Ateneo

L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Paolo Zanenga

23 MARZO 2020

Connecting Polis Europa

di Paolo Zanenga

 

1- I poli di connessione della prima Europa

Nell’anno 529 hanno luogo due eventi che segnano la storia: Giustiniano chiude dopo nove secoli di vita la Scuola di Atene, fondata da Platone nel 387 a.C., creando una significativa cesura, se non una fine, nella storia della filosofia classica. Vengono anche ritirati i testi di 36 generazioni di filosofi. Più nessuna opera rimane in circolazione, lasciandone sopravvivere solo una piccola parte grazie alla tradizione indiretta di personaggi come Agostino, Boezio, e altri (1).

Nello stesso anno, Benedetto da Norcia fonda il monastero di Montecassino. I due episodi non sono collegati, ma la loro sincronicità invita alla riflessione.Daun lato un’autocrazia interrompe dall’alto del suo potere un percorso culturale durato secoli; dall’altro, iniziative molto più umili, partendo da una visione ben diversa del mondo e dei suoi “loci”, inizianodal basso a tessere una nuova tela (quella del monachesimo occidentale) che, anche favorendo una rinnovata, lenta metabolizzazione della cultura classica nella società altomedioevale, ricostruisce nei secoli successivi la base della cultura e dell’economia dell’Europa, la stessa Europa che conosciamo oggi.

Credo che il messaggio che ci viene da un tempo così lontano suggerisca alcuni paralleli con la situazione contemporanea.

Il monachesimo nasce e si sviluppa in Occidente come un tipico fenomeno di resilienza. La crisi dell’Impero d’Occidente, le migrazioni di popoli che non condividevano la tradizione culturale greco-romana, la consistente riduzione demografica e l’abbandono di città e terre coltivate, delineano una crisi di grandi dimensioni, i cui prodromi risalivano amolto tempo prima. In questo panorama, i movimenti monastici si distinguono per la loro attenzione alla cultura e al lavoro.

 Il miracolo dell’Alto Medioevo, di cui i monasteri sono stati a lungo i principali protagonisti in un ambiente difficile e spesso ostile, è stata l’incubazione e la genesi di una cultura, quella europea occidentale, che specie dopo l’anno Mille ha sviluppato una dinamica formidabile.Un miracolo anche perché si partiva da una situazione di naufragio materiale e istituzionale senza precedenti; tuttavia, si seppe portare a sintesi armonica imponenti risorse culturali del passato in forme nuove.

Decisivaquindi nella formazione della prima Europa è stata la dimensione di rete: la distribuzione e i collegamenti tra punti di riferimento come i monasteri, ha portato alla formazione di sistemi straordinariamente fertili, capaci di sviluppo sia per auto-riproduzione, sia per evoluzione trasformativa indotta dalle continue (anche se rare e lente per i nostri standard) contaminazioni reciproche. Il loro sviluppo ha portato alla prima forma di identità e di coscienza comune europea, e ha favorito lo sviluppo successivo di altre reti: le leghe di città, le università, gli ordini cavallereschi, le fiere commerciali, e più tardi la finanza.

In questa prima Europa i poli territoriali, pur intensamente identitari, non sono chiusi, la logica dei confini non è prevalente, e non lo sono neppure le differenze linguistiche. Se osserviamo lo sviluppo di un grande movimento culturale come l’architettura romanica, noteremo che la sua diffusione si collega alle grandi vie di pellegrinaggio, come le vie francigene, dirette a Roma, o il cammino di Compostela. La geografia dell’uomo medioevale non è territoriale ma polare, ed è in questo quadro che il senso di communitas emerge e disegna uno spazio che oggi definiamo europeo.A fronte di una produzione economica prevalentemente legata alla terra, così come la maggior parte della popolazione, emerge una “rete neurale” che inventa le proprie sinapsi, destinate a rappresentare dei riferimenti fondanti per la costruzione della cultura europea successiva: oltre ai monasteri, le scuole cattedrali, le commende, i fondachi, le “città libere” (liberi comuni, Freie Städte,bonnes villes...).

La sovrapposizione a queste reti di nuove entità, caratterizzate da un controllo territoriale più forte e definito, caratterizza la formazione delle istituzioni pre-moderne e moderne.

