice) deve adottare. Ed esige dunque capacità di “attenzione” nel decidente. E capacità di osservazione in colui (il “cittadino”) che – direttamente o indirettamente – ne subisce le conseguenze. E dal cui “consenso” (di “governato”) discenderà il (necessario) giudizio “politico” (naturalmente, nelle complesse e varie modalità che ne rendono possibile la coniugazione di “generalità” e “competenze”). Dal quale dipenderà la rinnovata “legittimazione” o meno dei “governanti”, che è a fondamento di ogni metodo di autogoverno.

Vengo all’appello presente.

Anch’io credo che nessuno Stato europeo sia in grado da solo di reggere alle necessità del nostro tempo. Credo anche tuttavia che l’esperienza abbia dimostrato che dell’Unione Europea sia stata concepita un’identità “politica” del tutto impraticabile (o almeno incompatibile con una visione liberale). La “politica” è un metodo di governo che esige “concorso” (ciascuno deve potere incidere, come “cittadino” della polis, sulle scelte comuni) e “comunione di cultura” (una “storia” condivisa che faccia da sostegno ad un rinnovamento degli obbiettivi che nasca dall’esperienza e non dalla presunzione). I Paesi europei non hanno una storia condivisa. Hanno culture profondamente diverse (lingua, religione, tradizioni) che affondano le loro ragioni in percorsi spesso millenari (e dunque di grandissimo radicamento). Di comune hanno il patrimonio scientifico-tecnologico e la possibilità di avere convergenti interessi economici. Un fatto che però condividono con tutto il mondo e perciò insufficiente a generare “identità specifiche”. Elevati – come si è fatto negli ultimi decenni – a “bandiera” hanno solo l’effetto di marginalizzare i valori legati alle storie specifiche. Una evenienza che “spersonalizza” (e che non condivido). Per farmi comprendere meglio: promuove l’idea della “assimilazione” forzata dei diversi e non di una loro “integrazione” per spontanea convergenza. Favorisce nei fatti la sopraffazione delle minoranze, di quel pensiero “indipendente”, che io giudico essere invece il motore primo di ogni progresso “libero”. Le “minoranze” non possono ovviamente pretendere di indicare la linea. Ma senza rispetto delle minoranze vi sono solo regimi. Ne possono mancare camicie e stendardi. Ma non ne manca la sostanza. Chiudo dunque. A me sembra che un’Europa Unita sia una necessità “politica” e non morale. Risponde ad una ragione di utilità. E nelle condizioni storiche date essa può esserlo – a mio sommesso modo di vedere – in una direzione molto diversa da quella che l’ha connotata fin qui. Viva dunque l’Europa. Oggi perché senza quella “solidarietà” (economica e monetaria) che essa può assicurare in questi terribili momenti dovremmo affrontare (tutti, forti e meno forti) difficoltà forse oltre le nostre possibilità. Domani perché essa resta una necessità storica.  Ma secondo un ordine costituzionale e politico del tutto diverso da quello che abbiamo vissuto fin qui. Quale? Non so dire. Credo che solo una riflessione approfondita ed “aperta” (priva di modelli ma ricca di conoscenza storica) potrà aiutare. L’appello deve essere alle intelligenze. Deve sollecitarne l’impegno perché sappiano (coralmente e in un dialogo libero) accompagnarci verso una strada indispensabilmente nuova, come era evidente prima della pandemia. E come la pandemia può avere solo reso anche manifestamente indifferibile.

 

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