23 MARZO 2020
La paura ci dice che siamo uguali, ma che ci salveranno le differenze
di Ortensio Zecchino
Mai l’uomo si è trovato così uguale ad ogni altro, come in questa circostanza: uguaglianza nell’appartenenza alla specie umana. La morte, si dice, rende uguali e ‘La livella’ di Totò ce lo ricorda. Ma la morte induce solo un astratto pensiero di uguaglianza, perché è evento troppo singolare, che non si può condividere con chi ormai non c’è più. Vivere il tempo di un’epidemia globale ci fa invece sentire uniti tutti come anelli viventi della catena umana. Per sconfiggere il virus siamo costretti a isolarli materialmente, ma gli anelli restano ancor più uniti virtualmente e, aggiungerei, spiritualmente, come ben dimostra l’esperienza di questi giorni.
L’umanità nella sua storia ha vissuto tante epidemie. Le due più note e, forse, più gravi, la peste nera del 1348 e la spagnola del secolo scorso, pare che siano venute entrambe dalla Cina. Anche allora il virus viaggiava, se pur con minore velocità ma, dove arrivava, si diffondeva facilmente per le cattive condizioni igieniche, e non solo.
Ma allora ogni realtà viveva la ‘sua’ epidemia inconsapevole di quanto fosse accaduto o accadesse altrove.
Oggi siamo tutti nell’inedita condizione di vivere tutto in assoluta contemporaneità e condivisione. La pandemia mondiale ci rende tutti sempre più uguali e contigui perché le interconnessioni sono tali che ormai nessuna barriera può spezzarle e assicurare chiusure ermetiche. Tutto ciò deve indurci ad alcune considerazioni.
Le esperienze passate, pur diversissime, possono insegnarci qualcosa. La terribile peste del 1348 – che ebbe una diffusione larga, ma non planetaria - trovò terreno facile in realtà afflitte, non solo da cattive condizioni igieniche, ma ancor più da una grave carestia causata dall’instaurarsi, agli inizi del secolo, di quella che è ormai definita ‘piccola era glaciale’. Questa condizione fece sì che, dove penetrata, l’epidemia si diffondesse con irrefrenabile velocità e virulenza. Nel mondo ‘interconnesso’ di oggi, se dovessero realizzarsi condizioni climatiche avverse (e la prospettiva non è solo fantascientifica) l’insorgenza di pandemie, oggi inevitabilmente planetarie, potrebbe insidiare l’esistenza stessa dell’umanità, come non avveniva nel mondo ‘sconnesso’ di un tempo.
E questa considerazione, banalmente evidente – ma, almeno in apparenza, ignorata dall’obnubilamento di popoli e governanti – dovrebbe da sola bastare a farci capire che le singole, piccole realtà nazionali sono impari rispetto alle sfide globali, di fronte alle quali, ineluttabilmente e implacabilmente, saremo posti con sempre maggiore frequenza.
Un’ultima considerazione, in tema di uguaglianza, s’impone guardando alle vicende di questi giorni. Le nostre democrazie sono entrate in affanno perché i loro meccanismi sembrano non reggere di fronte alle pressanti esigenze, molto indotte dalla rete, di più alti livelli di uguaglianza. Queste esigenze sono sempre state presenti e vive nella storia dell’umanità. La modernità per soddisfarle è approdata prima al modello di Stato liberale e, più recentemente a quello di Stato sociale, che ha reso più sostanziale l’uguaglianza, aprendo la stagione dei diritti sociali. Oggi anche questo assetto è diventato precario, senza che all’orizzonte se ne intravedano nuovi e più adeguati. Ma la pandemia una cosa sta mostrando: la pericolosa inconsistenza di talune scorciatoie, come quelle offerte dalle teorizzazioni populiste dell’uno = uno. Assolutizzando il concetto di uguaglianza, queste teorizzazioni hanno preteso di decretare un indifferenziato livellamento, in sé negatore d’ogni diversità, anche di quelle fondate sulle competenze, in politica, a torto ritenuta mestiere improvvisabile, e finanche nella scienza, anch’essa regno di un auspicato ugualitarismo, in cui ogni voce dovrebbe avere pari diritto di cittadinanza, tanto che si è preteso di far passare ‘antivaccinismo’ e ‘vaccinismo’ come posizioni ‘ugualmente’ legittime.
Uno = uno è verità indiscutibile dal punto di vista del valore dignità, ma non è principio adottabile nell’organizzazione delle nostre società complesse, dove ognuno per rendere un valido servigio a tutti deve avere competenze acquisite nella progressione di esperienze e di studi: in politica, nelle scienze, nelle attività produttive, nelle professioni (come faremmo senza personale sanitario all’altezza delle sfide che stiamo vivendo? E potremo mai vincere il virus senza affidarci alle elites della ricerca biomedica?).
Verità, queste, che, mutatis mutandis, la saggezza antica aveva condensato nel cosiddetto Apologo di Menenio Agrippa.
(pubblicato su Il Riformista in data 20 marzo 2020)