 

2- L’emersione della modernità e la fine delle “prime reti”

È interessante cogliere come questa formazione si articoli in processi interconnessi e tali da sostenersi mutuamente: religiosi, politici, economici, culturali, giuridici. La trama comune consiste in una diversa Weltanschauung, che gradatamente prende corpo. Il carattere di questa trasformazione, utilizzando un concetto che appartiene alla contemporaneità, è: riduzionismo, cioè capire, teorizzare, giudicare, governare, partendo dalla separazione del sistema mondo e dall’isolamento di “oggetti”.

Mi sembra che si possano definire tre fasi principali con cui questa Weltanschauung dei moderni emerge e cresce, più una quarta, tuttora in corso, in cui si incrina.

La prima fase parte da alcune discontinuità avvenute già nel pieno medioevo (XI e XII secolo), che sfociano in una grande trasformazione nel periodo critico1250-1350. È la fase che accompagna l’Europa verso quello che Huizinga ha chiamato “autunno del medioevo”.Nella fase espansivadel periodo 1000-1200, le proprietà feudali erano in simbiosi con i nodi delle reti in crescita, che erano funzionali allo stesso sfruttamento e valorizzazionedei fondi. Dopo il fallimento del grande esperimento visionario di Federico II, e con l’insorgere di una crisi di risorse dovuta forse a una crescita demograficain spazi ormai saturati, con la comparsa di carestie frequenti, si esaspera la volontà di controllo di chi detiene posizioni di potere, generando conflitti e separazioni che sboccano in nuove forme istituzionali, nelle quali il territorio non è più solo una proprietà, ma un riferimento di potere politico (signorie in Italia, domaine royale in Francia). Questo fenomeno, combinato con l’ereditarietà delle proprietà feudali, spinge alla modifica,e spesso alla frammentazione, di identità territoriali formatesi in secoli di evoluzione regionale locale. Contemporaneamente, il conflitto tra papato e impero delegittima proprio le istituzioni che dovevano essere fonte di legittimazione.

La frammentazione della ”rete europea” non ne incrementa la diversità culturale, ma in genere la diminuisce, perché vi corrisponde una volontà di omologazione interna ai nuovi domini: minoranze religiose e linguistiche vivono una prima fase di repressione, e a volte di genocidio; caso tipico è l’area occitana, in cui la crociata contro gli Albigesi non rappresenta solo una forma di repressione religiosa e sociale, ma blocca lo sviluppo di una cultura all’epoca moltopromettente. Le strutture reticolari sono poste sotto controllo o annullate: i monasteri perdono potere, importanti ordini cavallereschi, come i templari, sono soppressi; la stessa cattività avignonese del papato testimonia l’emergere di un proto-stato come quello francese. Il potere territoriale tende a organizzarsi per colmare i “vuoti”, perciò impone il suo controllo su aree primagovernate secondo antiche consuetudini. A volte questo non riesce: il patto del Rütli, che simboleggia la nascita della prima Confederazione Svizzera, ne rappresenta l’episodio più noto.

L’accelerazione dello sviluppo dell’economia monetaria (coniazione del primo fiorino d’oro a Firenze nel 1252) contribuisce a rendere più estesi e complessi i rapporti finanziari; il parallelo sviluppo di pratiche speculative e dell’usura solleva l’interesse e la valutazione dei contemporanei, primo tra tutti Tommaso d’Aquino.

La necessità di controllo verticale investe anche la cultura: dapprima diminuisceil sincretismo e la creatività mitopoietica del mondo cristiano altomedioevale (testimoniato dalle rappresentazioni fantastiche del romanico e dalla letteratura epica), frenati dalla “sobrietà” di cistercensi e domenicani, dall’altro è sempre più frequente nell’autorità religiosa la preoccupazione di stabilire dogmi, di fare distinzioni tra ciò che va bene e ciò che è eresia. Il conseguente inaridimento della cultura dei chierici apre la strada a una cultura laica, che ricostruisce una propria mappa del mondo in chiave più soggettiva, e in certo modo fonda la modernità.

La violenta riduzione demografica causata dalla Peste nera a metà del ‘300 chiude questa fase, e apre uno scenario in cui le innovazioni dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, porteranno a definire lo spazio del territorio moderno e a metterlo a disposizione dei nuovi poteri emergenti: la delicata Gemeinschaft medioevale si dissolve nel culto del detentore del potere politico, ben rappresentato dal Principe di Machiavelli.

La seconda fase formativa della modernità è quella “classica”: parte alla fine del ‘400, con l’apertura delle rotte oceaniche e la diffusione della stampa, che creano la prima globalizzazione, e anche la prima omologazione; si concluderà con Westfalia (1648). È un nuovo ordine in lotta con il passato e con il futuro: si bruciano le streghe, portatrici di una sopravvissuta cultura pagana, e si brucia Giordano Bruno, che con straordinaria capacità visionaria anticipa un’idea di universo vicina alla nostra. La signoria si sostituisce a papato e impero e si autoproclama stato. Alla pace di Augusta (1555) si decide che “cuius regio, eius religio”. La stessa chiesa romana si è da tempo configurata come una signoria e poi come uno stato, e l’impero è diventato una confederazione di principati germanici.

Riforma e Controriforma, primi prodotti della Galassia Gutenberg, generano dei fondamentalismi, rivoluzionari verso il passato, reazionari verso il nuovo, intrinsecamente conflittuali, che sboccherannoin quel periodo turbolento e terribile chiamato Guerra dei Trent’anni, iniziato come guerra di religione e finito come guerra tra stati. La pace di Westfalia fonda la statualità moderna, che nasce anche come spazio di normalizzazione del conflitto religioso.Richelieu può creare il nuovo modello di stato assoluto, dopo che Cartesio col Discorso sul metodo (1637) aveva descritto il contesto cognitivo su cui poteva poggiare, e prima che la pubblicazione del Leviatano diHobbes (1651) gli conferisse un telaio concettuale.

La terza fase inizia con la Rivoluzione Francese e termina con le guerre mondiali del ‘900. Lo stato di Westfalia è ormai abbastanza consolidato da poter eliminare la sua testa, il suo “primo stato”, la fonte da cui è nato, l’aristocrazia, ancor prima che fosse reso obsoleto dalla Rivoluzione Industriale. Dai “tre stati”, si passa definitivamente a una concezione integrale dello “stato”. Si elimina con l’aristocrazia anche una classe  europea internazionale, trasversale ai singoli stati, una rete la cui mancanza rende la conflittualità tra le nazionisempre più radicale, fino al macello della Prima Guerra Mondiale e alla catastrofe della Seconda.

Dopo che Cartesio aveva separato il soggetto dall’oggetto, Kant definisce la conoscenza possibile come conoscenza di oggetti. Ne seguono derive interpretativeche portano all’espulsione dal dominio del “reale” di tutto ciò che non è “oggetto”. La filosofia, la scienza, il diritto dell’800 e del primo ‘900 diventano discipline “positive”, così come le nuove scienze sociali: economia, sociologia, antropologia, psicologia, estetica vanno a formare un contorno rispetto al nocciolo delle scienze naturali, la cui positività era – oggi diremmo a torto - data per scontata (2). In particolare l’economia positiva ritiene di poter definire dell’uomo (homo oeconomicus) siai comportamenti (razionali), sia i bisogni (in parte definiti “di base”) e gli interessi, secondo un misto di materialismo e di istanze etiche di cui possiamo trovare le tracce già nella prima di queste tre fasi, per esempio negli scritti dell’Aquinate. L’economia nasce come economia di scarsità: questo ne condiziona i criteri e i concetti, e influenza enormemente la politica. Lo stato, nato nel Medioevo come spazio di potere spesso violento e predatorio, pur continuando anche nei tempi moderni a basarsi sul controllo della violenza legittima, assurge a garante dei diritti e dell’etica.

Si compie in questa fase anche il passaggio dal latino, fattore culturale unificantefin dall’antichità, alle lingue nazionali: nell’800 e soprattutto nel ‘900, le lingue moderne diventano un carattere costitutivo e fondante degli stati nazione, sono quindi imposte inun processo che sopprime le lingue minoritarie ed esaspera i nazionalismi, anche attraverso vere e proprie costruzioni politiche e propagandistiche artificiose, come i vari Kulturkampf. La cultura raffinata e cosmopolita del ‘700 è sostituita da programmi di istruzione popolare spesso artefatti, manipolati e omologati, funzionali al potere degli stati e propedeutici a forme di democraziache scivolano facilmente nei totalitarismi.

Nonostante tutto questo, la cultura alta in Europa continuò a rimaneresempre unarete internazionale molto efficace. Gli scienziati, e soprattutto gli artisti, continuarono a costituire comunità in continua contaminazione, in grado di creare sia movimenti intellettuali, stili, estetiche, siaeventi più popolari e coinvolgenti,come le esposizioni internazionali e le manifestazioni sportive. Queste reti sono sempre rimastenon solo trasversali rispetto ai diversi stati, manon hanno mai smesso di recuperare fonti del passato per rilanciare nel futuro nuove prospettive. Chi oggi pensa assurdamente che l’Europa non esista, dovrebbe ricordare che le discipline scientifiche e sociali studiate oggi in tutte le accademie del mondo sono nate in Europa, e spesso, per esempio l’antropologia, in dichiarata contrapposizione tra l’Europa e il resto del mondo. L’identità europea forse può sfuggire agli europei nostri contemporanei, ma è molto chiara negli altri continenti, dove viene tuttora fruita – e anche subita.

 

III. La crisi dell’”Europa moderna” e l’emersione delle nuove reti

Mentre dopo la Guerra dei Trent’anni l’Europa conservò la leadership globale da poco conquistata, dopo la Seconda Guerra Mondialel’aveva persa, anche se rimaneva parte importante di un “mondo occidentale” la cui centralità era passata al Nord America. Il ridimensionamento dell’importanza dei singoli stati europei è cosa nota. Ciò che vale evidenziare è che il mondo nel frattempo tornava a essere un mondo di reti, più che un mondo di stati territoriali. Il ruolo degli Stati Uniti come polarità dominante nelle reti globali è, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, prevalente sul fatto di essere anche un grande paese, di dimensioni continentali.

Le reti principali dell’era contemporanea sono quella finanziaria e quella tecnologica, soprattutto quest’ultima, che costituisce sempre piùl’indispensabile infrastruttura della prima. Vi erano 7,3 miliardi di dispositivi connessi nel 2015 (3), ma il loro numero aumenterà di diversi ordini di grandezza con l’Internet delle Cose. Questo porta a generare flussi enormi e crescenti di dati (big data), che vanno a costituire l’ossatura sia della conoscenza fruibile, sia dei patrimoni finanziari. La tecnologia è pervasiva, dunque non è più territoriale, per la prima volta nella storia. La produzione non è più localizzata, e quindi anche i meccanismi fiscali in grado di sostenere il ruolo sociale degli stati territoriali sono ridotti a una condizione precaria e conflittuale.

Questo nuovo scenario emerge da un complesso sviluppo scientifico e culturale, che dai primi del ‘900 ha svoltato radicalmente, rispetto alla Weltanschauung positivista. Le rivoluzioni scientifiche, la revisione profonda dell’idea di matematica, gli sviluppi nelle scienze della cognizione e della vita, accompagnati da un’evoluzione della tecnologia che ci fornisce nuovi occhi e nuovi sensi rispetto alla realtà, hanno creato uno scarto larghissimo rispetto alle premesse filosofiche costitutive degli stati moderni, che sono più che incrinate. Questo scarto si è creato tra le scienze naturali e la tecnologia da un lato, non più deterministiche e non più legate all’idea di legge naturale, e discipline come l’economia e il diritto dall’altro, rimaste ancorate a un’idea positivista del reale, e ancora -ovviamente - basilari nell’orientare l’azione e il senso stesso degli stati.

Prendere coscienza di questo scarto è una grande e grave responsabilità delle classi dirigenti della nostra epoca. Oggi infatti il potere legislativo e normativo opera all’interno di un nomos non più legittimato dalla sfera scientifica, filosofica e culturale, se non attraverso rappresentanze formali ormai culturalmente quasi sterili. Viene in mente Platone, e la sua idea del governo dei filosofi. Il vero compito del governo (giuridico, politico, economico) sembra consistere nel saper riconoscere la realtà di un nomos che svanisce e di un nomos che sorge; compito evidentemente di filosofi.

L’incapacità del diritto positivo di uscire dal suo bozzolo è riconducibile sia a una colpevole rinuncia a una rinnovata consapevolezza del reale e a una sua nuova mappatura; sia a un’effettiva situazione di vertigine quando principi entrati nella cultura comune, come il carattere “erga omnes” della legge, contrasta con una nuova visione che fa a meno di dimensioni come l’”oggettivo” e l’”universale”. Ci può essere un “erga omnes” non totalizzante? Questa è la grande sfida della contemporaneità.

Simili considerazioni valgono per altre dimensioni dell’ordinamento: oltre che per il diritto, sicuramente per l’economia.

L’altezza della sfida non deve indurre a rifugiarsi in vuote generalizzazioni normative, che si moltiplicano in modo vano se devono rispondere a sistemi di maggior complessità: sembra il caso nel passaggio del sistema giuridico e legislativo dal livello nazionale (già straordinariamente farraginoso) al livello europeo. Se a una maggior complessità si risponde con una maggior complicazione, vuol dire che stiamo affrontando la complessità con modelli inadeguati, che ci sprofondano nel labirinto di Borges.

Questa inadeguatezza lascia campo libero a una polemica secolare tra una cultura basata sullo sradicamento della norma e sul formalismo astratto, contrapposta a una concezione vetero-europea che trova la propria specificità nel radicamento originario sul suolo, omogeneità concreta di una comunità che mette al lavoro la terra contro l'omogeneizzazione astratta del dominio dei mercati e delle industrie (4). È un contrasto in grande evidenza nell’Europa attuale, un residuo non risolto dai conflitti del ‘900, e non risolto, anzi colpevolmente strumentalizzato, dalla politica contemporanea: un conflitto che occorre superare al più presto, proprio come quattro secoli fa superammo le guerre di religione.

È urgente porre al centro non solo una nuova “mappatura” del reale - da cui desumere nuovi valori, diventare coscienti di nuovi patrimoni, stabilire nuovi riferimenti su cui si possa riconoscere una società europea - ma anche una capacità di “mappatura permanente”, di continua destrutturazione e ricostruzione, che sola può garantire i valori primari e fondativi della vita rispetto ai diversi Gestell, alle diverse gabbie, antiche e nuovissime, continue promesse di infelicità e di morte.

Un ordine che coniuga armonia e libertà, il cosmo dei classici, non nasce già definito, ma è il frutto di una continua e libera ricerca, di una scholè, attraverso cui scoprire le tracce di bellezza, che forniscono la trama a tessuti in estensione (5). È il modello dei processi cognitivi e vitali.

 

3- Una nuova scholèper l’Europa

Scholè, otium in latino, denota quello spazio della vita e delle attività umane libero da costrizioni e contingenze, svincolato dalla necessità e dal quotidiano, alimentato dall’energia dell’Eros e diretto da una nous libera da scopi predeterminati. È definita dal suo contrario (ascholia, negotium), richiamato fin dai tempi omerici nel mito di Sisifo, uomo che usa la sua mente come strumento di guadagno e vantaggio personale, e che finisce col vivere condannato a fatiche eterne, prive di ogni dimensione “erotica”, intellettuale o morale. Le forze che riducono Sisifo in schiavitù tendono continuamente, anche oggi, a comandare l’ingegno umano e a strumentalizzare le passioni umane. Disse Aristotele che le repubbliche incapaci di vivere una vita di scholè sono destinate al collasso (6).

Una vita di scholè ci protegge dunque dalle molteplici trappole che insidiano la nostra libertà, trappole in primo luogo culturali, epistemiche, dovute all’incapacità di rapportarsi col reale che nasce dall’ascholia.

Per questo al centro di ogni polis, anche di “Polis Europa”, dovrebbe esserci una scholè, un luogo di rigenerazione continua della conoscenza, di aggiornamento delle mappe, di ricostruzione dei modelli e delle narrazioni, di raccolta delle sensazioni e dei sentimenti generati dai viventi, di rielaborazione delle eredità del passato, di ordinamento armonico, in una parola di creazione dell’essere.

È molto difficile convincere chi è coinvolto in un flusso che avvolge tutto il suo presente all’epochè, alla sospensione. È difficile convincere il criceto a scendere dalla sua ruota, salvo che la ruota non s’incagli.

Oggi possiamo osservare come una grande ruota si stia incagliando, e stia palesando l’insensatezza dei modelli e delle narrazioni dominanti. Alla crisi dei modelli economici classici, non più in grado di remunerare capitale e lavoro, anzi non più in grado nemmeno di generare impieghi plausibili di capitale e tanto meno di generare occupazione, corrisponde una progressiva incapacità degli stati di assolvere le proprie funzioni sociali e giuridiche, col rischio di scivolare verso una crisi istituzionale di portata epocale.

È sicuramente possibile uscire da questo rischio, perché la crisi non è di risorse, non è di mancanza di alternative, ma puramente epistemica e culturale. Nuovi modelli, che sono grandiosi e promettenti,A fronte di questa situazione, stanno già emergendo ma richiedono un nuovo nomos, in nome di un superiore livello di civiltà e responsabilità. Lasciare solo all’intelligenza della tecnologia questo compito (la tecnologia evolve come una mente collettiva, non è governata ma governa, non è uno strumento ma un paesaggio, è lo snodo tra i mondi individuali e il “mondo”) (7) potrebbe condannarci di nuovo al destino di Sisifo.

Di fronte al nuovo paesaggio tecnologico, possiamo avere diversi comportamenti:

-          illudersi di strumentalizzarlo ed esserne stritolati, in una deriva ancor meno sostenibile di quella industriale

-          rigenerare cultura, valori e saperi a un livello anche più alto rispetto al passato.

Questa seconda è la via della scholè-otium, la prima è quella del negotium.

 

Una scholè per Polis Europa dovrebbe costituire una nuova porta cognitiva, un cammino di educazione nuovo e senza tempo, un ponte tra gli immensi patrimoni sedimentati nel nostro continente e l’era incombente dei paradigmi mutanti, con la sua complessità e le sue molteplici promesse di “inaspettato”.

 

4- Horizon 2020 (e oltre)

Come potrebbe profilarsi un nuovo nomos europeo, che ovviamente potrebbe costituire un modello di interesse globale?Possiamo già rilevare alcune tracce di cui tener conto.

Un tema evidente è quello dei confini, del limes. Fattore fondante degli stati territoriali, la loro abolizione fisica col trattato di Schengen, rimane una conquista forse piccola, ma positiva dell’Unione Europea. Rimangono come delimitazione delle attività sociali ed economiche su cui si esercita la giurisdizione dei vari stati, anche questa in parte sostituita da quella europea, e comunque in prospettiva affievolita nella sua importanza dal declino delle economie basate su beni tangibili e produzioni localizzate: finanza e tecnologia ignorano questi confini. Altro discorso è quello del confine esterno, del limes, mai come oggi paragonabile al limes dell’Impero Romano, e oggi come allora fonte di inefficacia, di costi, di crisi, di frustrazione. L’Europa non ha mai vissuto questo come un problema fino a che è rimasta in espansione. Dai tempi delle espansioni commerciali, mercantiliste, coloniali, il limes non esisteva, quello che contava era un sistema in espansione, una polarità egemone al centro di reti molteplici. Ci si accorge del limes quando ormai si è sotto assedio.

L’inversione di questa situazione è possibile se l’Europa torna a essere un polo di creazione dinamica di conoscenza, uno hub di sistemi complessi. Non è possibile ricostituire rapidamente un sistema di potere perduto, e probabilmente non sarebbe neanche augurabile. È però possibile, come al tempo dei primi monasteri, ricreare dei poli che si distinguano non per dimensioni, ma per eccellenza qualitativa, libertà e capacità di sperimentare il nuovo. Occorre creare un’identità non dipendente da confini.

Un altro tema interessante è l’evoluzione del concetto di cittadinanza. Forse un europeo del XXI secolo merita qualcosa in più della semplice cittadinanza. La traccia da seguire è quella dell’appartenenza multipla, della contaminazione tra identità molteplici, del riconoscimento a ogni persona di una sfera che si estende oltre la sua fisicità, che gli offre possibilità di scelta nel costruire se stesso, in quanto elemento costitutivo e costruttivo di reti, e non “soggetto” a un sistema, statuale o di altro tipo.

Terzo tema, importantissimo per l’Europa, è quello della diversità. E viene subito in mente la questione della lingua. I poteri verticali hanno sempre utilizzato l’omologazione linguistica come strumento di potere. Richelieu ha creato l’Academie Francaise già nel 1635, prima di Westfalia, e ha consolidato la lingua francese come un patrimonio nazionale, ma anche come un fattore di unità e identità dello stato.Il prezzo pagato è stato la perdita progressiva delle lingue regionali, poi parzialmente recuperate da movimenti successivi, sia nella fase romantica, sia nella contemporaneità.

In un mondo che si costituisce come polarità nelle reti, la diversità è una ricchezza inestimabile. Le lingue europee, nella loro diversità e nella loro profondità storica, offrono a questa parte del mondo un grande vantaggio. Chi pensa che l’Europa non esista perché non ha una lingua comune, ha un’idea bassa della società e delle persone. L’esempio del Tirolo è tipico di una regione con una forte identità, comprendendo al suo interno tre lingue maggiori (tedesco, italiano, ladino), e altre minori (mocheno, alemannico). La Svizzera è un altro grande esempio.Lingue diverse significano modi di pensiero diversi, e quindi disponibilità di approcci multipli all’esplorazione del reale.

Ovviamente è fondamentale la disponibilità di lingue franche, trasversali, come oggi sicuramente è l’inglese (o meglio il globbish, il global english). L’acquisizione fin dall’infanzia di strumenti linguistici multipli acuisce il potenziale intellettuale e culturale della persona, e favorisce la multi-appartenenza. Uno standard europeo ragionevole potrebbe includere la conoscenza di almeno altre due lingue, oltre alla propria lingua madre e all’inglese.

L’idea di Polis Europa poggia quindi sulla capitalizzazione della diversità attraverso la creazione di luoghi di collegamento, di ponti, tra universi differenti, in cui fondare officine, “atelier”, di creazione di conoscenza. Il concetto fondamentale è il riconoscimento della conoscenza situata nelle reti, fluida, in continuo cambiamento e creativa di nuova conoscenza attraverso processi di contaminazione; è un concetto alternativo a quello di conoscenza universale, quasi statica, impacchettabile e trasferibile, come avviene nell’istruzione che conosciamo e pratichiamo nelle scuole e nelle aziende. Nel mondo dei paradigmi mutanti delineato dalle tecnologie pervasive, i dati, le informazioni, sono una risorsa abbondante, anzi soverchiante rispetto a ogni tentativo di contenerla e trasferirla. Il processo valoriale è quindi proprio quello della scholè, centrato sull’esplorazione e la creazione: le missioni di scuola, impresa e territorio, separati funzionalmente e istituzionalmente nella modernità, tornano a convergere in un sistema complesso armonico, “bello” e generativo.

Poli di questo tipo, a cominciare dalle regioni e dalle città più consapevoli, possono creare una rete, uno spazio interattivo e generativo, che caratterizza Polis Europa, ne capitalizza il patrimonio di diversità e rende alla cultura il suo valore strategico: non attività marginale tra le altre, ma telaio e motore dello sviluppo civile ed economico.

Questo nuovo modello di Europa non chiede di essere misurato, ma si propone come generatore di nuove misure, come modello per il mondo.

 

5- Una proposta per prossimi approfondimenti

Gli stati hanno fatto la storia dell’Europa, almeno dal 1648 fino al 1945. Poi sono emerse reti più potenti, più efficaci, più generative. Gli stati europei hanno pensato allora, come tutto il pensiero dominante indicava, che il problema fosse di scala, quantitativa. USA e URSS erano più grandi degli stati europei, e quindi l’Europa doveva unirsi per diventare un grande stato. Le problematiche erano complesse, perché un processo di unione è sempre una perdita di potere, o almeno di compromissione del proprio modello con quello di altri. Ricordiamo che l’opposizione di De Gaulle all’ingresso del Regno Unito in Europa era legata a vari fattori, tra cui la concezione diversa dello stato sociale. Allora il pensiero positivo trionfava ancora, l’idea di sistema complesso era nelle menti e sui tavoli di un’intelligenza che influiva poco o niente sulla politica, ancora ferma alle ideologie. L’Unione Europea è nata e si è sviluppata in una logica additiva, non moltiplicativa, generativa. A ogni passo in avanti corrisponde da parte di qualcuno qualche passo indietro, il concetto di negoziato finisce per focalizzarsi sui dettagli e perdere la visione strategica. Un’unione tra enti generati da una cultura di separazione rende tutto straordinariamente lento e complicato, e produce istituzionicomplicate, in cui la preoccupazione da parte di singoli stati, specialmente i maggiori, di perdere il controllo, è molto evidente.

Nella storia del pensiero occidentale, alla visione deterministica e riduzionista ha fatto da contrappunto, in tutti i tempi, una sensibilità più inclusiva e aperta, manifestata da molti pensatori. Il pensiero di Nicola Cusano, lontano nel tempo ma vicinissimo nello spirito, ricordato e illustrato in questa conferenza, rappresenta questa corrente, spesso costretta a diventare sotterranea, ma oggi emergente in un nuovo Zeitgeist. Ci suggerisce un approccio diverso, forse non alternativo a quello percorso finora, ma certamente diverso è più fertile. L’Europa non è una somma di stati, ma – diremmo con termini contemporanei – un sistema emergente, un ecosistema, in cui la diversità delle sue componenti, delle nationescome dice Cusano, interagisce in modo generativo. Questo è stato anche il carattere delle “polis” che nella storia d’Europa hanno creato i modelli che caratterizzano una cultura fondamentalmente unitaria.

Oggi, nel nuovo spazio delle reti, le città e le regioni d’Europa possono costruire con la loro storia, la loro identità, il loro talento, le loro reti, la “Polis Europa” e dotarla del suo patrimonio naturale.Le euroregioni in formazione oggi sono embrioni di questo carattere complesso e interattivo della Polis Europa: si costituiscono giustamente su considerazioni di carattere naturale e geografico, ma anche storico e culturale. Nella nuova dimensione dei paradigmi mutanti, non solo la concezione dello spazio, ma anche quella del tempo si modifica: ogni regione è quello che è, ma anche quello che è stata in ogni tempo, perché ogni momento della sua storia accresce il suo patrimonio, non solo la sua condizione presente.

La formazione delle euroregioni risente però del carattere di territorio definito per motivi amministrativi delle sue componenti regionali o subregionali, e questo è un limite. Sarebbe interessante definire le euro regioni come poli senza confini rigidi, e con possibilità di attrazione e integrazione di partner secondo logiche multiple, non solo territoriali, ma anche di altro tipo.

Il passaggio dal concetto di identità territoriale al concetto di identità polare apre ulteriori possibilità. Potremmo definire come poli della Polis Europa non solo territori identitari, ma anche città, strade, campi di studio, scuole e movimenti d’arte, infrastrutture chiave, sistemi imprenditoriali, parchi naturali, centri scientifici, e creare stratificazioni multiple di spazi, di significati, di valori, di concentrazioni di capitale. Un sistema complesso non si definisce come somma di parti e parte di sovrasistemi, ma come “emergente”: quindi pari dignità e identità per una città e per la regione di cui fa parte geograficamente, senza sovraordinamenti, sostituiti da multiappartenenze, e così via per tutti gli altri poli. Ogni polo è portatore di una conoscenza situata, ha una storia, ha un sistema di relazioni, ha un potenziale patrimoniale, e contaminandosi di continuo con gli altri, produce nuova conoscenza, si struttura come piattaforma, come storia, come patrimonio, offre a “poli di regia”la possibilità di identificare nuovi attori, mappare relazioni, facilitare interrelazioni e sviluppi, e curare l’integrità, l’efficacia e la misura dell’ordine complessivo.

Potrebbe essere il punto di partenza di un nuovo mondo.

 

Note

  1. Paolo Zanenga, Le reti tra antichità e medioevo, tra modernità e postmodernità, in Cronache goletane, 393 9492981
  2. Immanuel Wallerstein, Comprendere il mondo – Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo (Asterios, 2013), 97-116.
  3. Mobile World Congress 2016, at mobileworldcongress.com
  4. Giulio Itzcovich, Il Nomos della terra e la polemica con il positivismo giuridico: Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, at http://www.juragentium.org/topics/thil/it/itzcovic.htm
  5. Serge Salat, Cities and Forms: on Sustainable Urbanism (Hermann, 2011)
  6. Kostas Kalimtzis, Aristotle on Schole and Nous as a Way of Life, at http://www.ihnpan.waw.pl/wp-content/uploads/2014/10/3_kalimtzis.pdf
  7. William Brian Arthur, La natura della tecnologia – Che cos’è e come evolve (Codice 2011), 183-193.

 

Preparato originariamente per POLIS EUROPA

Castel Tirolo, 22-23 aprile 2016

 

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